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Il processo della ICJ contro Israele e le accuse all’UNRWA non sono che gli ultimi passaggi di un processo molto più lungo. Da anni le Nazioni Unite sono state duramente criticate da un Occidente che è ormai arrivato a contestarne apertamente il ruolo pur essendo stato lo sponsor principale della sua nascita. Ma come siamo arrivati a questo punto e come possiamo uscirne? Piervittorio Milizia – editor di Iconografie – parla del ruolo delle istituzioni internazionali nella crisi della contemporaneità.

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Le opere di fantascienza immaginano spesso il mondo del futuro come un’entità politica unitaria. Lo vediamo tanto in prodotti della cultura pop occidentale come Star Trek, Futurama e Doctor Who, quanto in altri nati in contesti più periferici come la serie indiana Captain Vyom, il che ci permette di intuire sia la natura condivisa di tale aspirazione, sia l’idea che si tratti di un destino inesorabile. E in effetti nella seconda metà del Novecento il concetto di sovranità nazionale è entrato in crisi, in parallelo al sorgere di istituzioni sovranazionali che agiscono nel nome dell’umanità piuttosto che dell’interesse nazionale. In realtà tutto ciò è meno ovvio di quanto sembri, non solo perché la devolution di potere ha riguardato più il settore privato che non le organizzazioni come l’ONU, ma anche perché questa visione idealista non tiene conto del vero funzionamento del cosiddetto “sistema internazionale fondato sulle regole”.

Fin dalla pace di Vestfalia, ogni epoca è stata caratterizzata da una serie di regole per le relazioni internazionali. Nessuno di questi sistemi è nato nel vuoto: si è sempre trattato semplicemente di una formalizzazione dei rapporti di forza vigenti fra le nazioni, definendone nei limiti del possibile l’equilibrio reciproco. Come ha sottolineato lo storico britannico Perry Anderson su New Left Review, il fatto di aderire o meno a tali strutture è stato a lungo collegato al livello di civilizzazione di una certa società – gli stati civilizzati che ne facevano parte, quelli barbari che ne erano esclusi, quelli semi-barbari che non potevano essere garanti del sistema globale ma comunque lo accettavano.

All’indomani della seconda guerra mondiale, però, in risposta allo shock suscitato dalla natura criminale del conflitto, questa rigida gerarchia fondata sulla forza viene sostituita da categorie morali. I rapporti di forza non scompaiono, ovviamente, ma vengono nascosti dietro giustificazioni più alte: i diritti umani, la libertà, e via dicendo. Ciò si consolida ulteriormente con il crollo dell’URSS, quando per la prima volta nella storia una sola nazione – gli Stati Uniti – diventa egemone sull’intero pianeta, ritrovandosi nella situazione, come ha scritto il filosofo italiano Stefano Azzarà, “di essere al tempo stesso colui che stabilisce le regole, arbitro e giocatore”. Insomma, l’unico metro della legittimità nell’agone internazionale. In assenza di avversari credibili, dunque, gli Stati Uniti si sono ritrovati in una posizione contraddittoria: quella di poter sfruttare il discorso umanitario a proprio vantaggio e di essere allo stesso tempo il garante della sua legittimità. Anche qui non c’è niente di nuovo: il diritto internazionale è fin dalle sue origini collegato all’espansione coloniale europea – si pensi in tal senso agli scritti sulla libertà dei mari e sulla legittimità della guerra del pensatore olandese Ugo Grozio, a lungo considerato il padre della disciplina, risalenti all’epoca in cui i Paesi Bassi iniziarono ad imporsi come potenza commerciale. Non è quindi un caso che le “guerre umanitarie” e principi come quella della “responsabilità di proteggere” abbiano fatto la loro comparsa proprio in questa fase. La creazione della stessa Corte Penale Internazionale (ICC) è stata fortemente caldeggiata dagli Stati Uniti, che poi però hanno deciso di non aderirvi e si sono mobilitati per deviarne il funzionamento a proprio vantaggio – nel 2002, ad esempio, con il cosiddetto “Hague Invasion Act” l’amministrazione Bush prese provvedimenti per tutelare i propri cittadini dal rischio di essere processati per i crimini commessi durante la “guerra al terrorismo”.

La contraddizione ha portato alla nascita di un discorso parallelo sulla natura interessata dell’umanitarismo e sui cosiddetti “doppi standard” – la constatazione che i discorsi sulla tutela dei diritti umani o sull’importanza della libertà e della democrazia siano applicabili solo ai regimi politici ostili all’Occidente. Non si tratta di semplice “benaltrismo” ma di uno svelamento del finto universalismo del sistema internazionale: valori spacciati per universali a sostegno di un discorso egemonico particolare. Agli inizi del XXI secolo tale svelamento, con annessa contestazione delle “regole” su cui si baserebbe il sistema globale, era limitata ai movimenti di piazza che chiedevano, per esempio, di processare George Bush e Tony Blair per il loro ruolo nell’invasione dell’Iraq. Dopo la crisi del 2008 la vediamo spostarsi nelle istituzioni. Negli anni della guerra civile siriana Russia e Cina mettono il veto all’ONU bloccando i tentativi statunitensi di invocare la “responsabiltà di proteggere” nel caso del governo siriano; nel 2013 l’Unione Africana invita i paesi membri a non collaborare con l’ICC, accusata di avere un bias negativo nei confronti del continente. Cos’è cambiato?

