La crisi della democrazia liberale è senza dubbio una delle tendenze più rilevanti della politica contemporanea, e il paese in cui è più evidente è l’Ungheria. Come si “visegradizza” una democrazia e quale lezione ungherese si può imparare nell’Italia di Giorgia Meloni? Ne abbiamo parlato con Zsuzsanna Szelényi, scrittrice e politica ungherese, membra fondatrice di Fidesz passata poi all’opposizione contro Orbán.
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Negli ultimi anni e anche in queste ultime elezioni europee sembra si stia affermando a livello continentale la tendenza alla “visegradizzazione” della politica, definibile nell’emergere di una dicotomia che vede da una parte il nazionalismo autoritario e dall’altra il liberalismo europeista. Cosa pensa di tale definizione?
Trovo queste dicotomie problematiche. Dopotutto la complessità è l’essenza stessa dell’Unione Europea: si tratta di un’unione di Paesi, culture e lingue diverse che naturalmente hanno interessi politici ed economici diversi. Quindi, la distinzione tra forze pro e anti-europee non può che portare nella direzione sbagliata. È piuttosto necessaria un’analisi più sfumata di ciò che sta accadendo nel continente. C’è sicuramente un vuoto nella politica europea, dovuto all’incapacità della UE a reagire ai cambiamenti radicali che stiamo vivendo, troppi e troppo veloci per permettere a questa istituzione di rispondervi prontamente. Questa situazione costituisce un notevole spazio d’azione per chi, come Viktor Orbán, è alla guida di un piccolo Paese ma è comunque capace di far sentire notevolmente la propria voce approfittando della debolezza delle istituzioni. E ci sono altri attori che possono sfruttare questo vuoto relativo o questa situazione di insicurezza.
Il quadro globale della UE, insomma, è definito da una notevole incapacità d’azione in un momento di grave crisi e di crescente marginalità internazionale, sia a livello politico che economico, rispetto alle altre grandi forze nell’arena globale. È quindi a partire da questo problema che arriva la minaccia autoritaria all’interno della UE, di cui l’Ungheria rappresenta ad oggi lo scenario peggiore, in cui un leader a capo di un governo monopartitico può guidare un paese per quattordici anni accentrando il potere e introducendo di fatto un nuovo sistema, il cosiddetto illiberalismo – termine introdotto dallo stesso Viktor Orbán dieci anni fa, che indica una sorta di sistema autoritario che rifiuta il nocciolo stesso della democrazia liberale, vale a dire la sua natura pluralista, la separazione dei poteri e i diritti fondamentali come la libertà di parola e di informazione.
Cosa significa questo per il futuro della UE? Chi ha un potere così grande in patria può avere a un certo punto una voce molto forte anche nell’arena europea, poiché nel sistema democratico europeo in cui i leader vanno e vengono se qualcuno rimane per tanto tempo ottiene un vantaggio di posizione che potrà in qualche modo utilizzare per i propri interessi personali e politici.
Un altro punto cruciale è che nessuno di questi leader autocratici o illiberali o di estrema destra vuole davvero distruggere l’Unione Europea. Sono rivendicazioni che funzionano nella propaganda ma è chiaro a chiunque arrivi al potere di avere bisogno della UE per rimanere un attore significativo sulla scena mondiale. Come ci ha mostrato la Brexit, nessun paese europeo, nemmeno la Germania, l’Italia o la Francia, può farcela da solo nell’attuale contesto competitivo globale. L’antieuropeismo dei politici europei resta dunque o incatenato all’opposizione o scompare una volta che arrivano al governo – lo stesso Orbán non ha alcun interesse a distruggere la UE. Ecco perché dico che dobbiamo analizzare la situazione in modo più sfumato, perché è una questione complessa.
L’Ungheria è il caso più eclatante di come una democrazia europea possa degenerare in un regime sempre più autoritario. Tu che hai fatto parte di Fidesz in passato, ritieni che all’indomani della caduta del socialismo ci fossero già nel partito i semi di questa deriva?
