Il Turkmenistan è un paese assurdo e paradossale, ricco di stranezze che attirano la curiosità degli appassionati di quelle eccentricità che sono alla base del nostro lavoro. Negli ultimi anni il paese è diventato una specie di meme su internet ma le sue bizzarrie raccontano ben più di quanto non sembri. Mattia Salvia – managing editor di Iconografie – ci è stato in vacanza con Kukusha Tours, la linea di viaggi italiana di Soviet Tours.
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L’aeroporto internazionale di Ashgabat, capitale del Turkmenistan, è grande come Milano Malpensa, ma ha solo una ventina di voli al giorno. Il Turkmenistan, un’ex repubblica sovietica affacciata sul mar Caspio, è uno dei paesi più chiusi, isolati e dimenticati del mondo: è visitato da appena 12mila stranieri l’anno, per la maggior parte delegazioni industriali e youtuber venuti a fare video sulla “Corea del Nord dell’Asia centrale”. L’aeroporto internazionale di Ashgabat, capitale del Turkmenistan, è anche la più grande struttura a forma di uccello del mondo – e questo non è che uno dei tanti primati estremamente specifici detenuti dal paese, il cui governo va pazzo per i Guinness World Records.
Ricordo bene da dove è cominciata la mia ossessione per il Turkmenistan: ero capitato per caso nel padiglione del paese a Expo 2015, l’unico in cui non c’era fila all’entrata, nonché il solo che non contenesse alcunché che di commestibile nonostante il cibo fosse il tema della manifestazione. Solo tappeti, plastici di campi petroliferi, piramidi di cubi di gesso negli angoli e, all’ingresso, un grosso ritratto sorridente del presidente, Gurbanguly Berdimuhamedov. Mi ero portato a casa una sensazione di sconcerto, di glitch nella realtà, rimasta con me negli anni seguenti mentre il Turkmenistan diventava sempre più noto tra gli appassionati di weird globale: è il paese in cui il presidente regalava cuccioli a Putin, faceva derapate in auto intorno a un cratere fiammeggiante, sollevava sbarre d’oro tra gli applausi dei suoi ministri; video bizzarri resi famosi dal comico inglese John Oliver, che nel 2019 gli aveva dedicato una puntata del suo show, Last Week Tonight.
Negli anni ho approfondito il più possibile le estetiche della dittatura turkmena. Si parte con Saparmurat Niyazov detto “Turkmenbashi” – padre di tutti i turkmeni – l’ex segretario del Partito comunista della Repubblica socialista sovietica turkmena che nel 1991 è diventato presidente del Turkmenistan indipendente e tale è rimasto fino alla morte, nel 2006, costruendo un culto della personalità surreale fatto di statue d’oro di sé stesso, architetture monumentali di marmo bianco e un libro sacro de facto – il Ruhnama, o libro dell’anima – diventato lettura obbligatoria nelle università e per accedere a tutte le professioni pubbliche. Si prosegue con il suo dentista e ministro della Salute Gurbanguly Berdimuhamedov, salito al potere come candidato di compromesso al termine di una lotta tra fazioni dell’élite, che ha progressivamente annullato le decisioni più folli del suo predecessore e governato per un quindicennio presentando un’immagine pubblica più rassicurante fatta di cavalli, cani e sport. Si arriva infine a suo figlio Serdar Berdimuhamedov, attuale presidente – Gurbanguly ha oggi il titolo di “leader nazionale”, scrive libri, fa visite di rappresentanza – un uomo senza qualità la cui immagine photoshoppata ti guarda da tutti gli edifici pubblici del Turkmenistan.
Il primo impatto con Ashgabat, la città con la maggiore concentrazione di edifici in marmo del mondo, è un tour organizzato su un pullman che ti porta a vedere i principali monumenti della città, e sembra effettivamente confermare la similitudine con la Corea del Nord. È un giro turistico standard che passa per il memoriale della Seconda guerra mondiale, per l’Arco della neutralità, sulla cui sommità c’è una statua d’oro di Saparmurat Niyazov che un tempo ruotava seguendo il sole, per Alem – la ruota panoramica indoor più grande del mondo, un altro degli strani primati turkmeni – e per il monumento al Ruhnama, che in passato si apriva mostrando un video in cui venivano recitati estratti dell’opera. Sono tutti monumenti che un tempo sorgevano nel centro della città e che, con il cambio della guardia alla guida del regime, sono stati spostati in una zona periferica in cui non passa mai nessuno a parte i tour organizzati. Apparentemente, il governo sta imparando a dosare rigore e apertura: i tempi di Niyazov ti vengono mostrati senza problemi, le sue follie sono incluse nel tour propagandistico che ti viene somministrato il primo giorno; non puoi riderne, ma percepisci che il regime ti sta dicendo “non siamo più così”. Le imprese altrettanto bizzarre della famiglia Berdimuhamedov, invece, sono tenute nascoste per omissione.
