Il film di cassetta più iconoclasta e significativo degli ultimi anni è anche un passo verso nuovi livelli di franchiseizzazione culturale.
Questo articolo contiene spoiler per Barbie
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Che Barbie funzioni, e che sia anche un bel film, è una specie di miracolo: non si possono dimenticare le prime reazioni incredule e stizzite alla notizia che ci sarebbe stato un film live action di Barbie scritto e diretto da Greta Gerwig. Cosa poteva fare Gerwig con la proprietà intellettuale Mattel? Perché serviva un film di Barbie per un pubblico di adulti?
A ben guardare, il film stesso ammette che non dovrebbe esistere, eppure giustifica pienamente la propria esistenza proponendo diversi momenti di riflessione e ilarità. Ribaltando la narrativa superomista di V per Vendetta, la Barbie stereotipata deve decidere se rimanere “un’idea”, o se accettare di assumere i limiti di una “persona”. Fin dal trailer del film, questa contrapposizione è resa ben chiara: la Barbie stereotipata si sente dire che “le persone hanno un solo finale, le idee sono per sempre” ma la sua scelta di diventare umana alla fine del film è presentata come di per sé positiva. Le idee sono per sempre, ma a volte possono essere anche un virus, come il patriarcato, che arriva a Barbie Land con il ritorno di Ken e rapidamente deforma anche quell’universo-bolla. Essere “un’idea” non è necessariamente una cosa positiva, per sé e per il mondo.
Nonostante la discesa nell’odio misogino di Ken, nonostante Barbie confessi di avere pensieri di morte, il film ha un’idea fondamentalmente ottimista degli umani e del loro destino: soffrono, sono imperfetti e muoiono, ma sono comunque capaci di migliorare se stessi e la loro società, una capacità assente a Barbie Land. Quando Barbie arriva nella propria caverna più profonda — il mondo reale — è costretta a confrontarsi con le barriere artificiali poste dalla nostra società per limitare il potenziale delle donne, ma il film si conclude con lei sorridente che annuncia di avere un appuntamento di ginecologia, avendo completamente abbracciato la propria nuova umanità. Come Neo, in un film altrettanto cyberpunk, Barbie sceglie il mondo reale. Ad attenderla però non c’è una distopia futuribile impossibile da salvare, ma “solo” il nostro deprimente mondo reale, che le donne possono ancora aggiustare.
Conoscendo la filmografia di Gerwig ce lo si potrebbe aspettare, ma prima di vedere Barbie è impossibile immaginare quanto sia un film politico. Animato dalla volontà di far capire il proprio messaggio, Barbie si prende il tempo di spiegare — anche verbalmente — le riflessioni che ne motivano l’esistenza. È difficile non vedere nell’operazione di Gerwig la forma finale di un processo culturale nato su Tumblr nella prima metà degli anni Dieci e rimasto da allora ai margini della cultura del fandom.
L’intera sceneggiatura del film nasce esplicitamente ponendosi la domanda “che senso ha Barbie?” Ma gli autori sono molto più interessati a cercare di dare una risposta di natura politica alla domanda, che diventa, più o meno, “l’idea di Barbie può essere un’idea che ha un impatto positivo sul mondo?”
Questa ricerca di significato politico è stato un pezzo importantissimo della internet culture degli scorsi anni. Nessun contenuto di fiction è possibile fuori dal retroterra culturale e politico in cui è cresciuto, e posizionarcelo consapevolmente dopo la pubblicazione è tra le principali prerogative di un fandom. Queste riflessioni a volte cercano risposte a domande che nessuno si era mai posto da cui la costruzione di una sensazione di dominio collettivo su opere, personaggi e trame che spesso arrivano da filiere così lunghe da impedire la ricostruzione dell’autorialità. È un processo che in alcuni casi si può definire di riappropriazione.
Al pubblico italiano ed europeo è stato negato l’evento cinematografico dell’estate, il double billing “Barbenheimer” con il film Universal di Christopher Nolan. È un’occasione persa, perché il contraltare tra i due film rende possibili diverse osservazioni. In primis, ovviamente, sul destino ultimo dell’umanità — Barbie crede nella forza delle donne di salvare il mondo, Oppenheimer è certo del destino dell’umanità di autodistruggersi — ma anche sulle caratteristiche cinematografiche stesse dei due film, ben più simili di quanto autori e fandom vogliano ammettere. Entrambe sono produzioni ad alto budget, di natura prima di tutto commerciale ma con l’obiettivo di veicolare un messaggio politico o almeno sociale.
Un altro film che ha molto in comune con queste due pellicole è Iron Man. Barbie esce nel quindicesimo anno della franchiseizzazione totale del cinema hollywoodiano: il successo di Gerwig non si tradurrà soltanto in un inevitabile Barbie 2 — ma apre un’autostrada verso la produzione di un film di Polly Pocket, di un film “realistico e crudo” tratto da Hot Wheels, di un thriller “per famiglie” basato sulla Palla magica numero 8. L’operazione di Mattel è chiara: consegnare le proprie proprietà intellettuali ad autori “con una visione,” per portare la propria produzione di film fuori dai confini ormai stanchi e ingrigiti dei franchise tradizionali, forti anche del fattore nostalgia. Si tratta di un’operazione più raffinata dell’ennesimo evento crossover Disney, così come Oppenheimer riesce a non sembrare un altro Batman.
