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Alla fine della storia, la Germania si era imposta come peso massimo dell’economia europea e garante dell’unificazione continentale. Negli ultimi anni, invece, la sua rigidità ideologica ne sta compromettendo la posizione portandola verso il declino industriale e alimentando le destre estreme – c’è un fondo di verità nei meme sui tedeschi che diventano nazisti appena il PIL scende di mezzo punto? Alessandro Bonetti – giornalista e fondatore di Kritica Economica – sui pericoli nascosti nelle politiche di austerità.

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Quando in una locomotiva inizia a scarseggiare il carbone bisogna ridurne la velocità, raffreddare la caldaia, per evitare danni permanenti. Magari gettare via qualche carico di minor importanza, per alleggerire il convoglio. E se lungo la strada, a breve distanza, ci si aspetta di incontrare una stazione di rifornimento, si può stare tranquilli: la sosta potrebbe anche rivelarsi un buon momento per fare della manutenzione, o addirittura ammodernare la macchina motrice. Ma quando nelle vicinanze non si può fare scorta di nuovo carburante e i macchinisti non vogliono accettare modifiche ai loro congegni, allora i problemi possono aggravarsi.

È ciò che sta accadendo in Germania, la “locomotiva d’Europa”, frenata dallo shock energetico all’indomani dell’invasione russa in Ucraina e dal rigorismo sui conti pubblici. Basti pensare che se nel 2021 Berlino dipendeva da Mosca per il 55% del fabbisogno di gas, il 45% di carbone e il 35% di petrolio, a inizio 2023 queste voci erano state tutte azzerate. La transizione è stata più efficace del previsto e soprattutto è stata realizzata con velocità spettacolare. Ma a costo di pesanti sacrifici: un’impennata dei prezzi dell’energia per imprese e famiglie e un crollo della produzione industriale. Nel 2023, escludendo energia e costruzioni, la produzione industriale è calata del 3,7% in termini reali, e perfino il settore chimico – punta di diamante dell’industria pesante tedesca – ha perso il 10,6%. Ora la Germania arranca, il carbone è finito. La locomotiva è già ferma, come già riconosciuto anche dagli alti papaveri del dibattito economico. 

Secondo Timo Wollmershäuser, responsabile dell’analisi del ciclo economico e delle previsioni all’Ifo Institute, “la frenata dei consumi, gli alti tassi di interesse, l’aumento dei prezzi, le misure di austerità del governo e la debolezza dell’economia globale stanno attualmente rallentando l’economia tedesca e la stanno portando verso un’altra recessione invernale”. Ancora più preoccupanti sono state le parole del ministro dell’Economia Robert Habeck: “L’economia si trova in acque agitate”. I macchinisti e il capotreno, però, non hanno intenzione di cambiare il motore, né di ammodernare l’attrezzatura. La politica economica resta legata al mantra della rigidità di bilancio: lo stato non deve spendere più di quanto incassa, al netto di circostanze eccezionali. Dopo la breve parentesi della crisi pandemica, in cui il governo ha allentato la cinghia, ora torna il freno all’indebitamento, la regola costituzionale che impone il pareggio di bilancio. Una postura ormai inspiegabile dal punto di vista economico giustificabile, di fronte alle enormi difficoltà dell’economia, solo in termini puramente ideologici.

La recessione incombente rischia di trascinare a fondo non solo l’attività economica, ma anche la vita politica e sociale. Con un inquietante déjà-vu, man mano che la stagnazione cede il passo alla recessione e che si inasprisce la rigidità di bilancio, il principale partito di estrema destra fa balzi in avanti nei sondaggi. Negli ultimi quattro anni Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD) ha raddoppiato i suoi consensi e ora è sopra il 20% nei sondaggi, diventando il secondo partito tedesco dopo i cristiano-democratici (CDU-CSU) – a loro volta sbilanciati sempre più a destra. Non è certo un caso che l’AfD sia storicamente più forte negli stati dell’ex Germania Est, dove le prospettive economiche sono notevolmente peggiori rispetto all’ovest. Il divario fra le due parti del paese non si è mai pienamente colmato dopo la riunificazione, un problema mstrutturale sul quale ora si innesta lo spettro della depressione economica, che consolida i consensi degli estremisti nelle loro roccaforti elettorali e li accresce altrove. La rinnovata rigidità di bilancio alimenta il processo in modo nefasto: indebolendo un’economia già in difficoltà, acuisce le sofferenze sociali e moltiplica i consensi dell’estrema destra. 