Saparmurat Niyazov è ovunque in Turkmenistan, ma la sua è una presenza simile a quella dell’Unione Sovietica o a quella dei grandi imperi centroasiatici che hanno dominato la regione secoli fa. In ogni città si possono trovare statue d’oro che lo ritraggono, così come si possono vedere i vecchi mosaici sovietici sulle facciate dei palazzoni residenziali, ma sono solo tracce, rovine, reperti archeologici di un passato che è esplicitamente identificato come tale. Talvolta i vari passati si fondono insieme. A Turkmenbashi, porto sul mar Caspio intitolato al primo presidente del paese, il monumento ai caduti nella Grande guerra patriottica costruito in epoca sovietica, è una statua che raffigura un soldato dalle fattezze russe; sotto Niyazov è stata modificata aggiungendo dettagli nazionalisti turkmeni – la mezzaluna con le cinque stelle al posto della falce e martello – e identificato con Atamurat Niyazov, padre dell’ex presidente, caduto proprio in quella guerra. Oggi che anche quell’epoca è finita, guardarlo è come osservare una sovrapposizione di strati in un sito archeologico.
Niyazov, il presidente pazzo che ha cambiato i nomi ai giorni della settimana, è diventato negli anni una sorta di testimonial turistico per il Turkmenistan: la maggior parte dei pochissimi turisti che viaggiano nel paese ci vanno perché vogliono vedere le follie dell’imperatore. Il nuovo governo l’ha capito e ha pochi problemi con questa particolare variante del dark tourism, considerando le vestigia di Niyazov un po’ come l’equivalente contemporaneo delle antichissime rovine di Merv o di Konya Urgench. Se il passato non si può cancellare, allora tanto vale appiattirlo sull’immagine che ne è stata restituita a furia di travel blog su YouTube e cercare di utilizzarlo per i propri fini. Ma è un’immagine che non fa capire come sono andate veramente le cose. Niyazov non era pazzo, era incolto, e le stranezze associate al suo nome sono quello che succede quando una persona ignorante ascende al potere assoluto e cerca di utilizzarlo per tenere insieme una comunità nazionale in un momento di crisi. Il Ruhnama, i cavalli, i cani, la turkmenità promossa da Niyazov erano tentativi di riempire di contenuto un vuoto che era venuto a crearsi con il crollo del mondo sovietico e dei suoi valori. Il culto della personalità e i monumenti in marmo, se da un lato certamente titillavano il suo ego, dall’altro servivano anche a mostrare che il mondo non aveva smesso di avere senso.
L’operazione, in effetti, è riuscita. Dopo il crollo dell’URSS il Turkmenistan non sarebbe dovuto rimanere insieme: non era mai esistito se non come repubblica socialista, e sarebbe stato logico aspettarsi che si sgretolasse tornando a essere un insieme di lignaggi tribali e poteri localistici – come è effettivamente successo ad un suo vicino, il Tagikistan, sprofondato in cinque anni di violentissima guerra civile. Niyazov, in qualche modo, l’ha evitato trovando al paese una nuova identità nazionale slegata dal socialismo. La stessa che il paese ha ancora oggi, nonostante le statue di Turkmenbashi non girino più seguendo il sole. È per questo che i monumenti voluti da Niyazov non sono stati rimossi, ma solo spostati in periferia, e che le sue statue d’oro continuano a essere visibili nelle piazze di tutte le città del Turkmenistan. Il regime non può fare a meno di lui, se perderebbe se stesso: il Turkmenistan come nazione è la nazione costruita da Niyazov. Trasformarlo in un’attrazione turistica risolve diversi problemi in un colpo solo: conserva la continuità politica e identitaria, occulta le azioni del regime turkmeno attuale e ammicca ai visitatori stranieri.
