A due anni dall’inizio della guerra in Ucraina, il conflitto è sempre più lontano dalla nostra attenzione pur continuando imperterrito e restando sempre presenti le possibilità di escalation. Malgrado questo, non si sviluppa nessun movimento pacifista maturo e la situazione sembra in generale incancrenita su sé stessa. Ne abbiamo parlato con Carlo Rovelli, fisico e saggista da subito schieratosi per la pace.
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Negli ultimi due anni si sono sprecati i confronti fra la situazione in Ucraina e la Seconda guerra mondiale per legittimare moralmente l’intervento più o meno indiretto dell’Occidente nel conflitto. Lei da parte sua ha preferito fare riferimento ad un’escalation di militarismo simile a quella del 1914 – una posizione criticata però, ad esempio da David Broder proprio su queste pagine, in virtù della scarsa mobilitazione popolare. Perché vede il conflitto in questo modo?
Le analogie storiche sono comunque imprecise. David Broder, a cui lei fa riferimento, chiude il suo articolo con le parole “[non possiamo] illuderci che sia possibile una pace duratura”. Il problema a mio avviso è la base stessa di questo ragionamento dal momento che se assumiamo che la guerra sia inevitabile, allora continueremo a farci la guerra. Mi sembra un atteggiamento distruttivo. Un’attitudine più intelligente mi sembra quella da cui hanno avuto origine le Nazioni Unite, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Corte Penale Internazionale, per cui si cerca in modo collettivo di evitare le guerre, invece di dare per scontato che debbano esistere. Per farlo, dobbiamo cominciare col guardare le nostre responsabilità nello scatenare guerre, invece che solo quelle degli altri.
Un’altra posizione molto diffusa sulla guerra è quella che la legge nei termini di una resistenza anticoloniale. Che ne pensa di tale lettura?
È spesso corretta e in effetti le guerre moderne hanno spesso aspetti che non sono solo locali, perché coinvolgono le grandi potenze – si veda come le due guerre di cui oggi da noi si parla di più, quella in Ucraina e quella a Gaza, sono pesantemente foraggiate dalle armi della superpotenza americana. La situazione attuale del mondo è che la potenza dominante, gli Stati Uniti, e i suoi alleati detengono una porzione sempre più minoritaria dell’economia mondiale ma una strabordante maggioranza della forza militare, dispiegata nel mondo intero, in tutti i mari e in centinaia di basi militari. Che noi lo chiamiamo o meno “colonialismo” è poco importante, quello che conta è che la maggioranza del mondo lo vede come tale e soprattutto che legga la situazione presente come la fase finale del dominio coloniale europeo sul resto del mondo. Pensano in questi termini gran parte dell’Asia, dell’Africa, del Sud America e del mondo arabo; insomma quasi tutti, eccetto la piccola minoranza che i nostri giornali si ostiniamo a chiamare “comunità internazionale”.
La politica occidentale ed europea si è massicciamente schierata a favore di un coinvolgimento nel conflitto, anche se in maniera indiretta tramite forniture militari. Così negli ultimi due anni si è tornati a parlare di difesa, aumento delle spese militari e via dicendo. Come si spiega questa deriva in senso militarista?
Mi sembra una convergenza di motivi diversi. I paesi anglosassoni, USA e UK, non riescono neppure a concepire l’idea di non essere più i padroni del mondo e per timore di perderne il dominio, sono disposti a tutto. I paesi dell’est europeo si sentono liberati da poco dal dominio russo, e percepiscono la Russia come un pericolo a causa del loro recente passato. I paesi come Italia e Germania sono ora totalmente succubi degli Stati Uniti, così come più in generale la classe politica e i media mainstream. L’opinione pubblica in gran parte non condivide la bellicosità, ma i politici hanno più timore di avere contro gli Stati Uniti che non la popolazione; similmente, paesi come l’Austria, l’Irlanda, la Spagna, il Belgio, hanno posizioni molto meno belliciste e l’aspirazione a non farsi coinvolgere in guerre, ma contano poco in questo scenario.