Assolutamente no, anzi, quando facevo parte di Fidesz si trattava di un gruppo giovane, centrista e liberale, molto fresco e aperto. La natura del partito è cambiata quando Orbán ne ha preso la guida nel 1993 e ha deciso che non c’era molta possibilità di crescita elettorale al centro. In questo frangente era impossibile muoversi verso la sinistra socialdemocratica, già occupata dai partiti post-comunisti, mentre c’era un grande caos e una profonda divisione fra i partiti di destra all’indomani della morte del primo ministro conservatore József Antall. Orbán ha quindi approfittato della situazione e riconfigurato l’ideologia politica di Fidesz da quella di un partito liberale centrista alla destra conservatrice. Questa trasformazione ha determinato una grande crisi nel partito, spingendo molte persone – fra cui la sottoscritta – ad andarsene nel rifiuto di una manovra evidentemente opportunistica. Nonostante questo, Orbán è riuscito a superare il momento e ha reso il partito sempre più simile a se stesso, approfittando anzi della partenza dei suoi oppositori. La strategia ha pagato, e alla fine Orbán è riuscito a diventare primo ministro di un governo di destra nel 1998.
A questo primo grande cambiamento ne è seguito un altro, dopo che Orbán ha perso il potere nel 2002 e deciso di adottare una strategia politica ben più radicale, adottando uno stile comunicativo più populistico e polarizzante. Già nei primi anni 2000, Orbán si impose come un caso di notevole radicalità nella politica ungherese, mobilitando continuamente i propri sostenitori nelle strade e adottando un linguaggio tossico che indicava i propri avversari come nemici della nazione. È in questo clima tossico che, quando la crisi economica ha fatto crollare il governo della sinistra liberale, Orbán ha ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni del 2010. Si possono quindi già delineare tre diverse fasi nella storia di Fidesz: nato come partito liberale, è poi divenuto un partito conservatore e infine un partito populista e tradizionalista.
La deriva autoritaria dell’Ungheria ha cominciato a fare notizia a livello internazionale con le riforme costituzionali volute da Orbán nel 2013. Ma in concreto, come ha fatto il primo ministro ad assumere un tale controllo sulle istituzioni nazionali?
Con la vittoria del 2010, Orbán ha ottenuto così tanto potere che ha iniziato a cambiare il sistema politico. A questo punto non è stato solo il suo partito, ma l’intero sistema politico ungherese, ad essere trasformato per accumulare il maggior potere politico ed economico possibile. Da allora, i governi di Fidesz hanno ripetutamente modificato la costituzione e le leggi elettorali a proprio vantaggio per vincere e vincere ancora. Per intenderci, ci sono state venticinque riforme della legge e delle circoscrizioni elettorali dal 2010 ad oggi, al fine di paralizzare le opposizioni e creare un ambiente in cui il partito possa continuare a dominare. Ormai il sistema elettorale ungherese è così distorto che è difficile anche solo immaginare che un altro partito politico possa sconfiggere Orbán. Non si tratta di una semplice questione formale o istituzionale, è evidente che finché l’opposizione resta paralizzata e costretta a riadattarsi alle nuove regole non avrà mai modo di configurarsi come alternativa ragionevole, e questo è già di per sé sufficiente per la conservazione del potere.
E poi, naturalmente, c’è la questione della corruzione dilagante, per cui i fondi della UE sono stati incanalati in modo significativo verso circoli d’affari vicini al primo ministro – un altro elemento cruciale nel mantenimento del potere politico e nel controllo di varie imprese strategiche della nazione. Grazie a tali relazioni Orbán ha potuto imporre un monopolio di fatto dell’informazione, non solo controllando i media pubblici ma anche spingendo i propri alleati ad investire le proprie fortune nell’acquisizione dei media commerciali. Anche se credo che questo elemento sia comprensibile per il pubblico italiano, occorre specificare le dimensioni del fenomeno in Ungheria: oltre alla televisione pubblica, completamente controllata dal governo, ci sono altre due reti maggiori, di cui una è a sua volta legata ad oligarchi fedeli a Fidesz, mentre l’altra è indipendente ma si limita a trasmettere programmi di intrattenimento. Un altro esempio sono i media e i giornali locali, i più seguiti nel paese e tutti nelle mani di persone vicine a Orbán. Come se non bastasse, Fidesz è anche molto presente sui social media, impiegando influencer professionisti pagati dal partito e dai suoi alleati al fine di condurre campagne politiche come non se ne vedono altrove in Europa.