È cambiato che è cominciata una transizione di poteri senza che esistano le condizioni materiali perché essa possa avere luogo. Gli Stati Uniti vedono compromessa la loro egemonia globale e cercano di difenderla con ogni mezzo, mentre nuove potenze come Cina e Russia cercano di conquistarsi più spazio. Lo fanno seguendo due strategie opposte. Quella russa si basa sulla contestazione violenta dell’ordine globale vigente, dalla guerra in Georgia all’invasione dell’Ucraina, la cui natura criminale è fuori discussione – il governo russo è peraltro accusato della deportazione di 700.000 bambini ucraini, un atto giuridicamente interpretabile come forma di genocidio. La “ribellione” della Russia all’ordine globale vigente si basa sullo svelamento della sua natura arbitraria: le regole valgono solo per alcuni, quindi non le rispettiamo più. È facile intuire dove porti tale atteggiamento: il tramonto dell’egemonia americana aprirebbe la strada alla “giungla” – come l’hanno definita diversi commentatori, da Noah Smith al responsabile della politica estera dell’UE Josep Borrell – riportandoci a quello che l’economista Giovanni Arrighi ha chiamato il “caos sistemico dal quale [il capitalismo] ebbe origine seicento anni fa”. La strategia cinese è invece opposta e consiste non nella negazione di ogni legittimità all’ordine globale fondato sulle regole ma alla ridiscussione di quelle regole per renderle davvero universali e non semplicemente la copertura di una politica di potenza. È una via riformista, se vogliamo, che si pone in una posizione di neutralità rispetto al conflitto egemonico in corso, neutralità intesa nelle parole dell’ex segretario di Amnesty International Pierre Sané, proprio come il “rispetto per le leggi internazionali”. Ma è una via stretta e scomoda, perché bisogna essere in due per riscrivere delle regole comuni.

E chi queste regole le ha scritte e applicate a intermittenza per decenni oggi, constatando che non riesce più a farle rispettare ai suoi avversari, sembra disposto a scartarle del tutto. Nell’ultimo decennio l’Occidente si è trasformato da guardiano del sistema internazionale a suo nemico dichiarato, o meglio ancora nel curatore fallimentare che ne presiede lo smantellamento. Già durante la pandemia di COVID-19 l’amministrazione Trump aveva sospeso i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità accusandola di essere asservita alla Cina; nel gennaio 2024 l’amministrazione Biden e i governi di otto paesi alleati degli Stati Uniti (fra cui l’Italia) hanno deciso di tagliare i finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite votata al soccorso dei profughi palestinesi, accusandola di essere infiltrata da Hamas. Siamo lontanissimi da quando la NATO si presentava come il braccio armato dell’ONU a difesa dei diritti umani: oggi l’ONU è sempre più ignorata, quando non viene screditata come “braccio diplomatico” di terroristi e nemici geopolitici dell’Occidente. Si tratta di pretesti, ovviamente. Il punto vero è che, agli occhi occidentali, l’ONU è un’istituzione fuori dalla storia. In quanto rappresentazione – imperfetta – di una concezione di democrazia internazionale e uguaglianza formale tra le nazioni non può che mettere le regole condivise al di sopra degli interessi di un singolo paese o blocco di paesi. Questa concezione andava bene come contentino in tempo di pace, oggi non più.

Fuori dall’Occidente, peraltro, vediamo il trend opposto. I paesi emergenti che, a differenza della Cina, non sono sotto costante scrutinio occidentale come potenziali rivali sistemici stanno diventando i veri garanti dell’ordine internazionale fondato sulle regole. Il caso più plateale è quello del Sudafrica, che ha dimostrato la sua fede in tali regole portando Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) per la sua condotta a Gaza. L’aspetto importante di tale evento non è – come hanno sottolineato molti – che si accusi di genocidio lo stato nato dall’Olocausto, ma che un paese del Sud globale sfrutti le regole internazionali create dall’Occidente per portare in tribunale un paese occidentale, il quale dal canto suo rivendica apertamente di non sentirsene vincolato. Dei 29 paesi che supportano l’azione legale sudafricana solo uno, la Slovenia, si trova in Europa. Non importa che l’ICJ non abbia gli strumenti per imporre le proprie decisioni: il punto è che oggi a difendere democrazia, libertà e uguaglianza a livello internazionale non è più la parte del mondo che ha inventato questi concetti. 


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