La dittatura turkmena è estremamente repressiva. Non esiste alcuna opposizione politica al partito di governo, il Partito democratico del Turkmenistan, né alcuna società civile, né stampa libera o associazioni indipendenti. La polizia è ovunque, con posti di blocco onnipresenti sulle strade fuori dalla capitale. Internet è censurato al punto che persino il sito di Iconografie è inaccessibile. Allo stesso tempo, però, ogni volta che passiamo da un posto di blocco vediamo l’autista passare una banconota al poliziotto con la stretta di mano, e tutti hanno VPN e accedono ai social, dal businessman di origine armena incontrato in un ristorante di Turkmenbashi la cui sorella in quel momento era “a Milano per fare shopping”, ai bambini di un villaggio nel deserto del Karakum che chiedevano di posare in foto con noi “per TikTok”. Anche la libertà di movimento, che in teoria non dovrebbe esserci, in pratica c’è più del previsto. L’impressione è che i paragoni con la Corea del Nord, magari anche corretti per quanto riguarda le intenzioni del governo, siano del tutto fuori strada per quanto riguarda le sue effettive capacità. Non dovresti poter vedere certe cose, non dovresti poter andare in certi posti, ma a nessuno frega abbastanza di impedirtelo; se il Turkmenistan è una Corea del Nord è una Corea del Nord gestita a cazzo di cane. In Turkmenistan ti senti alla mercé di un governo arbitrario che, se volesse, potrebbe fare di te ciò che vuole, ma percepisci anche che non gli interessi abbastanza per farlo. È come ha scritto David Foster Wallace in Infinite Jest: “la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi”. Il governo turkmeno sa tutto di noi: chi siamo, cosa facciamo nella vita, quando siamo entrati nel paese, dove andremo ogni giorno. I nostri passaporti vengono presi in custodia nelle reception degli hotel. Ma pensa a noi di rado.
Sul treno notturno per Turkmenbashi scopriamo che i nostri biglietti sono stati venduti due volte e i nostri posti sono già occupati. Rimasti a terra, con un giro di telefonate veniamo prelevati da un minivan delle ferrovie turkemene e portati a Gokdepe, fermata successiva, dove troviamo il treno fermo ad aspettarci, i nostri posti magicamente liberi, e un funzionario delle ferrovie che chiede una “dichiarazione spontanea” sulla prontezza con cui è stato risolto il problema. Repressione e rigidità, ma caotiche; in Corea del Nord non sarebbe potuto succedere.
L’ultimo giorno, ad Ashgabat, andiamo a visitare il museo nazionale del tappeto turkmeno, un edificio di marmo con la facciata d’oro a forma di tappeto (ovviamente), il cui ingresso è presidiato da due militari. I tappeti sono una delle fonti di orgoglio nazionale turkmeno: ogni regione, città, villaggio o tribù ha i suoi pattern specifici, per cui chi conosce il codice può riconoscere a colpo d’occhio la provenienza di un tappeto solo osservandone i ricami. Mentre attraversiamo le sale, ci imbattiamo in una troupe della televisione di stato turkmena che sta riprendendo due donne che, sedute su un tappeto, declamano frasi da un libro. È il nuovo libro dedicato ai tappeti dell’ex presidente Gurbanguly Berdimuhamedov, di cui per tutto il viaggio avevo notato l’assenza: nessun ritratto o foto in edifici pubblici; dopo aver governato il paese per un quindicennio sembrava scomparso nel nulla. Osserviamo le riprese mescolandoci alla folla di tecnici e donne turkmene dietro la telecamera, con i libri di Berdimuhamedov sottobraccio.
Nei giorni precedenti, la sera quando arrivavo in albergo, avevo guardato un po’ di televisione turkmena. Sul canale dedicato ad Ashgabat avevo trovato un programma in cui due tizi in giacca e cravatta camminavano in mezzo a un parco e declamavano in modo enfatico quelle che sembravano essere poesie sulla città, visto che ogni frase finiva con la parola “Ashgabat”. Su un altro canale avevo guardato per oltre 15 minuti un montaggio di riprese da varie angolazioni della stessa statua d’oro di cavalli con una musica epica di sottofondo, e poi un programma dedicato a un singolo cavallo di nome Polatly: un tizio stava in piedi accanto a una targa con nome, data di nascita e data di morte del cavallo, e leggeva qualcosa da un libro con un cavallo in copertina. Chi guarda questi programmi? Perché vengono prodotti? Nella maggior parte dei ristoranti e dei locali turkmeni in cui sono stato, quando c’era la televisione, era sempre accesa su canali musicali turchi o russi.