Insomma, il denaro, la distorsione delle istituzioni e, per ultima, l’ideologia di Orbán sono ciò che rende il governo ungherese tanto pericoloso. Questi tre elementi permettono a Fidesz di godere ininterrottamente della maggioranza parlamentare, nonché di un impareggiabile vantaggio finanziario e mediatico. Una combinazione che rappresenta un manuale autocratico ed è ciò che Orbán ha cercato di vendere ad altri Paesi europei.
In molti casi – penso ad esempio a Orbán, Erdogan e Modi – la figura del leader carismatico sembra essere un elemento determinante nella transizione da democrazia a regime illiberale. Sta tutto nel leader dunque? O ci sono condizioni sociali comuni che ne precedono e facilitano l’affermazione?
La scienza politica ci insegna che quando una democrazia entra in declino dietro c’è sempre una storia personale. Certo, ci sono anche cause esterne più complesse, ma l’elemento individuale è sempre individuabile, specie in ragione della forte personalizzazione propria della politica contemporanea. Lo vediamo anche in altri paesi europei – per esempio in Francia con Macron, arrivato alla presidenza grazie alla propria personalità e non grazie un partito forte, o nel referendum per la Brexit. A influenzare la politica non sono tanto i partiti e le ideologie, quanto questioni personali. In questa situazione ormai normale il pericolo sorge quando un leader rimane sciolto da ogni controllo.
Naturalmente, però, c’è anche bisogno che si verifichino determinate condizioni perché qualcuno possa arrivare al potere in questo modo. Nel caso dell’Ungheria, sebbene l’apparato costituzionale abbia retto per vent’anni, il problema è stata l’incapacità delle élite politiche di gestire il sistema elettorale. A differenza che nella maggior parte dei paesi europei, in Ungheria abbiamo sempre avuto un sistema maggioritario con importanti premi di maggioranza, per cui un partito può arrivare alla maggioranza assoluta in parlamento anche senza una grande vittoria. Questo sistema era in vigore già all’inizio degli anni Novanta su iniziativa del Partito comunista ma nessuno aveva mai avuto la forza politica necessaria per poterlo correggere. Nel 2010 questo sistema ha permesso il trionfo di Orbán. Fino a quel momento i partiti si erano serenamente alternati al potere e il sistema maggioritario aveva garantito una certa stabilità democratica. Con la crisi del 2008, particolarmente dura in Ungheria, si diedero le condizioni per la prima super maggioranza di Orbán che da allora, pur senza mai superare la metà dei suffragi, ha sempre dominato il parlamento. Quindi, sì, l’Ungheria ha patito dei problemi di carattere istituzionale.
Una caratteristica notevole dei paesi “visegradizzati” è la sostanziale assenza di forti formazioni di sinistra progressista. Come si spiega questo fatto e quali conseguenze comporta?
La politica basata sulle ideologie è finita – si tratta di una visione molto novecentesca, e anzi già nella seconda metà del secolo scorso abbiamo assistito a un grande spostamento verso il centro della maggior parte dei partiti politici. La novità dello scenario attuale va quindi misurata in relazione all’ascesa di partiti provenienti dagli estremi. Quando si parla di destra radicale si va incontro a un grosso equivoco: se si analizzano i programmi di questi partiti, infatti, si possono trovare molti elementi tipicamente riconducibili alla sinistra. Ad esempio, queste formazioni credono nella necessità di uno Stato forte e di una politica economica interventista.
