Oggi pubblichiamo un estratto da Meme del sottosuolo, il nuovo libro di Daniele Zinni uscito per Einaudi, un’analisi delle narrazioni memetiche intorno a distopia, follia e tecnoinquietudine nell’internet contemporaneo.
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Dalla delusione e dalla frustrazione che innervano molti meme, è emersa a più riprese una sensazione di scollamento dall’attualità, dai propri simili e da sé stessi; il distacco di chi, essendo escluso o escludendosi da un contesto, inizia a percepirlo come falso. Il mondo contemporaneo appare nel complesso come un luogo dove i soggetti che già hanno il potere si favoriscono a vicenda, violano senza rimorsi quanto ancora esiste di buono e di incontaminato e schiacciano chiunque osi interferire coi loro piani o anche solo cercare di sottrarsi a un modello di vita in cui non si riconosce. Nel fare tutto questo, chiamano il vero «falso» e il falso «vero»: la legge è ingiustizia fatta sistema, l’informazione serve a confermare ciò che dice la pubblicità, e tutto questo le persone vengono a saperlo da giornalisti o politici che a propria volta, un giorno o l’altro, finiscono per rivelare la propria affiliazione a una qualche cricca di potere. Per giunta, vivere nel sistema costringe a ragionare in accordo col sistema, a comportarsi come aziende o celebrità, e così a provare disgusto per sé stessi.
Nei meme, credo sia il Ryan Gosling notturno di Drive (2011) a incarnare più spesso uno stato d’animo di quieta rassegnazione al teatrino della vita: con un’espressività e una gestualità sospese, da sonnambulo, Gosling sembra presente a ciò che gli accade senza però esserne coinvolto; sembra che si annoi mortalmente e che tuttavia non veda alcun senso nel manifestarlo o nel sottrarsi a questa condizione. Non so se questa lettura della sua figura sia condivisa, ma davanti ai meme con Gosling la reazione più comune tra gli utenti è commentare «letteralmente me», e lo era già prima che interpretasse un Ken un po’ ottuso in Barbie nel 2023.
Oggi gli spazi dove l’atmosfera di falsità pare più pesante sono probabilmente gli stessi social. La visione comune li vuole freneticamente animati da nient’altro che personaggi inautentici, bidimensionali: utenti che hanno scoperto quale lato mostrare, per ottenere piú reaction e notorietà, e insistono nel mostrarlo. Può essere qualunque cosa: il piglio polemico, il fisico, un animale domestico, la propria condizione di oppressione sistemica, l’arguzia, il pollice verde, e così via. L’esito è spesso sgraziato, ridicolo o noioso, ma l’intenzione resta.
Nello spettro dei profili possibili secondo quest’ottica, troviamo a un estremo chi usa il proprio account come un progetto editoriale e, per coerenza o per riservatezza, condivide solo contenuti inerenti al lato di sé che intende mostrare; all’altro estremo, chi ha ricondotto tutta la propria vita, online e offline, a ciò che funziona sui social, non parla d’altro e si comporta come se le logiche dell’algoritmo valessero anche per strada o coi propri cari. In mezzo, ovviamente, c’è la varietà di approcci meno radicali delle persone che usano i propri account social al tempo stesso come strumenti di comunicazione, come tele su cui autoritrarsi e come specchi in cui valutare la propria conformità a standard ideali.
Se mai fosse possibile fare una valutazione quantitativa del fenomeno, troveremmo probabilmente che la ricerca della bidimensionalità sui social – consapevole o meno, efficace o meno – è davvero il caso più frequente. D’altra parte, sono tante le persone che per un motivo o per un altro desiderano apparire tridimensionali, cioè autentiche, e fanno di tutto per ottenere questo risultato. Il problema è che i social media sono progettati per impedirlo.
Gli utenti delle piattaforme, in effetti, apprezzano l’autenticità come una boccata d’aria fresca. Non solo l’autenticità di influencer che un giorno decidono di aprirsi col proprio pubblico per ammettere una debolezza, un dubbio o un momento di sconforto, ma anche (soprattutto?) quella di persone «normali» che riescono a sottrarsi alle pose codificate da social senza nemmeno bisogno di sottolinearlo; magari persino senza accorgersene. A propria volta, molte persone che producono contenuti con frequenza e investimento emotivo – magari anche gratis, come quelle che postano meme – cercano di farlo in modo autentico, per dare un senso e un valore al proprio impegno.
