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Non è solo neoliberismo – con il suo nuovo pacchetto di riforme (accolto tra le proteste) Javier Milei sta trasformando l’Argentina nella prima sperimentazione su larga scala di qualcosa di nuovo: la riduzione dell’individuo a semplice forza produttiva. Filippo Greggi – ricercatore del collettivo francese Remix the commons – sull’evoluzione del liberismo in gestione del “capitale umano”.

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È il 10 dicembre 2023 quando Javier Milei diventa ufficialmente presidente dell’Argentina. Una delle prime misure è lo smantellamento dei ministeri dell’Educazione, dello Sviluppo Sociale e del Lavoro, sostituiti da un unico nuovo organo: il Ministero del Capitale Umano. Il nome di per sé può lasciare perplessi, ma la portata di questa decisione va ben aldilà di una semplice provocazione. É una delle manifestazioni più lampanti di un’idea, divenuta teoria economica degna di Nobel, divenuta perno del processo di trasformazione del liberalismo e forza propulsiva di una serie di politiche economiche e sociali che hanno toccato il mondo occidentale.

Questa storia, come ricordava Foucault nella Nascita della biopolitica, comincia negli anni ’30 a Parigi, durante il Colloquio Lippmann. La questione che anima le giornate della conferenza è la riforma del liberalismo, una corrente politica schiacciata in Europa dall’avanzata di fascismo e socialismo e Oltreoceano dalle politiche keynesiane del New Deal. Il dibattito è aperto: c’è chi immagina un ritorno al laissez-faire (Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises) e chi propone di pensare a forme di interventismo liberale, riguardino esse il mercato o il solo ordine giuridico (Walter Lippmann e gli ordoliberali tedeschi). Anche negli Stati Uniti ha luogo un tentativo di riformulazione del liberalismo sulla scia dei rinnovamenti introdotti in economia dalla corrente neoclassica e con l’obiettivo esplicito di criticare l’azione dello stato. Gli alfieri di questa operazione sono degli intellettuali, perlopiù economisti, che si trovano a lavorare a Chicago nel secondo dopoguerra. 

Il loro punto di partenza è l’idea figlia di uno dei padri del neoliberismo, Lionel Robbins,  che la scienza economica non debba essere incentrata sullo studio dei meccanismi di produzione, di scambio e di consumo in una struttura sociale specifica, quanto sul comportamento del singolo attore economico e sulle sue scelte individuali. In questo senso sarebbe possibile analizzare il lavoro in quanto comportamento razionale, mettersi dalla parte del lavoratore per comprendere la cifra specifica della logica che lo motiva e orienta. 

Gli autori di riferimento di questa impostazione teorica, come Gary Becker e Theodor Schultz, hanno impostato le proprie analisi a partire da una domanda apparentemente banale: perché le persone lavorano? Molto semplicemente, la loro risposta è che lo scopo sia il conseguimento di un salario, inteso quindi sia come reddito, sia come una sorta di “rendimento di capitale”. Il salario è quindi interpretato come il prodotto di un capitale consistente «nell’insieme di tutti i fattori fisici e psicologici, che rendono qualcuno capace di guadagnare un certo salario piuttosto che un altro». In quest’ottica il lavoro produce un reddito e implica un capitale che non può essere scisso dalla persona che lo detiene. Questo capitale è la sua attitudine che determinerà un flusso di redditi che potranno aumentare o diminuire in maniera più o meno costante a partire da un certo numero di variabili.

L’homo œconomicus dei neoliberali è a tutti gli effetti un imprenditore di sé stesso. È l’insieme dei tratti, delle attitudini e dei comportamenti dell’individuo a diventare la fonte di reddito presente e futuro di un soggetto chiamato ad investire su di sé. Perché di investimento si tratta dal momento che ogni uomo diventa un capitalista che investe nelle proprie capacità al fine di estrarne il maggior profitto possibile. L’uomo può essere considerato alla stregua di una risorsa in un certo senso inesauribile che, almeno in linea di principio, può migliorare continuamente lo stock di competenze che determina la produttività, e di conseguenza il valore economico, del proprio tempo di lavoro. In quest’ottica il salario corrisponde al valore del capitale umano che si detiene e che, anzi, si è.

