Nel mondo contemporaneo si moltiplicano ogni giorno le crisi, alcune delle quali di una gravità tale da poterne compromettere la sopravvivenza a lungo termine. Eppure, non è sempre facile individuare l’origine di questo caos, né tantomeno le risposte che possiamo opporgli – ammesso che ce ne siano. Franco “Bifo” Berardi – filosofo e agitatore culturale – riflette sull’apocalisse della civiltà occidentale e la necessità della diserzione di massa.
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“Se perdiamo la nostra umanità perdiamo molto, ma se perdiamo la nostra bestialità perdiamo tutto” dice Thomas Wade, un personaggio che ha il compito di dirigere le azioni di difesa del pianeta da un incomprensibile attacco degli alieni nella trilogia Memoria del passato della terra di Liu Cixin, da poco riadattata da Netflix ne Il problema dei tre corpi. È la frase che meglio definisce il secolo in cui stiamo sprofondando.
La storia dell’epoca moderna appare oggi come una catena genocidaria ininterrotta, malgrado ogni progresso economico e politico. Ma l’esplosione demografica degli ultimi decenni (che ha raddoppiato il numero degli abitanti del pianeta nell’arco di un cinquantennio) ha creato le condizioni di quello che l’etologo John Calhoun definì come behavioral sink, o fogna comportamentale.
A lungo la demografia è stata considerata una scienza marginale per la comprensione dei fenomeni sociali, a partire da quando Marx liquidò le teorie di Malthus che prevedevano un crescendo di violenza e di guerra in seguito all’espansione demografica all’inizio del XIX secolo, rispondendogli che lo sviluppo della tecnica e della produttività del lavoro avrebbero permesso di sostenere l’aumento della popolazione. Centocinquanta anni dopo la questione si presenta in termini completamente diversi. Da un lato, in effetti, la percentuale della popolazione mondiale che ha potuto superare la soglia di sopravvivenza è cresciuta, ma dall’altro il numero dei disperati è aumentato enormemente in termini assoluti.
Per far fronte ai crescenti fabbisogni della società, negli ultimi quaranta anni si sono adottate politiche di sfruttamento intensivo dell’ambiente, all’origine del progressivo deterioramento di gran parte della terra e del declino della riproduzione sessuata.
Qui sta la radice di una situazione che potremmo definire come final stampede: il panico finale, la ressa per riuscire a ottenere il minimo necessario per sopravvivere. Le immagini della folla di palestinesi affamati che vengono falciati dalle pallottole dell’esercito di Israele sono un simbolo potente di questo panico, e hanno la stessa forza drammatica delle immagini degli internati a Auschwitz.
La costruzione giuridica internazionale fondata sui diritti umani è da tempo svuotata di ogni significato. E l’ONU, come tutte le organizzazioni nate dopo la seconda guerra mondiale, ha perduto ogni efficacia nel regolare pacificamente i conflitti, come mostra il disprezzo con cui Israele ha sistematicamente reagito alle sue risoluzioni. La guerra di tutti contro tutti si delinea come inevitabile.
Devo prendere posizione per una delle parti in guerra? La mia risposta è no, non intendo schierarmi in questa guerra demente.
I ragazzi di Ultima Generazione avvertono che il tempo si sta esaurendo per fermare l’inferno climatico sulla terra, mentre lo sgretolarsi dell’ordine geopolitico sposta l’attenzione dei governi di tutta la Terra dall’obiettivo – mai veramente perseguito – della transizione ecologica a quello del riarmo. Forse occorre partire dalla premessa che il tempo si è già esaurito, e allora è il momento di chiedersi come potremmo evitare di essere trascinati in un vortice che non è più governabile né modificabile.
Nel precipizio in cui stiamo capitombolando si stanno svolgendo due processi: il primo è quello dell’isolamento dell’Occidente, e la creazione di un coacervo frammentato di forze anti-occidentali. Il genocidio palestinese, teletrasmesso in tutto il pianeta ininterrottamente per sei mesi, ha creato le condizioni di un odio generalizzato contro Israele – la cui conseguenza probabile sarà una nuova ondata di antisemitismo di massa. Ma Israele non è che l’avamposto del declinante colonialismo occidentale e per questo il genocidio di Gaza segna l’inizio di una guerra caotica e di lungo periodo di cui l’Occidente è il bersaglio.
Il secondo processo in corso è quello di una guerra inter-bianca che ha caratteri di crescente inconciliabilità. Una guerra che oppone sanguinosamente russi e ucraini, come anche il trumpismo dilagante (dall’Argentina di Milei all’India di Modi) alla democrazia liberale agonizzante. Le prossime elezioni in Europa e negli USA rischiano di confermare la prevalenza del primo su un modello in pieno sgretolamento, mentre un campo largo di forze eterogenee del sud del mondo si contrappone strategicamente all’egemonia imperialista dell’Occidente.