Nel suo libro sulla Prima guerra mondiale, lo storico britannico Christopher Clark descrive i leader europei di inizio Novecento come dei “sonnambuli” che, senza volerlo ma percorrendo una catena di cause ed effetti, finiscono per far precipitare il continente nella guerra totale. Oggi il panorama è simile: ritiene sia possibile la costruzione di un movimento per la pace in queste circostanze?
Penso che la situazione sia effettivamente paragonabile a quella descritta da Clark: anche noi stiamo andando in maniera sonnambula verso un grande conflitto mondiale. Chi guarda lontano, come il Segretario Generale dell’ONU, il Papa, gli scienziati del Bulletin of Atomic Scientists, sta gridando nel deserto. La responsabilità di fermare la caduta dell’umanità nell’ennesima grande tragedia, l’ennesimo massacro, è sulle spalle dell’Occidente, che oggi detiene il monopolio de facto del potere militare. Ricordiamoci che la generazione dei miei genitori ha trovato modi di massacrare cento milioni di esseri umani. Per questo spero che la risposta alla domanda sia possibile la costruzione di un movimento per la pace in queste circostanze sia positiva. Possibile che gli esseri umani siano così cretini da ricominciare a massacrarsi a milioni?
Fino a pochi anni fa il pacifismo era una posizione politica assolutamente non controversa, mentre oggi il termine ha finito per assumere una connotazione negativa che squalifica dal dibattito, e i pacifisti sono tacciati di utopismo e di disfattismo di fronte al nemico. Come spiega questa trasformazione?
Sono sempre stato stupito di come gli esseri umani cadano facilmente in questa frenesia collettiva di guerra. La Jugoslavia era un paese tranquillo, fatto di gente pacifica e capace di convivere. D’un tratto si sono tutti appassionati ad ammazzarsi l’un l’altro, salvo poi, come sempre in questi casi, pentirsene. La frenesia di guerra mi sembra una malattia mentale collettiva, una specie di pandemia ricorrente, e porta a insultare subito chiunque provi a dire “fermiamoci, pensiamoci”. Non sono i movimenti per la pace ad essere cambiati, è la cultura collettiva ad essere assetata di guerra.
Oggi il dibattito, tendenzialmente sempre più sedimentato su di una polarizzazione sterile e infantilistica, rappresentato dall’utilizzo dei termini “pacifinto” e “bellicista”. Cosa rappresenta secondo Lei questa deriva linguistica e qual è il Suo rapporto con queste parole?
Non lo so, non vivo in Italia e questi giochini di insulti reciproci mi sembrano sciocchezze. Stiamo andando verso la Terza Guerra Mondiale, rischiamo una guerra nucleare, assistiamo a migliaia di persone massacrate continuamente nel mondo, e passiamo il tempo ad insultarci senza discutere seriamente?
La guerra ha spaccato le sinistre occidentali come non accadeva dai tempi della Prima guerra mondiale. La socialdemocrazia e perfino molti movimenti dichiaratamente comunisti si sono schierati a favore della guerra senza se e senza ma, mentre sono sempre più minoritarie le formazioni progressiste per la pace. Come se lo spiega?
L’obiettivo primario delle sinistre occidentali è andare o restare al potere e per riuscirci al giorno d’oggi bisogna genuflettersi al grande potere americano che richiede con sempre più insistenza di fare o sostenere tutte le sue frequenti guerre. La sinistra si è semplicemente piegata a questa necessità strategica.
Molti dei critici del movimento per la pace fanno riferimento alla necessità di difendere la democrazia, di cui l’Ucraina ma anche Israele diverrebbero dei portabandiera. Come risponde a tale posizione?