L’introduzione di tale nozione permette l’applicazione di analisi economiche ad ambiti inediti poiché diventa necessario studiare i processi di formazione, di accumulazione e di adeguamento di questo nuovo capitale umano. Esso trova in luoghi e momenti abitualmente considerati extra-economici i suoi spazi privilegiati di costituzione. Dovranno essere considerati in particolar modo gli investimenti educativi, non più riducibili al solo ambito scolastico o professionale,  il contesto familiare, l’ambiente all’interno del quale un individuo cresce e si forma, o ancora le attività ricreative a cui si dedica

Un esempio che ci torna comodo è l’analisi del rapporto genitoriale. L’approccio utilitarista di Becker lo porta anche i figli in quanto beni di consumo. La qualità della prole coincide con la sua utilità: più i genitori decidono di investire su un figlio, maggiore sarà il ritorno, o l’utilità, che da esso ne trarranno. Non bisogna però intendere questo rendimento in termini meramente economici. Ciò che i figli forniscono ai genitori è soprattutto un guadagno psichico, una non meglio precisata forma di soddisfazione. A determinare l’utilità/qualità della prole è il suo costo, ovvero quanto denaro (direttamente o indirettamente sotto forma di tempo dedicato) è stato investito per far sì che certe qualità e abilità venissero promosse e accumulate sottoforma di capitale umano. Ne consegue che la misurazione della qualità, del valore del capitale umano di un individuo deve essere condotta facendo riferimento al costo degli investimenti operati nell’ambito dell’educazione, della salute, della formazione professionale, delle attenzioni riservate all’infante e via dicendo.

Con il neoliberalismo americano osserviamo la forma economica del mercato generalizzarsi in quanto trama stessa della società. I più svariati comportamenti umani e rapporti sociali diventano suscettibili di analisi microeconomiche. È del resto la portata della teoria del capitale umano che valse a Becker il premio Nobel per l’economia nel 1992. Ogni ambito e ogni fase dell’esistenza individuale possono essere interpretati come comportamenti razionali, come possibilità di valorizzazione del proprio stock di competenze. Si comprende così il ruolo chiave della teoria del capitale umano nell’affermazione del neoliberalismo se consideriamo le sue due idee fondamentali: generalizzare il principio concorrenziale come migliore modalità di organizzazione dell’ordine economico e sociale e fare della forma impresa il modello antropologico di riferimento. 

Riprendendo l’adagio thatcheriano, “l’economia è il mezzo, l’obiettivo è cambiare cuori e anime”, insomma fare dipendere la vita di un individuo dagli investimenti che può operare su di sé è il modo migliore per plasmare la società secondo le leggi del libero mercato. La convinzione di fondo dei neoliberali è che solo la libertà economica possa garantire il pieno godimento delle libertà individuali. Concretamente questo comporta prendere il management d’impresa come modello di gestione del pubblico e lo scaricare sul singolo la responsabilità del proprio presente e futuro nella misura in cui otterrà solo ciò che si è meritato in funzione delle opportunità che ha saputo cogliere per valorizzarsi. Conseguenza diretta di ciò è lo smantellamento del welfare e la sua sostituzione con incitazioni economiche atte a disciplinare la popolazione tramite la concorrenza: solo chi si piega alle esigenze del mercato e dell’impresa, con tutta la dose di flessibilità e precarietà che esso comporta, è degno di essere aiutato e agevolato dallo stato. 

La scelta di Milei non può essere ingenuamente intesa come un’eccezione del contesto argentino, ma è piuttosto la manifestazione più evidente di un processo in atto ormai da decenni e che attraversa da cima a fondo le direttive e le strategie elaborate a livello nazionale, europeo e internazionale. Basti pensare allo Human Capital Project della Banca Mondiale, ai report delle principali società di consulenza del mondo (come McKinsey o Deloitte), o alla Strategia di Lisbona elaborata dal Consiglio Europeo nel 2000. Tutte iniziative volte a sostenere gli investimenti in capitale umano, a sprigionarne il potenziale, sintomo di un orientamento globale in un mondo in cui i governi assumono sempre più una postura manageriale e in cui, secondo gli studi più recenti, le competenze costituiscono il 90% del valore di un’impresa e 2/3 del benessere di un individuo. Il capitale umano è da questo punto di vista onnipresente: è asset strategico, è fonte del vantaggio competitivo di stati e aziende, è motore della crescita economica, è l’ossessione per le soft skills dei dipartimenti di risorse umane. Ma è anche il motivo per si ottengono certificazioni di inglese, per cui gli aperitivi diventano momenti di networking, per cui si giustifica un’attività come spendibile sul curriculum, per cui si deve essere resilienti, elastici, disponibili, autonomi, creativi e collaborativi e accettare stage non retribuiti in quanto opportunità di formazione e crescita.

