La lingua che usiamo è figlia del mondo in cui viviamo. Con la fine della storia e la caduta del socialismo reale, la sinistra come parte politica è stata cancellata dal panorama politico occidentale e anche i suoi termini chiave sono stati messi da parte. Ne abbiamo parlato con Pier Luigi Bersani
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La trasformazione del Partito comunista italiano in una formazione pienamente socialdemocratica ha comportato una profonda rivoluzione lessicale entro la sinistra italiana. In primo luogo scompaiono tutti i riferimenti al proletariato, alla società per classi, alla lotta di classe – sostituite da affermazioni più genericamente rivolte al popolo. A posteriori, rivendica questo passaggio, crede che abbia avuto senso?
Sì, c’è stato un passaggio lessicale, evidentemente. La parola “sinistra” ne ha sostituite altre prendendosi anche un certo carico di genericità. Ancora fino agli Novanta resisteva la parola “uguaglianza”, che poi è diventata “uguaglianza delle opportunità” nella fase crescente della globalizzazione che sembrava la marea che alzava tutte le barche e credo che, sapendo che parole come “classe” o come “comunismo” sono state rese inutilizzabili dalla realtà dei fatti, ci troviamo nel secolo nuovo un po’ disarmati. Uguaglianza delle opportunità non funziona più da quando la gente ha capito che parole come “opportunità” o come “merito” diventano un alibi per giustificare la disuguaglianza. Io penso che dovremmo recuperare come nostro punto iniziale, quello che Bobbio descriveva come la differenza fra sinistra e destra: un principio di uguaglianza come dignità, fatta di libertà e dignità nelle condizioni materiali. Si apre una fase che deve essere di ricerca di nuove parole ma forse vale la pena di ripartire da lì: un’idea di uguaglianza che nella situazione attuale possa essere declinata in cose molto visibili e concrete. Uguaglianza, dunque, mi pare che si debba ripartire da lì.
Questa transizione lessicale arriva oltretutto in apertura di una fase che, paradossalmente, vede più che mai confermate le teorie marxiane: nella Russia post-sovietica ha luogo una massiccia fase di accumulazione originaria, scoppiano crisi di sovrapproduzione e la guerra diviene uno strumento per tenere in piedi le economie occidentali. Questa contraddizione fra adeguarsi al nuovo mondo e ritrovarsi privi delle parole per rappresentarlo non è mai venuta a galla?
Io sono per recuperare il clou del marxismo, ovvero la lettura di Marx per cui davanti a un salto tecnologico secolare cambiano i rapporti di produzione e le gerarchie sociali. È questo fenomeno che complica il concetto di classe e lo rende difficilmente utilizzabile. Quel salto tecnologico sta scomponendo strutturalmente il lavoro e sta assottigliando le differenze fra lavoro dipendente e salariato, lavoro autonomo e lavoro imprenditoriale. In larga misura diventano una nuova categoria che definiremo “lavoro subordinato”, dove nessuno ha il comando né capitalizza di suo. Come chiameremo nel futuro una desiderabile convergenza fra lavoro due volte dipendente e subordinato? Io sceglierei questa attitudine dall’armamentario del passato: l’esigenza di fare analisi davanti a svolte storiche e strutturali, e qui c’è il ritardo di quella che chiamiamo sinistra.
Noi vediamo il fenomeno dalle sue propaggini ma quando hai una civiltà di robot che diventano sistemi, anche la produzione diventa un servizio per la produzione stessa. Non parlo del futuribile ma di un processo in corso e che le politiche industriali non vedono. Quando sentiamo parlare di incentivi per il 4.0 siamo nella conseguenza aggiornata di quella che è sempre stata la stessa politica del settore da sessant’anni a questa parte – la Cassa artigiana, la Sabbatini, l’Ossola, la 488. Aiutavano le imprese a comprare macchinari come motore dell’innovazione; adesso che le macchine si parlano e i sistemi si governano a distanza l’aiuto necessario è nel pagare un affitto, mi spiego? Questo non è stato ancora neanche percepito ma nei prossimi 10-15 anni si affaccerà. Uniamo a questo l’altro corno del dilemma, cioè che le grandi major dell’ICT e della rete si capitalizzano con l’uso da parte degli utenti, cioè l’utente fornendo dati fornisce capitale con la profilazione gestita secondo la logica di mercato. Come immaginiamo di organizzare la soggettività dei capitalisti, che sono gli utenti? Queste sono le frontiere che abbiamo davanti nei prossimi decenni e non credo che antichi termini riescano a comprendere queste cose, bisogna inventarne di nuovi.