Queste due tendenze – guerra inter-bianca e isolamento dell’Occidente – si intrecciano e si alimentano: la sub-middle class globale difende rabbiosamente i suoi declinanti privilegi, mentre tende a prevalere dovunque una poltiglia fatta di subcultura iper-mediatica, di appartenenza illusoria alla razza dominatrice, di paura che gli esclusi possano superare la frontiera e portare via quel poco di privilegio che resta. È la base di massa del fascismo contemporaneo, che non ha molto a che fare con l’energico futurismo dei fascisti novecenteschi e assomiglia piuttosto a un fascismo della demenza senile e dell’impotenza terrorizzata. La guerra inter-bianca oppone questo emergente sub-suprematismo alla democrazia liberale. Ma questo non scalfisce e, anzi, esaspera la furia neoliberista, come mostrano i Milei.
La questione demografica riappare ora in una nuova prospettiva: la civiltà “bianca” è entrata in agonia, anche perché la popolazione del nord del mondo (quella occidentale ma anche quella dell’Estremo oriente sviluppato) ha subito un processo di invecchiamento dovuto sia al prolungamento artificiale della durata della vita umana, sia alla denatalità sempre più accentuata. Le popolazioni del mondo sviluppato tendono a ridursi e nel lungo periodo a scomparire, ma non è detto che lo accettino pacificamente. Il razzismo crescente è in effetti una reazione rabbiosa, impotente, ma enormemente distruttiva delle popolazioni demograficamente declinanti.
Qui si rivela un dilemma demografico del quale non possiamo prevedere l’evoluzione: si potrebbe ipotizzare che nel corso di questo secolo la civiltà bianca si disintegri e scompaia serenamente mentre altre emergono all’orizzonte del futuro. Ma purtroppo non è probabile che vada così.
La civiltà bianca non accetta la prospettiva dell’estinzione e si ribella con la stessa protervia con cui ha colonizzato il pianeta, potendo contare su strumenti tecnici di terrificante potenza distruttiva pur non possedendo più l’energia psichica e culturale dei vecchi fascismi. La guerra inter-bianca sta preparando le condizioni per l’olocausto atomico, rischiando così di troncare ogni possibilità di sopravvivenza per l’umanità nel suo complesso.
La denatalità può essere letta come diserzione dall’atto irresponsabile della procreazione e per gran parte lo è. È l’effetto della decisione (cosciente o meno) di non mettere al mondo ulteriori vittime dell’inferno climatico e politico che si presenta ormai come inevitabile. Ma è anche una conseguenza del crollo della fertilità maschile, che potrebbe avere tra le sue cause la sempre maggiore diffusione di inquinanti e microplastiche nella catena alimentare. Più in generale, assistiamo allo svanire della sessualità umana, imputabile alla mediatizzazione dei rapporti di comunicazione, alla depressione psichica e al crollo del testosterone nel sistema ormonale disastrato dalla degradazione dell’ambiente naturale.
La sola certezza è che non abbiamo modo di prevedere se la distruzione atomica prevarrà sulla denatalità, o se la denatalità creerà le condizioni per un nuova distribuzione delle ricchezze e per l’emergere di civiltà non bianche.
In questa situazione non appaiono le condizioni per una resistenza politica capace di rovesciare i rapporti di forza, dal momento che tutte le tendenze catastrofiche qui citate sono irreversibili e automatiche, ma anche perché le condizioni dell’internazionalismo e della solidarietà sociale si sono dissolte con la sconfitta della classe operaia e la precarizzazione del lavoro. È dunque necessario inventare e praticare linee di fuga, di abbandono e diserzione. Non sappiamo cosa questo significhi concretamente in termini territoriali (dove scappare?) ed economici (come sopravvivere?), ma occorre trovare una risposta a queste domande.
In tal senso, la diserzione è anzitutto una disposizione dell’animo. Con che animo partecipiamo allo svolgersi della tragedia? Quali aspirazioni sapremo coltivare? Per rispondere a queste domande, che riguardano i processi di soggettivazione possibile, dobbiamo partire dall’alternativa tra panico e depressione che domina la mente collettiva planetaria. Il panico, effetto di un sovraccarico caotico di stimoli informativi e sensibili, attiva l’aggressività. Al contrario, la depressione, in quanto disattivazione della tensione verso il reale, uccide ogni pulsione a vivere, ogni immaginazione di futuro.
Ma “depressione” è un’etichetta superficiale, il cui contenuto reale è la verità: la verità di una generale impossibilità di desiderare la vita che viene e al contempo una chiave per immaginare la vita che viene, cioè la vita ultima, in una fase di auto-spegnimento di cui la denatalità (fenomeno immenso che investe la fertilità, la psicologia, la sessualità) è un’anticipazione e una causa. La mente collettiva si orienta verso il panico, il disertore verso la depressione.
La depressione è insomma una condizione di auto-terminazione che appare come prospettiva auspicabile e come alternativa alla sempre più probabile terminazione violenta dell’agonia della civiltà bianca e della crescente aggressività del coacervo a lei ostile.