Il Ministero del Capitale Umano si iscrive all’interno di questo quadro e le prime vicende che lo hanno toccato ne sono un esempio. Presentatasi durante una manifestazione del sindacato dei lavoratori dell’economia popolare che denunciava i tagli alle mense popolari, la neo-ministra Sandra Pettovello ha dichiarato che si sarebbe occupata personalmente di chi era affamato. La risposta della popolazione argentina? Pochi giorni dopo, il 5 febbraio, una lunghissima fila (40 isolati circa) di persone si è presentata davanti alla sede del Ministero per essere personalmente ricevuta prendendo alla lettera la disponibilità della ministra. Chiaramente nessuno è stato ricevuto. Di contro Pettovello ha deciso di affidare all’Alleanza delle Chiese Evangeliche dell’Argentina la gestione del problema, sovvenzionando l’organizzazione perché si occupasse delle distribuzioni alimentari.

Spostare il problema della povertà dal piano degli interventi strutturali a quello dell’aiuto al singolo individuo da valutare caso per caso o del gesto caritatevole è una presa di posizione politica che fa dell’indigenza un problema personale. Si esce dal piano dei diritti sociali e si entra nell’ordine del merito individuale, del contributo episodico a patto di mostrarsi volenterosi e docili nei confronti dell’istanza di governo. Questa logica fa il paio con le dichiarazioni di dicembre, quando Pettovello disse che coloro che si sarebbero recati ai picchetti contro il governo avrebbero potuto vedere revocato il loro diritto agli aiuti dello stato. 

È del 23 aprile, invece, la marcia in difesa dell’università pubblica, in enormi difficoltà economiche a causa di ripetuti tagli e dei livelli di inflazione che nel 2023 hanno toccato il 211% e che a fine marzo si attestavano al 51.6%. Non essendo stato ancora approvato il budget per il 2024, le università si sono trovate a dover razionare ciò che restava dell’anno precedente con enormi difficoltà nell’assicurare il normale svolgimento dell’attività accademica. La richiesta del Consiglio Interuniversitario Nazionale è di recuperare almeno la metà dei fondi perduti ma, a seguito di un incontro con la ministra Pettovello, si è dichiarato che il parziale aumento del budget per il 2024 risulta ancora del tutto insufficiente per risolvere i problemi delle università argentine. D’altro canto, la ministra ha affermato che sebbene il governo appoggi fortemente anche l’educazione pubblica vuole allo stesso tempo premurarsi che queste risorse siano utilizzate in maniera efficiente, ovvero per fini educativi e non per propaganda politica. Tale  cautela non sembra però valere nei confronti del settore privato, tanto che una delle misure più recenti del Ministero del Capitale Umano è stata la creazione dei voucher educativi per la classe media, un aiuto economico per le famiglie i cui figli studiano presso istituti privati finanziati dallo stato.

Insomma, la creazione del Ministero del Capitale Umano è ricca di implicazioni e conseguenze. È emblematico che diversi settori, come l’educazione e lo sviluppo sociale, vengano inglobati insieme alle loro modalità di intervento specifico da un unico Ministero il cui obiettivo, in fondo, è l’accumulazione e la valorizzazione delle competenze degli individui in funzione di una razionalità puramente economica. La società nella sua interezza è sollecitata a piegarsi a questa deriva attraverso tutta una serie di dispositivi e di sollecitazioni, dove il limite tra ricatto e incitazione economica è spesso labile. 

Se le politiche neoliberali in passato sono state sperimentate per la prima volta dai Chicago Boys nel Cile di Pinochet, oggi le vediamo riproporsi in Argentina in maniera parossistica. In fondo, non si tratta che dell’ennesima manifestazione, dai contorni sempre più grotteschi, della stessa storia che non smette di alimentarsi da almeno cinquant’anni. La questione che si apre a questo punto – e che molti già si pongono – è se la natura farsesca e violenta del neoliberalismo contemporaneo non sia il segno di un corpo morente o se piuttosto non si tratti di un organismo in piena salute capace di permettersi tutti gli eccessi e le provocazioni del caso.


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