Possiamo dare per scontato che nell’autenticità ci sarà sempre qualcosa di inattingibile. Dovrebbe trattarsi della spontanea fedeltà di una persona a sé stessa, a una propria «natura»: una qualità che per essere valutata richiederebbe come minimo una conoscenza approfondita della persona in questione. Eppure giudichiamo abitualmente l’autenticità di persone del cui privato conosciamo poco o nulla, come quelle che vediamo in televisione o appunto sui social. È dunque un artificio, un effetto di realtà e non la realtà, l’autenticità che gli utenti cercano negli altri e cercano di raggiungere per sé: la superficie esibita deve dare mostra di aprirsi e permettere uno sguardo sotto la superficie stessa, o forse deve rivelare le cuciture che la tengono insieme; in ogni caso, richiede uno studio e una tecnica che sono il contrario della spontaneità.
Sulle piattaforme, anche l’artificio resta fuori portata. Per riprendere la metafora delle tre dimensioni, un oggetto sembra avere una profondità solo se ne abbiamo un colpo d’occhio abbastanza ampio, che ne comprende alcuni contorni, luci e ombre. Al contrario, il design delle piattaforme prevede che un singolo contenuto sia di volta in volta tutto ciò che appare di ogni utente nei feed degli altri. Non era scontato: Facebook ha introdotto questa soluzione nel 2006, due anni dopo la sua fondazione. Prima, come accadeva su MySpace, l’utente doveva andare a visitare i profili a cui era interessato, per sapere se avevano pubblicato qualcosa di nuovo. Per giunta, i contenuti capaci di generare più interazioni sono di norma quelli più divisivi, che esprimono i giudizi più tranchant; difficilmente saranno questi a permettere di apprezzare delle complessità di carattere o di pensiero. Esiste la possibilità di non badare alle reaction e alle visualizzazioni, ma è a dir poco controculturale. Se negli ultimi anni si parla sempre meno di «social network» e sempre più di «social media», è appunto perché le piattaforme si sono strutturate per spingere gli utenti produttori di contenuti a cercare il successo davanti a un pubblico, non la conversazione in una bolla di contatti ristretta e stabile.
Di conseguenza, se l’autorappresentazione bidimensionale può ambire a essere compatta, levigata e stabile, perché ciascun tassello del mosaico contiene tutto l’autoritratto, quella tridimensionale è invece un puzzle destinato a crescere senza potersi chiudere, infinitamente sfaccettato, irregolare, contraddittorio e in perenne aggiornamento. E più l’utente troverà il proprio autoritratto parziale e insoddisfacente, più si sentirà in dovere di fare meglio, di esporsi ulteriormente, di dare in pasto alla piattaforma un nuovo boccone della propria personalità. In dovere nei propri stessi confronti, per non sentirsi bidimensionale, e anche del proprio pubblico, a cui vorrebbe regalare qualcosa di vero su piattaforme altrimenti tanto posticce.
È un circolo vizioso, perché qualunque momento di sincerità sembrerà calcolato e spesso inevitabilmente lo sarà, per compiacere le richieste implicite del pubblico stesso e dell’algoritmo che a quel pubblico deve far arrivare il contenuto. Ci saranno momenti di equilibrio, post che bucheranno lo schermo per un giorno o due, ma un realismo convincente sul lungo periodo resterà fuori portata. Sulle piattaforme che conosciamo e su ciò che puntano a diventare, non credo si dissiperà mai la sensazione di avere a che fare con una falsità strutturale e contagiosa.
Un livello di complessità lo aggiungono i rischi derivanti dal collasso dei contesti. In sociologia, questa espressione indica il fenomeno per cui un messaggio destinato a un preciso contesto di ricezione non raggiunge solo quello, ma anche altri potenzialmente molto diversi se non ostili; contesti diversi collassano in un contesto solo.
Al collasso dei contesti concorre, sulle piattaforme, un intreccio di ragioni tecniche e scelte degli utenti. Nel 2009, Twitter ha introdotto il tasto «Retweet», imitata l’anno dopo da Facebook con il tasto «Condividi». Negli anni successivi si è diffusa a ogni livello l’abitudine allo screenshot, e oggi su TikTok è facilissimo persino ripostare il video di un’altra persona innestandovi un video proprio, di commento o di critica. Nel corso del tempo, inoltre, gli algoritmi hanno iniziato a «suggerire» nei nostri feed sempre più contenuti da account che non seguiamo, sulla base dei nostri interessi e comportamenti online, al punto che su TikTok il feed Per Te, curato interamente dall’algoritmo, è molto più usato rispetto a quello che mostra solo video degli account seguiti dall’utente.
