Sindrome da Crollo dell’Ordine Neoliberale

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Sindrome da Crollo dell’Ordine Neoliberale

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Se l’elezione di Donald Trump ti ha sconvolto, se senti che il mondo ti stia crollando addosso e vorresti tornare agli anni felici prima del 2016, potresti soffrire di questa patologia – la risposta paradigmatica da parte dell’élite liberale alla Fine della Fine della Storia.

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da The End of the End of History, A. Hochuli, G. Hoare, P. Cunliffe, Zer0 Books, 2021

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foto CC BY–SA 4.0 Niccolò Caranti

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L’ala liberal-progressista della classe dominante ha fatto fatica ad abituarsi alla Fine della Fine della Storia – più fatica di qualunque altra sezione della società. I due eventi principali che hanno fatto perdere completamente la testa a commentatori e opinionisti sono stati il referendum sulla Brexit in Gran Bretagna e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, entrambi avvenuti nel 2016. 

Diverse sezioni di una vasta area centrista si sono schierate insieme in difesa dello status quo e contro l’apparente aberrazione storica rappresentata dall’eccentrico presidente Repubblicano. Tutti i massacri, il supporto per i dittatori e le azioni terribili compiute dagli Stati Uniti nel corso dei decenni sono state dimenticate: a essere davvero intollerabile, illiberale e antidemocratico era ciò che gli Stati Uniti stavano vivendo in quel momento nel persona di Trump. Queste reazioni si erano meritate un’espressione ad hoc: la “Sindrome da ossessione trumpiana” 

Ma il fenomeno era più vasto e più profondo di così. Nel Regno Unito, i sostenitori del Remain – una minoranza rumorosa che si rifiutava di accettare i risultati del referendum del 2016 – erano andati nel panico al pensiero che il Regno Unito stesse “lasciando l’Europa” (espressione che suggeriva l’idea che in qualche modo il paese non avrebbe più fatto parte dello stesso continente). Invece di tentare in buona fede di comprendere i profondi sconvolgimenti politici che avevano causato l’esito del voto per lasciare l’Unione Europea, gli opinionisti, gli esperti e i politici “rispettabili” avevano sostenuto tutta una serie di affermazioni assurde, dal puntare il dito contro la Russia al dare la colpa ai social media, condite di insulti nei confronti degli elettori. La verità, l’equilibrio, la proporzionalità – persino la maturità – erano state gettate via. La migliore spiegazione di quanto successo era… Harry Potter (così dicevano)

Anche diversi anni dopo la risposta liberal-progressista a questi eventi rimane segnata da una malinconica nostalgia per il recente passato. È straordinario vedere come uno strato sociale che si considera il guardiano morale e intellettuale della società, e dunque il critico numero uno del potere, oggi brami un passato ideale pre-2016 – un periodo che non è tanto distante dall’oggi. Questa nostalgia è accompagnata dal rifiuto delle proprie responsabilità. L’élite liberal-progressista, fino a poco tempo fa dominante, è incapace di riconoscere il ruolo svolto dalla classe politica nel creare le condizioni di oggi. I suoi mostri – Trump e la Brexit – sembrano essere apparsi dal nulla.

Queste reazioni isteriche alla Fine della Fine della Storia sono solo l’estremo più evidente di quella che definiamo “Sindrome da Crollo dell’Ordine Neoliberale” (SCON): l’incapacità delle élite stabilite liberal-progressiste di accettare, spiegare o reagire al cambiamento politico. Questo insieme di sintomi forma una patologia d’importanza cruciale per la politica contemporanea. I suoi caratteristici toni isterici e catastrofisti sono causati dal terrore di fronte al crollo di un vecchio ordine e dalla paura della propria imminente perdita di status. In particolare per gli opinionisti, si tratta della messa in discussione della loro posizione privilegiata di “esperti di politica”, con lo sbigottimento che ciò comporta. 

La SCON ha messo in luce la debolezza fondamentale dell’ideologia dominante di oggi – il liberalismo progressista postmoderno – e la sua incapacità di spiegare la politica contemporanea e di venire a patti con le sue numerose contraddizioni. Cosa succede quando si scopre che le pretese liberal-progressiste di un governo basato sulla competenza producono risultati non ottimali? Come si può riconciliare il desiderio di armonia sociale con le crescenti disuguaglianze? Perché l’enfasi sulla tolleranza sembra non estendersi mai ai comportamenti e alle abitudini della classe lavoratrice? 

Per quanto riguarda la distribuzione regionale e sociologica della SCON, bisogna prima di tutto notare che la SCON non è mai stata, e non è oggi, un fenomeno universale. L’ordine neoliberale si sta sfaldando un po’ ovunque, ma le reazioni psicologiche qui catalogate si sono manifestate solo in certi paesi. Nei paesi in cui la SCON si è manifestata essa ha colpito gli strati più elevati dei media, del mondo degli affari, delle arti, delle burocrazie sindacali, dell’università, dei think tank centristi o di sinistra moderata, dei politici di centrosinistra come di centrodestra. Hanno tutti reagito con uno spasmo nervoso alla fine della Fine della Storia. 