Predecessore vicinissimo di Barbie, in questo senso, è Air, il film di Ben Affleck e Alex Convery, uscito questo aprile, che racconta la storia dell’origine della linea di scarpe Air Jordan. L’obiettivo era molto meno ambizioso di quello di Barbie, ovviamente — raccontare il sogno americano — e l’operazione di allineare un insieme valoriale a un marchio non era riuscita con la stessa efficacia: il film era stato accolto positivamente dalla critica, ma diversi recensori avevano sottolineato che il film si autoriduce a una pubblicità della Nike lunga due ore.
Come abbiamo già detto, nonostante tutto e nonostante le probabili pressioni di Warner Bros. Discovery e Mattel, Gerwig riesce a fare quello che voleva fare. Ma il suo film apre le porte a un futuro che vede il cinema e la produzione di fiction occidentale sempre più ostaggio di sinergie capitalistiche tra diversi brand e interessi, di cui è sempre più difficile vedere i confini. Se lo scorso decennio ha visto la progressiva erosione di tutti i generi di puro intrattenimento — divorati da franchise, seguiti, spin off e strategie di marketing — la formula Barbie segnala che il Leviatano degli studios possa progressivamente inglobare anche i film che hanno un quid artistico — o, peggio ancora, che ambiscono ad avanzare un commento sociale e politico.
La lettura politicizzata di franchise e produzioni culturali di massa può essere così trasformata in arma da parte di grandi aziende e studi cinematografici, con l’obiettivo di creare un rapporto confidenziale più intimo con il proprio fandom, che però ha l’effetto di togliere quello spazio al dibattito della comunità. Anni di film animati di Barbie permettono di discuterne l’immaginario queer: il messaggio trasparente e diretto di Barbie semplicemente non necessita di ulteriore speculazione.
Che l’industria stesse occhieggiando un allargamento della produzione dell’intrattenimento in serie anche al di fuori dei generi di puro intrattenimento — i film di supereroi, i thriller, i film spionistici, eccetera — non è una novità che emerge da Barbie, ma il successo del film di Gerwig sicuramente fungerà da acceleratore della reazione. WarnerMedia, una delle due metà, insieme a Discovery Inc., che ha recentemente formato il conglomerato WBD ci aveva già provato una volta, seppur con presupposti completamente diversi. Joker, il film del 2019 di Todd Phillips, doveva costituire un primo punto d’approdo — in questo caso reazionario — per una serie di film tratti da proprietà intellettuali DC Comics che però sfuggissero dalla formula data da Disney / Marvel al genere supereroistico. Della strategia è sopravvissuto il seguito diretto Joker: Folie à Deux, che dovrebbe uscire a fine 2024, ma gli altri film della famiglia sono rimasti in sospeso in seguito alla fusione delle due aziende, ed è difficile capire se si proverà a rivitalizzare la linea. Tra i film annunciati ma di cui non si hanno più avuto notizie c’è anche un Superman scritto da Ta-Nehisi Coates, che avrebbe dovuto avere come protagonista un Superman nero.
Non bisogna confondere l’adesione crescente dell’intrattenimento a produzioni formulaiche alla serialità: il fatto che il franchise cinematografico per antonomasia — i film Marvel — siano una narrazione seriale non esclude la possibilità di creare sinergie e soprattutto un metodo anche al di fuori di sequel diretti e crossover. Anzi: proprio perché c’è già un prodotto altamente serializzato sul mercato, è interesse degli altri studio trovare una formula che permetta di replicare la produzione in serie senza incappare in rischi di burnout da parte del pubblico.
È una fortuna che il film di Barbie sia finito in mani sapienti, che sono riuscite, contro ogni aspettativa, a tirare fuori un film coerente e divertente. Le operazioni contemporanee di Air e Oppenheimer dimostrano che la miscela dei linguaggi di kolossal e film impegnati, brand e millantato impatto sociale, dà però spazio soprattutto a produzioni mediocri, soffocate dalla dipendenza nei confronti del proprio padrone: Air non può raccontare la storia completa delle Air Jordan, perché il suo vero obiettivo è costruire una favola popolare attorno a Nike; Oppenheimer non può raccontare le conseguenze umane devastanti dei test voluti dal proprio protagonista, perché in ultima analisi deve creare un mito superomistico attorno alla sua figura, anche a costo di non raccontare fatti di enorme rilevanza storica.
Air e Oppenheimer non lasciano ovviamente spazio a sequel diretti, ma aderiscono perfettamente alla stessa formula: costruire una storia nel contesto di un’impalcatura più ampia, nel tentativo di creare film–evento anche per storie e temi che normalmente avrebbero vissuto un ciclo di promozione più convenzionale. Sono però esempi importanti da porre in contrasto a Barbie, perché ci permettono di porci domande fondamentali sul futuro del cinema, e in generale dell’intrattenimento, occidentale. Lo scontro è la dinamica naturale tra sceneggiatori, registi e studi di produzione — è così da quando c’è il cinema — ma davvero la nuova macchina di Hollywood può farsi mecenate di produzioni impegnate? Oppure tra qualche anno guarderemo a Barbie come un’eccezione, un caso in cui l’autorialità di Gerwig è riuscita a cucire tematiche sociali e necessità del brand in un modo se non invisibile, per lo meno inoffensivo?
E soprattutto, se anche questo tipo di film viene progressivamente divorato dalla macchina della mercificazione programmatica di Hollywood, cosa resta da vedere al cinema?

Designer e editor di Iconografie, è co-fondatore di Undermedia e co-autore della newsletter Hello, World