In ambito di politica internazionale, dominata da trent’anni dalla proiezione internazionale occidentale, spicca la risemantizzazione del termine “imperialismo”. Negli anni Duemila, ai tempi delle guerre americane in Medio Oriente, era diventato praticamente un sinonimo di “Stati Uniti”, oggi viene applicato alla Russia, ma in entrambi i casi è usato in un senso ben lontano da quello marxista originario e dunque leninista. Crede che questo abbia finito per indebolire le capacità della sinistra di analizzare gli scenari globali?
Ai tempi in cui Marx e Lenin analizzavano la fase imperialista come punto d’arrivo del capitalismo, l’hanno letta come scarico a terra dello sviluppo industriale e tecnologico che generava di per sé volontà di potenza. Vuol dire che quando a fine ‘800 si inventano il motore a scoppio, l’aeroplano, il transatlantico, il radiotelegrafo, l’energia elettrica e così via, la competitività implicava naturalmente l’idea che un trattore potesse divenire un carro armato o che un aereo potesse gettare delle bombe. Le forze economiche e politiche si interessavano dunque a cogliere l’occasione per allargare le proprie sfere di dominio. Adesso ha avuto luogo una scissione: quelli che, come le major dell’ICT, dirigono il traffico, pur essendo propaggini della potenza statunitense, per svilupparsi hanno bisogno di un mondo armonico – quasi alla cinese – per avere clienti ovunque. Allora questo salto tecnologico non ha inibito le velleità imperiali, declinate in altra forma, ma non si è riversato in una guerra mondiale come nel secolo scorso. Per la sinistra, il concetto di “imperialismo” si è combattuto con la multilateralità, con l’equilibrio come antidoto per evitare guai più grandi.
A proposito di multipolarismo, questo tema non è pervenuto nel discorso italiano malgrado sia stato sollevato con particolare forza proprio da autori italiani e sia ormai largamente presente nel dibattito di altri paesi. Lei è stato uno dei pochi a farvi riferimento, anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina: crede possa entrare nel lessico della sinistra affinché questa possa tornare a costituire un polo autonomo?
Sì. Aggiungo una cosa che sembrerà poco ma ha una sua rilevanza. Il termine contiene un’idea di pace e di approssimazione ad un governo mondiale. Però, per far vivere nella gente, nel “popolo”, quest’idea non si può fare ricorso a un dibattito accademico sulle relazioni internazionali ma per altre vie. Faccio un esempio: ad oggi è evidente che se hai i soldi puoi andare in cliniche private a curare certi tipi di tumori o a fare una ricostruzione d’organi. Tutte queste cose sono brevettate a prezzi inabbordabili non per l’Africa ma per i sistemi sanitari universalistici europei. Togliamo i brevetti? Non ci sarebbe ricerca. Ma se l’Europa si impegnasse per finanziare un fondo dell’OMS che remuneri i brevetti salvavita riportando i prezzi abbordabili ai sistemi universalistici in modo che tutti possano fruirne? Cose così potrebbero essere la miccia che accende la prateria, lo si capisce da Brisighella fino in capo al mondo.
L’idea di governance mondiale non si può separare dal fatto di accorciare la distanza fra i luoghi delle decisioni fondamentali e la vita reale democratica delle popolazioni. Quindi, quel tema lì va preso da due lati: uno è la politica internazionale che sia combattiva nel trovare un punto di equilibrio più avanzato in attesa che il mondo sia una cosa sola, l’altro è il tema sociale. Quando si dice l’Europa multipolare si pensa all’Europa federale, col suo esercito e va bene, ma come si fa a pensare a ciò quando non si è stati capaci di unificare i propri tratti distintivi? L’Europa è stata vista dal mondo con invidia per un modello sociale ed economico fondato su alti diritti del lavoro, alta fiscalità progressiva e welfare costoso. Nessuna di queste tre cose è stata messa a fattor comune. Uno come fa a sentirsi europeo se non gli si dice che i suoi diritti devono avvicinarsi a quelli di un tedesco? Le questioni non si possono prendere sempre dall’alto.