Ma la SCON non colpisce solo persone potenti e influenti. Chiunque abbia un buon capitale culturale e sia nell’orbita dei partiti di centrosinistra è probabile che abbia esibito sintomi da SCON. Anche se non è detto che i membri di questa sezione della società si percepiscano come i veri vincenti dal punto di vista economico (ovvero, l’1% nella distribuzione della ricchezza) essi hanno comunque tratto beneficio da un ordine sociale che garantiva loro, se non la ricchezza, almeno una certa autorità culturale. 

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E qui arriviamo a un paradosso. Questa sezione della società dà per scontato che le proprie idee e predilezioni siano senso comune, ma allo stesso tempo si sente costantemente sotto assedio. Un altro modo per esprimerlo è dire che, mentre il “set di valori liberal-progressista” (che mette insieme elementi come il cosmopolitismo, il rispetto per gli esperti, l’individualismo, l’enfasi sull’etica personale) è culturalmente egemonico, i liberal-progressisti si rifiutano di riconoscere la loro stessa egemonia. Hanno sempre le spalle al muro. Mentre le loro opinioni vengono ospitate dai giornali più prestigiosi, si sentono sommersi da uno tsunami di contenuti da tabloid. Vantano il loro impegno per la tolleranza e la diversità, ma impallidiscono quando sentono i loro concittadini esprimere idee non liberal-progressiste. Anche talvolta critici del governo del momento – spesso criticandolo “da sinistra” – essi sono fondamentalmente a loro agio nel mondo contemporaneo; il che vuol dire che hanno tratto profitto dall’ordine corrente. 

In più, tutta la loro identità politica si basa sull’idea di essere “i buoni”. Un’interpretazione meno benevola si spingerebbe fino ad affermare che il loro stesso interesse per la politica esiste solo fintanto che gli permette di dipingersi come attori etici. Tutto ciò significa che i liberal-progressisti egemoni hanno potuto avanzare critiche morali da posizioni di relativo comfort, nella tranquilla consapevolezza che il mondo non si sarebbe mai messo contro di loro né sarebbe mai cambiato in modo sostanziale. Solo che poi è successo.

La SCON è la risposta paradigmatica dell’élite liberale alla Fine della Fine della Storia. È molto probabile che i lettori abbiano visto i sintomi della SCON da molto vicino, nelle opinioni sulla storia recente di familiari, amici o conoscenti. Queste idee probabilmente non sono contagiose (almeno non senza un contatto prolungato con il Guardian e il New York Times) ma l’esposizione ad esse attraverso conversazioni con una persona infetta può provocare sintomi secondari da contatto quali noia e frustrazione.

Per spiegare la SCON dobbiamo addentrarci ulteriormente nella mentalità del liberale medio negli anni felici pre-2016. La natura noiosa e ripetitiva della cultura durante la Fine della Storia è stata acutamente diagnosticata, ma tutte queste diagnosi non riescono a spiegare del tutto quale fosse stata la causa di questo esaurimento culturale e a legarlo alla sfera della politica. Ripensando ai primi decenni del Ventunesimo secolo è oggi chiaro come la cultura dell’Europa occidentale, e in particolare quella del Nord America, fosse definita (e distorta) dall’assenza di un qualsiasi orizzonte storico, dall’assenza della possibilità di un cambiamento fondamentale nell’organizzazione sociale. Un tempo le speranze stimolate dal socialismo e dal comunismo avevano proposto un futuro diverso, le utopie erano esistite – anche se solo nelle nostre menti. Il fatto che di fronte a noi non ci fosse alcun orizzonte storico diverso e superiore ci bloccava in un eterno presente.

Forse non c’è neanche bisogno di andare così lontano. La semplice assenza di regimi capitalisti diversi tra loro, diversi cioè dal neoliberismo dominante, era abbastanza per spegnere l’immaginazione all’interno della bolla occidentale. L’eliminazione della contestazione politica produceva una stabilità mortifera. Se eri di sinistra, tutto ciò che potevi fare era solo stare a guardare mentre le cose diventavano sempre un po’ peggio man mano che ci avvicinavamo all’apocalisse ecologica. Se invece stavi con la destra pro-business, le vedevi andare sempre un po’ meglio nel riflesso delle statistiche sul commercio globale e sul declino della mortalità infantile. In entrambi i casi non c’era posto per l’emotività. Quello che avevamo sarebbe durato per sempre. 