Con i soldi del petrolio e del gas, la dittatura sta costruendo un nuovo Turkmenistan per celebrare se stessa. È la privatizzazione dei sogni sovietici di ingegneria sociale e trasformazione della natura. Fuori da Ashgabat c’è Arkadag, una nuova smart city in costruzione dal 2019 con un budget di 5 miliardi di dollari il cui nome è un omaggio al nomignolo con cui è conosciuto l’ex presidente Gurbanguly Berdimuhamedov, che significa “protettore”. Sorge di fronte a Babarap, il villaggio da cui viene la famiglia Berdimuhamedov, e il suo skyline si può ammirare soltanto a distanza perché, per decreto, in città possono entrarvi solo auto elettriche – malgrado tutte le auto che ho visto in Turkmenistan fossero berline bianche degli anni Novanta e dei primi Duemila, a benzina. Arkadag ha anche una squadra di calcio, l’Arkadag FK, fondata nel 2023, che nel suo primo anno ha vinto il campionato e segna in media sei gol a partita.
Fuori da Turkmenbashi, invece, c’è Awaza, una “national tourist zone” sulle rive del mar Caspio su imitazione del boom edilizio di Dubai, descritta dalle stesse autorità del paese come la “Las Vegas turkmena”, ma ancora ufficialmente chiusa ai turisti. A nessuno sembra importare del divieto, però, e i taxi ti ci portano senza problemi. Non che ci sia granché da vedere: uno skyline di resort monumentali affacciati sul mare, strade enormi senza auto né pedoni, ville vuote, bar sulla spiaggia da cui si sente musica occidentale, con camerieri in livrea che passano le giornate ad attendere turisti che non arrivano mai. Aziz, la nostra guida, dice che in Turkmenistan gira voce che Awaza aprirà ufficialmente la prossima estate, ma sono quasi dieci anni che è pronta ed è ancora chiusa.
Sulla strada verso Merv, mentre attraversiamo un’autostrada così nuova da non essere segnata sulle mappe, ci fermiamo in un’area di servizio che è uno spazio liminale: enorme e vuota, con una sala da biliardo e un bancone dietro cui due baristi cercano su internet come si usa la macchina del caffè. All’ingresso, su un muro campeggia un murale a tema Winnie the Pooh. Accanto, un piccolo supermercato con un estetica da Wes Anderson o da regime nordcoreano: snack disposti ordinatamente sugli scaffali come fossero soprammobili, ordinati per colore.
A Balkanabat, 120mila abitanti, la biblioteca regionale è un edificio a otto piani a forma di libro. L’ingresso è un ampio salone di marmo, le sale da lettura sono vuote e ordinatissime. In media, ci dice la bibliotecaria, qui vengono una trentina di persone al giorno. I libri sono pochi, per la maggior parte scritti da Gurbanguly Berdimuhamedov, e anche in questo caso sono disposti sugli scaffali seguendo preoccupazioni estetiche più che funzionali. All’ultimo piano c’è un osservatorio astronomico ma, ci spiega la bibliotecaria, non ci sono tecnici per utilizzarlo. L’ultimo a visitarlo, aggiunge, è stato il console americano ormai dieci anni fa.
In ogni città, siamo gli unici ospiti degli alberghi in cui pernottiamo. Ci mettono al settimo o all’ottavo piano; un valletto ci chiama l’ascensore e ci fa salire a gruppi di tre. Ad Ashgabat dalla finestra vedo lo skyline illuminato con l’aeroporto sullo sfondo. A Dashoguz provo a scendere con le scale: non portano nella hall ma nel parcheggio di fronte all’hotel, e la porta d’uscita al piano terra è chiusa con un lucchetto. Ma per quanto possa sembrare tale, il Turkmenistan non è solo un grande villaggio Potëmkin. La gente c’è, solo che vive in un altro Turkmenistan, che sta tutt’intorno a quello scintillante messo in vetrina dalla dittatura e mostratoci dagli youtuber di viaggio: nei villaggi nel deserto del Karakum, nelle periferie delle città fatte di palazzoni sovietici. Non è un paese fantasma – è che sono tutti in ufficio.