Accanto al desiderio di autenticità riconosciamo anche qui l’inclinazione a consumare contenuti che non potranno mai offrirla. Una contraddizione che non si risolve: al contrario, l’aspettativa di autenticità permane e il singolo contenuto incontrato nel proprio feed non viene trattato come frammento ma caricato di un valore identitario, come se rappresentasse in modo efficace la persona che lo ha postato.
Riflettere su questo aspetto è rilevante per capire come abiteremo i social, soprattutto alla luce di ciò che stanno diventando, e propongo di farlo ampliando la portata del concetto di «identità di connessione». Lo ha introdotto Renato Curcio in Identità cibernetiche (Sensibili alle foglie, 2020), saggio che si colloca in una serie di opere dell’autore dedicate alla rivoluzione di Internet e alle sue conseguenze:
Per poter frequentare questo ambiente artificiale occorre […] inaugurare e specializzare uno o più momenti identitari e allocarli operativamente in esso, fuori dal nostro corpo e dal suo pieno dominio. In breve, occorre dissociarsi in una o più «identità di connessione».
Nella pratica, le identità di connessione sembrano coincidere con gli account che l’utente crea per usufruire dei servizi di piattaforme private; tuttavia, è efficace rinominarli, come fa Curcio, in modo da spostare l’attenzione sull’aspetto identitario anziché su quello burocratico-informatico, per descrivere i processi dissociativi «necessari, strutturali e permanenti» richiesti dalla vita online. È su quelli che si concentra il saggio, tracciandone i contorni e analizzando le forme di assoggettamento che comportano.
Secondo me, l’idea di Curcio può essere portata un passo più avanti: oltre a dissociare un’identità ogni volta che assumiamo un nome su un sito Internet, dissociamo un’identità ogni volta che pubblichiamo un contenuto. Tornando alle autorappresentazioni a due o tre dimensioni, queste che potremmo chiamare «identità di contenuto» sono i singoli tasselli che vanno a comporre i mosaici bidimensionali o le singole facce dei poliedri tridimensionali. In quest’ottica, potremmo recuperare il valore etimologico di «schizo» come «scissione» e concludere che tutto il postare è schizopostare, e che noi non possiamo non dirci schizo.
Nella seconda metà degli anni Zero, Facebook ha introdotto per la prima volta su Internet l’abitudine a usare i propri nome e cognome, arrivando a farne persino un obbligo. La confusione tra l’identità anagrafica di una persona e la sua identità di connessione (o di contenuto) era già elevata. Ora, su TikTok e Instagram, gli utenti non sempre usano il proprio nome ma tendono a mostrarsi con il proprio volto, favorendo ancora di più l’identificazione – dal punto di vista del pubblico e anche dal proprio – tra ciò che dicono o fanno in un video e le persone che sono.
Ai social sono bastati meno di vent’anni per imporsi come i luoghi di dibattito più partecipati al mondo; hanno riscritto le regole della comunicazione, dell’informazione e dell’espressione. È importante comprendere le dinamiche tecnologiche e umane di questi spazi, per cercare prospettive nuove che permettano di osservarli al di là degli stereotipi. Dalle loro profondità, delle cartoline straordinarie sono giunte in aiuto di questo testo: i meme non sono solo testimonianze oggettive della dissociazione identitaria, come qualunque contenuto, ma anche tentativi di fare i conti col disagio che ne deriva e, forse, di farne provare un assaggio a chi li guarda. Tanto più preziosi se consideriamo che di sofferenze psichiche ed esistenziali si parla in continuazione, sui social; quasi sempre, però, sbattendole in faccia a chi legge, descrivendone i sintomi o spiegandone le cause – magari in tono ironico – anziché avvicinarle per vie oblique. Negli immaginari che scelgono, nei personaggi che rievocano e nelle strategie retoriche che adottano, i meme più interessanti in questa rassegna sembrano occultare le proprie verità. Sostenere di averle trovate una volta per tutte sarebbe un azzardo; più probabilmente conviene trattarli come opere aperte in cui continuare a cercare, perché i meme, come le altre forme d’arte, possono essere strumenti di conoscenza di sé e del mondo.
Memer, social media manager e giornalista, ha collaborato con Il Tascabile, VICE e altre testate. Il suo ultimo libro è Meme dal sottosuolo (Einaudi, 2023).