Anche le categorie usate per capire la politica erano state zombificate. Invece di partire dalla società per com’era, dalle vere frustrazioni, speranze e interessi delle persone, i liberali guardavano le cose dall’alto in basso, usando le stesse categorie di marketing create per la politica elettorale. Quindi, per esempio, si dava per scontato che se uno era un elettore laburista era per forza o un liberale residente in un’area urbana, o un operaio, o un membro di una minoranza etnica; oppure era un astenuto e dunque alla fin fine non contava granché. C’erano in sostanza delle categorie predefinite all’interno delle quali si cercava di fare rientrare a forza la popolazione. Si cercava di capire quali fossero i bisogni del “cliente” tramite sondaggi di opinione e focus group, così che i partiti politici, considerati come dei brand, potessero tarare il proprio messaggio in modo adeguato al pubblico che volevano raggiungere. La somma dei comportamenti passati e delle preferenze attuali serviva a prevedere i comportamenti futuri. La politica, dunque, consisteva nella gestione di qualunque aspettativa irrealistica gli elettori potessero avere, mentre si cantavano le lodi di tecnocrati palesemente mediocri che venivano dipinti come leader pragmatici in grado di distinguere ciò che era possibile da ciò che non lo era. 

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Man mano che i partiti politici diventavano sempre più dipendenti dallo Stato invece che dalla società civile, la distanza tra partiti ed elettori aumentava mentre quella tra i diversi partiti diminuiva. Per dirla con Peter Mair, “i partiti erano diventati i rappresentanti del governo nella società, invece che la testa di ponte della società nello Stato”. Gli opinionisti politici si erano abituati a un tipo particolare di politica: il consenso pressoché totale all’interno della classe politica, una cittadinanza distante e disinteressata e una crescente attenzione a centri di potere geograficamente concentrati (“Westminster”, “Washington”, “Bruxelles”). Le accese discussioni sul tema della “polarizzazione” politica negli Stati Uniti erano una semplice copertura per nascondere le manovre di palazzo dei diversi partiti o, se esprimevano vere divisioni, si trattava di divisioni culturali, non politiche. Ovviamente non erano solo gli opinionisti politici a vedere la società in questo modo, dall’alto in basso: tutta una serie di professionisti impiegati in ONG, istituzioni culturali d’élite, università e via dicendo li seguivano a ruota. La società era vista come un oggetto passivo e manipolabile.

Allo stesso tempo, a riempire il vuoto apertosi tra l’elettorato e la politica formale era arrivata una visione particolare del “modo giusto di fare politica” che si adattava perfettamente agli interessi e alle inclinazioni dell’opinionista liberale medio. Si trattava essenzialmente della mentalità propria di un preciso tipo umano – persone laureate in filosofia, economia e scienze politiche e Oxbridge, allievi dell’École nazionale d’administration francese, funzionari che vivevano e lavoravano dentro la Beltway di Washington DC – che dominava la politica di quell’epoca sotto forma di consulenti speciali, responsabili delle pubbliche relazioni e politici. In questo contesto il partito politico era stato ridotto al luogo dove i neolaureati ambiziosi troppo pigri o incerti per diventare banchieri d’affari potevano fare carriera. Di pari passo con la celebrazione della competenza andava poi l’aspettativa per il rispetto di un preciso galateo del ceto medio, che esprimeva con solennità la professionalità e il decoro. La rabbia, per esempio, era stata esclusa dall’insieme delle emozioni politiche legittime, ed è per questo che quella che la scrittrice americana Amber A’Lee Frost ha chiamato la “dirtbag left” ha causato tanto scandalo: rigettava in modo esplicito i toni sobri e civili e abbracciava invece la volgarità. 

Abbiamo discusso nei capitoli precedenti le preoccupazioni delle élite per l’apatia popolare. Le critiche del disimpegno politico delle masse di solito avevano un tono moralista, implicando che chiunque non si eccitasse per il blairismo o per il clintonismo al punto da andare a votarli stesse non solo perdendo l’opportunità di far sentire la propria voce ma anche deludendo tutti gli altri e comportandosi da cattivo cittadino. Il crollo dell’ordine neoliberale e le strane forme politiche che ha creato fanno sì che senza dubbio molti membri dell’élite preferirebbero che i cittadini tornassero a esser semplicemente “cattivi” invece che arrabbiati, irrazionali e indisciplinati come appaiono oggi.

Dopo aver fluttuato nelle acque placide di una politica senza le masse e di una cultura senza storia, l’élite liberale è rimasta completamente sconvolta dal ritorno della politica. Il fatto che la politica sia riapparsa come anti-politica è particolarmente minaccioso, perché mette in discussione lo status e gli interessi professionali di quella sezione della società che ha investito di più, in termini emotivi, nelle istituzioni liberali oggi screditate. Le masse hanno disinvestito; alle élite economiche alla fin fine interessano solo i profitti, mentre le élite politiche e i professionisti del ceto medio cercano disperatamente di aggrapparsi a un mondo post-politico che oggi sta scivolando via.

Questo articolo è un estratto da The End of The End of History: Politics in the XXI Century di Alex Hochuli, George Hoare e Philip Cunliffe, edito in Gran Bretagna da Zer0 Books e di prossima pubblicazione in italiano per i tipi di Tlon. Traduzione di Mattia Salvia.

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