Lo stesso Orbán è un grande accentratore e sotto di lui il ruolo dello Stato in Ungheria è divenuto molto forte. Fidesz e altri partiti simili si sono inoltre impegnati a garantire benefici sociali ai cittadini, come gli assegni per le famiglie con bambini introdotti in Polonia dal governo del PiS. Tale attitudine da un lato deriva da un approccio socialista alla politica, ma dall’altro risulta molto escludente in quanto è praticamente riservata solo alle famiglie della classe media – il cui appoggio è sufficiente per restare al potere – e non anche ai ceti più poveri. A questo si deve inoltre aggiungere una politica economica basata sui monopoli di Stato e su un forte protezionismo.
Tutto ciò non è un’esclusiva dell’Europa orientale, dove lo statalismo resta un retaggio del periodo socialista, ma anche in altri paesi – si pensi alle promesse di sussidi e nazionalizzazioni fatte in Francia da Marine Le Pen. Proprio per questo credo sia un errore considerare l’Europa orientale come un caso a parte: tutto ciò che accade qui lo si ritrova in qualsiasi altra parte d’Europa. Questi Paesi possono essere un po’ più fragili e forse cedono più facilmente all’uomo forte, ma non direi che le istituzioni democratiche siano assolutamente intatte in altri Paesi. Non mi piace molto il termine “visegradizzazione”, perché è un processo globale: le categorie di illiberalismo e autocratizzazione sono più accurate.
Anche nell’Italia degli anni Novanta è fallita l’affermazione di una sana proposta politica liberale, portando oggi all’affermazione al governo di Giorgia Meloni – alla quale si oppone un centrosinistra europeista e liberal-democratico. Si può fare questo paragone – e cosa si può imparare dalla lezione ungherese?
Naturalmente ci sono somiglianze tra la storia italiana e quella ungherese già nel corso del XX secolo, avendo entrambi i paesi una forte tradizione fascista e autocratica. Quello che si può dire oggi è che pesanti cambiamenti costituzionali apportati da uno o pochi partiti non sono mai un fatto positivo e alla fine sono riconducibili agli interessi specifici di chi li ha messi in atto piuttosto che della nazione. I leader autocratici cercano spesso di far passare l’idea che uno Stato forte guidato da un solo partito possa essere democratico ma un unico partito al potere è sempre esclusivista ed è sempre una minaccia per la democrazia.
Perché sia tale, la democrazia deve avere carattere pluralistico e offrire la concreta possibilità dell’alternanza al governo di differenti gruppi di interesse. Tenere delle elezioni non è di per sé sufficiente perché un regime possa essere definito “democratico” – nella maggior parte degli Stati si tengono elezioni, ma solo una minoranza di questi è effettivamente democratica – ed è quindi proprio l’alternanza al potere che deve essere tutelata dalla costituzione.
L’ascesa delle forze di destra nel mondo è una reazione ai cambiamenti percepiti da molte personae come minacciosi. Ciò rientra nella natura umana, tendenzialmente incline a temere l’ignoto, e dunque propensa a sostenere partiti a inclinazione comunitarista e leader forti capaci di promettere maggiore sicurezza. L’estrema destra ha capito tutto questo, e le forze democratiche devono fare altrettanto iniziando a rivolgersi proprio a questo bisogno fondamentale di stabilità, sicurezza e comunità. Ad esempio non si dovrebbe rifiutare a priori l’uso di un linguaggio patriottico, poiché facendo questo errore – tipico dei partiti liberali e socialisti – si rinuncia di fatto all’idea di comunità simbolica alla base dello Stato-nazione e alla legittimità politica che questa concede. L’alternativa è lasciare questi temi alle forze illiberali – com’è accaduto in Ungheria, dove il sentimento patriottico è stato monopolizzato da Orbán permettendogli di accusare i propri avversari di non essere dei buoni ungheresi.