Il recente colpo di genio della propaganda dei paesi ricchi che oggi dominano il mondo è stato l’invenzione della retorica delle “democrazie” contro le “autocrazie”: con una piroletta logica degna di Orwell, la parola “democrazia” è adesso utilizzata come slogan ideologico per giustificare il fatto che una minoranza di paesi domini tutti gli altri. In altre parole, usiamo tale termine per giustificare la mancanza di democrazia nel mondo. Prendiamo un esempio semplice: lo Stato della Palestina è riconosciuto da 145 paesi del mondo su 190, un’enorme maggioranza, tanto numerica quanto demografica. Eppure in Occidente si continua a chiamare “comunità internazionale” la restante minoranza – in questo caso quelli che, come l’Italia, non riconoscono la Palestina. Oggi la “fedeltà democratica” è diventata, purtroppo, l’associazione a delinquere dei paesi ricchi del mondo.
La guerra ha colpito anche l’Europa, ma il suo impatto sull’opinione pubblica sembra minimo – come dimostra anche lo scarso successo delle formazioni pacifiste alle elezioni europee. I cittadini europei hanno accettato questa guerra come fatto ineluttabile con cui convivere? Si sono abituati?
Accettare la guerra come inevitabile sarebbe tradire i sogni di tutte le generazioni europee dal dopoguerra ad oggi. La trappola in cui non bisogna cadere, la trappola che ci tendono i guerrafondai e i produttori di armi, è dare tutta la colpa agli altri: dire “sono gli altri che vogliono la guerra”. Questa è la menzogna più infondata dell’attuale propaganda. L’Europa è parte di una alleanza il cui strapotere militare è senza paragone nel pianeta e nella storia – basti pensare che le spese militari della Nato sono più di dieci volte quelle russe. Parlare di pericolo e aggressività esterna è ridicolo. Quando scoppia uno di quei rari conflitti che non sono direttamente scatenati dalla nostra super-potente alleanza, chiediamoci piuttosto quanto abbiamo spinto nel minacciare e contenere qualcun altro. Si esce dai conflitti, personali come internazionali, riconoscendo le proprie responsabilità, non accusando solo gli altri, anche se gli altri, ovviamente hanno le loro colpe, talvolta criminali.
In passato si parlava di trasformare le guerre imperialiste in rivoluzioni. Crede che nel contesto ucraino questa prospettiva possa essere realistica e soprattutto auspicabile? Per quanto la narrazione sulla guerra sia ancora in bianco e nero, fin dall’inizio del conflitto ci sono stati casi – limitati, sì, ma esistenti – che vanno oltre la dicotomia: disertori russi e ucraini, proteste contro la guerra in Russia, sabotaggi delle linee ferroviarie in Bielorussia… esiste un modo per far assumere al conflitto tratti di classe?
Penso che tale prospettiva sia quella più temuta oggi dall’Occidente, che infatti fa di tutto per evitarlo. Questa parte di mondo ha capito di trovarsi ad un bivio: o accetta una maggior democrazia mondiale, oppure deve affrontare sempre più guerre che diventano sempre più rivoluzioni “zoppe” contro il suo dominio. La prospettiva rivoluzionaria è quindi schiacciata da tale reazione occidentale e, anche quando sembra poter emergere, risulta sempre in forme deboli e caotiche.
Nelle ultime settimane si è aperto uno spiraglio per la pacificazione fra Russia e Ucraina con l’apertura di Putin ad un cessate il fuoco. Vede in questa affermazione un fatto positivo o è fumo negli occhi?
Putin ripete fin dall’inizio che vuole fermarsi e uscire dal pasticcio criminale in cui si è cacciato, basterebbe ascoltarlo. Non è certo lui che vuole continuare la pessima situazione in cui si è messo. Ma la nostra propaganda ha bisogno di dipingerlo come un pazzo demoniaco. Altrimenti come farebbe a chiedere ai giovani di andare a morire per noi, per difendere la nostra ricchezza?