Non è la prima volta che questo avviene nella storia tedesca: anche nei primi anni Trenta l’estremismo di destra fu aizzato dall’austerità. Ma non si tratta di una consapevolezza diffusa: nel senso comune, infatti, prevale un mito duro a morire: l’affermazione del partito nazista sarebbe banalmente l’onda lunga dell’iperinflazione di Weimar. Nel 1923 il disordine monetario aveva destabilizzato la giovane Repubblica, facendo crollare il valore del Papiermark. L’economista ordoliberale Hans Werner Sinn (che ora siede nel comitato di esperti del ministero dell’Economia) ne riassume così le conseguenze: “[L’iperinflazione] distrusse quasi completamente il valore del denaro. Non solo l’aristocrazia del denaro, ma anche la piccola borghesia si impoverì, [e] dieci anni dopo, elessero Adolf Hitler come Cancelliere del Reich. Non sto dicendo che questo accadrà di nuovo. Ma ora dobbiamo adottare una politica che impedisca in primo luogo che ciò accada. Abbiamo bisogno di restrizioni di bilancio più severe, non possiamo più vivere stampando denaro”.

In realtà, però, l’ascesa dei nazisti al potere fu preceduta da fenomeni economici di segno diverso, se non opposto: elevata disoccupazione e recessione, in un contesto generale di deflazione. Il partito nazista trovò terreno fertile in questo clima di profonda insicurezza economica, che non era figlio di un governo troppo generoso, semmai il contrario: la recessione era stata aggravata proprio dalle politiche di austerità del Cancelliere Heinrich Brüning. Nella sua monografia 1931 (Oxford University Press, 2020), lo storico svizzero Tobias Straumann mostra chiaramente come l’austerità favorì l’avanzata del partito nazista, ed è andato ancora più in profondità un recente studio empirico pubblicato sul Journal of Economic History), analizzando i dati di voto di mille distretti e cento città per quattro elezioni tra 1930 e 1933. Più una località era stata colpita dalle misure di austerità, più era cresciuta la percentuale di voti per i nazisti. Più l’austerità si faceva sentire in una località, più aumentava la sofferenza sociale, più cresceva la probabilità che i cittadini votassero per Hitler.

Se questa è la storia, oggi il ritorno alla rigidità di bilancio e la simultanea ascesa dell’estrema destra di AfD non possono non suscitare qualche preoccupazione. Ciò non implica necessariamente che stiamo ripercorrendo lo stesso copione degli anni Trenta e che le conseguenze dell’attuale fase politico-economica saranno le stesse. Il punto, però, è che nel capitalismo ci sono dinamiche strutturali che si possono ripetere, mutatis mutandis. Oggi le economie europee sono senz’altro più interconnesse rispetto a un secolo fa e tale aspetto rischia di acuire la gravità della situazione. L’harakiri tedesco sulla politica economica, infatti, ha implicazioni immediatamente europee: la membrana fra economia nazionale e continentale è oggi molto più sottile e l’importanza relativa dell’economia tedesca nel contesto europeo è maggiore rispetto a quella della Repubblica di Weimar di fine anni Venti, a causa della compenetrazione dei sistemi produttivi e del ruolo di guida (o “locomotiva”) giocato dalla Germania negli ultimi 25 anni. Così, l’ideologia rigorista di Berlino ha impedito di voltare pagina non soltanto alla politica economica tedesca, ma a quella dell’intera Unione europea. 

Per comprenderne il perché occorre fare un passo indietro, a marzo 2020. Allora, con l’esplosione della crisi pandemica, l’Unione sospese il Patto di stabilità e crescita, che coordina le politiche di bilancio degli Stati membri. L’idea diffusa era che si sarebbe negoziata una profonda riforma, giungendo così a un nuovo Patto, meno rigido e più favorevole alle politiche espansive dei governi. Ma dopo oltre tre anni, il 20 dicembre scorso, si è finiti per firmare un accordo al ribasso. Nel nuovo Patto i meccanismi per favorire gli investimenti pubblici sono stati sommersi da un “reticolo di vincoli e imposizioni” – voluti dalla Germania in primis – con il solito obiettivo: la riduzione del debito pubblico. L’accordo prevede un periodo di grazia (fra 2025 e 2027) in cui i paesi potranno godere di un po’ più di tolleranza su deficit e spesa per interessi, ma nella sostanza getta nel dimenticatoio le discussioni degli anni scorsi, come il tanto celebrato articolo di Mario Draghi sul Financial Times di marzo 2020: “Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato

Lo stantio approccio europeo alla politica economica non solo taglia le gambe alle sue velleità di “autonomia strategica” (spoiler: per essere autonomi, bisogna spendere vagonate di soldi), ma condanna le società europee a nuove sofferenze inutili. La rabbia sociale che ne conseguirà sarà carburante elettorale per l’estrema destra, che negli ultimi dieci anni ha ingrossato le sue fila in tutta Europa e ora può ambire seriamente all’egemonia. I meme sui tedeschi che diventano nazisti non appena il PIL scende di mezzo punto non sono solo meme.


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