Negli anni Novanta e Duemila il discorso politico era dominato dai termini “fascismo” e “comunismo” svuotati di senso e utilizzati da sinistra e da destra come spauracchi per attaccare i propri avversari. In tempi più recenti abbiamo visto il proliferare di parole nuove come “populismo” e “sovranismo”, che però sono più afferenti a un discorso giornalistico che non alla critica politica. Quindi abbiamo o termini usati troppo e male che perdono il loro significato o termini nuovi che sembrano avere senso ma in realtà non ce l’hanno. Come mai ciò avviene? Stiamo perdendo il contatto con la realtà materiale della società ed è per questo che le nostre parole non funzionano?
Guarda, io non ho mai usato la parola “populismo” se non fra sette virgolette. Io ho sempre usato il termine “demagogia”, una parola che andrebbe recuperata. Di demagogia, di imbonimento del popolo possono ammalarsi tutti. La parola “populismo” non mi piace perché viene brandita da chi pensa che possa esserci un governo senza popolo (i famosi governi dei migliori e di chi la sa lunga), diventando inutilizzabile.
Poi ci sono parole malate, per esempio c’è l’uso di “riformismo” come alternativa a “sinistra” che mi fa accapponare la pelle. Io dico sempre che “riformista” è diventato il modo politicamente corretto di dar ragione agli altri. C’è poi il caso di una parola a me cara, “liberalizzazione”, per me da intendere come difesa del cittadino dalle prepotenze del mercato è diventata il contrario – per me è la contabilità dei mutui, per quegli altri è liberalizzare i voucher quindi aiutare quelle prepotenze.
Tornando al populismo, c’è l’idea che il popolo si possa imbonire. Per quanto riguarda la sinistra, ti propongo un tema non tanto lessicale quanto generalmente di linguaggio che ho visto evolvere dagli anni ’90 fino ad adesso: quando c’erano i partiti, veniva applicata l’idea di linguaggio di Catone per cui “rem tene, verba sequentur”. Si pretendeva per la politica un meccanismo di formazione esperienziale e non arrivavi a fare politica senza una qualche esperienza sociale, amministrativa e così via. Il tema di un linguaggio che ha appresso un riferimento alla concretezza delle cose era importante. Via via con l’appannarsi di questa funzione sono sbucate delle classi dirigenti che quando sono colte pensano che il popolo si possa imbonire. È chiaro che facendo politica devi parlare a chi ha dieci miliardi di parole e a chi, come diceva Gramsci, ne ha poche centinaia. Ma tu non puoi ridurre la complessità dell’oggetto a seconda della persona con cui parli e devi trasmetterlo a chiunque perché la gente è comunque intelligente, ha solo meno parole. Pensiamo al mio gusto per la metafora: per me è una figura retorica che consente al meglio di semplificare senza ridurre la complessità del concetto perché deriva dalle società contadine e bracciantili che avevano poche parole e dovevano giostrarsele per esprimere i propri concetti. Faccio l’esempio di mia nonna che non avendo nel suo dialetto il superlativo per dire parole come “moltissimo” o dicevano due volte “molto” o avendo fatto da piccola la sartina usava locuzioni “tanto da fare l’orlo al Po”, un superlativo poetico senza possibilità di paragone.
Ci sono delle parole che la sinistra dovrebbe recuperare per affrontare la nuova fase storica che si sta aprendo? E tra quelle che fanno parte del suo lessico, cosa crede vada mantenuto e cosa no?
Io intanto butterei via “opportunità” perché veramente basta, e maneggerei con molto più garbo e attenzione la parola “merito”. Delle nuove… C’è dentro la nuova sensibilità qualche parola un po’ generica ma priva di avversario, come “ambiente”. È una bella parola ma non crea un grande fatto sociale perché ne manca l’opposto. Così come anche “diritti” che si sta riconfigurando prendendo una piega da diritti civili più che da diritti sociali che dovrebbero essere riassunti di nuovo in un senso unitario. E poi la parola di sempre: pace.
Sui diritti la maturazione che sta avvenendo è enorme: sono convinto che il secolo scorso, quando verrà guardato a distanza di secoli, non verrà letto come lo leggiamo noi in ottica politica ma con riguardo alla questione femminile. Dopo duemila, tremila anni le donne vanno a votare, si inventa la pillola…sono rivoluzioni antropologiche. Questa questione più in largo della sessualità e il superamento delle barriere discriminatorie (una strada ancora da compiere) sarà il segno di questo secolo. È sfondate queste barriere che si fanno acquisizioni che rimangono, per quanto si provi a fermarle è difficile tornare indietro.
In copertina: una delegazione del Pd in visita alla tomba di Gramsci, aprile 2022. Foto via.

Ex Segretario del Partito democratico, è stato deputato in cinque legislature e ministro in tre governi diversi.