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L’Asia è solo un’espressione geografica
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Per capire l’evoluzione della storia degli ultimi (e dei prossimi) cento anni, non esiste un continente migliore dell’Asia
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di Guido Alberto Casanova
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Per capire l’evoluzione della storia degli ultimi (e dei prossimi) cento anni, non esiste un continente migliore dell’Asia. È in Asia, infatti, che troviamo le rappresentazioni plastiche dei cambi di paradigma e del succedersi delle fasi storiche che hanno scandito il XX e il XXI secolo. E questo nonostante i libri di storia non dedichino all’Asia più che qualche capitolo sulla guerra civile cinese e la guerra del Vietnam, così come nonostante il fatto che per gran parte dell’ultimo secolo una delle caratteristiche prevalenti della regione – con la sola eccezione del Giappone – sia stata l’arretratezza economica. Perché l’Asia, addirittura più dell’Europa, sarebbe allora il miglior punto d’osservazione sul nostro tempo?
Per rispondere bisogna prima di tutto sgombrare il campo dalla visione eurocentrica e strettamente economicistica che tendiamo ad adottare. L’Asia, certo, sarà stata anche povera per gran parte del secolo scorso, ma la storia spesso non segue l’andamento del PIL – altrimenti come avrebbero potuto i vietnamiti avere la meglio sull’esercito statunitense? E la stessa arretratezza economica asiatica nel Novecento non era uno stato di normalità – se osservata da una prospettiva di lunga durata che abbraccia i secoli precedenti si rivela piuttosto un’eccezione storica. L’Asia è sempre stata, fino alla rivoluzione industriale e al “miracolo occidentale”, il motore economico del mondo.
L’Asia è dunque un punto di osservazione privilegiato per osservare i cambi di paradigmi storici. Ciò è vero se pensiamo al più grande evento del secolo scorso, la seconda guerra mondiale: l’aggressione espansionista di matrice fascista trova il proprio primo esempio nel 1931, quando l’esercito giapponese occupa la Manciuria; l’assalto delle potenze dell’Asse al precario sistema globale esistente tra gli anni ’20 e ’30, per sostituirlo con un nuovo ordine internazionale e razziale, non comincia in Polonia nel 1939 ma alle porte di Pechino, con l’incidente del ponte di Marco Polo e l’invasione giapponese della Cina.
E tutto ciò rimane vero anche nel dopoguerra, quando da un lato l’Asia è il teatro spettacolare della caduta del potere europeo e uno dei palcoscenici principali del processo di decolonizzazione, mentre dall’altro gli spazi di potere lasciati aperti in Asia da questi processi e la conseguente fluidità del sistema internazionale in loco fanno sì che nel continente non siano presenti le nette e riconoscibili linee di separazione tra comunismo e capitalismo tracciate invece in Europa dalla Guerra fredda. In Asia la Guerra fredda è calda, dalla Corea alla Cina e al Vietnam. Meraviglioso interprete di questo tempo fu il generale Giap, un cittadino vietnamita che combatté prima contro gli occupanti giapponesi, poi contro i colonizzatori francesi e infine contro gli imperialisti statunitensi.
La Guerra fredda stessa finisce in Asia. La rottura del campo socialista si deve all’avvicinamento tra Stati Uniti e Cina operato da Mao Zedong e Richard Nixon; l’economia pianificata tramonta grazie alle riforme economiche di Deng Xiaoping. Il momento unipolare statunitense che ne segue è reso possibile, tra le altre cose, dalla stabilizzazione del potere d’acquisto della popolazione in Europa e in Nord America, a sua volta permesso dall’ascesa industriale e produttiva dei paesi dell’Asia orientale. L’egemonia politico-culturale statunitense dell’epoca della “Fine della Storia” si è retta anche grazie al tacito riconoscimento della Cina stessa, espresso con la propria diplomazia, politica economica e narrazione politica.
E a maggior ragione l’Asia è centrale nel mondo in cui abbiamo scoperto di abitare negli ultimi anni. La fine del capitalismo globalizzato, l’avvento di una nuova epoca di segmentazione globale, il ritrovamento di un ruolo per le comunità politiche nel dibattito internazionale sull’economia e sullo sviluppo tecnologico, il progressivo decadimento del regime internazionale liberale che aveva sorretto il sistema mondo dalla fine degli anni ’80: tutti questi fenomeni hanno avuto una loro prominente esemplificazione in Asia.
La crisi del capitalismo globalizzato è oggi evidente, ma già prima dei dazi e della guerra commerciale condotta da Donald Trump contro la Cina c’era stato il TPP, Trans-Pacific Partnership, che ambiva a fungere da contraltare commerciale alla Cina nell’area dell’Asia-Pacifico. E anche senza andare così tanto indietro nel tempo, negli ultimi tre anni due paesi tra loro simili come Giappone e Corea del Sud si sono affrontati in un conflitto commerciale serrato alla cui base stanno visioni radicalmente divergenti della memoria storica.
Questo fenomeno è poi strettamente connesso al ritorno del “politico” nell’economia internazionale. Il paradigma dello shareholder value, a cui facevano da corollario la mobilità globale dei capitali e il profitto come massimo criterio di valutazione delle prestazioni, è ormai già ampiamente superato dall’ascesa di quello della sicurezza economica. Un concetto questo, che viene declinato in varie forme non solo a seconda dei singoli contesti nazionali ma anche a seconda del momento. Per Trump la protezione del tessuto industriale, tecnologico ed economico degli Stati Uniti passava attraverso il re-shoring delle catene di produzione verso il proprio paese, per Biden invece esso passa dal friend-shoring vero gli Stati Uniti e i propri paesi alleati. Da questo punto di vista, le somiglianze tra le politiche industriali di Trump e quelle della Cina di Xi Jinping sollevano interessanti parallelismi sulle modalità con cui nazionalismo, sicurezza e sviluppo economico si intersecano. Questo senza nemmeno andare a scomodare la mentalità sviluppista di certi governi della regione, per i quali l’accomodamento degli appetiti imprenditoriali agli interessi dello Stato è una caratteristica ben radicata nella propria cultura politica.
Anche per quanto riguardo il decadimento del regime internazionale liberale, i primi segni si sono visti in Asia. Gli eventi di Hong Kong nel periodo 2019-2020, da questo punto di vista, rappresentano un punto di svolta paragonabile all’invasione russa dell’Ucraina. Anche in quell’occasione i canoni i criteri solitamente usati per osservare il sistema-mondo si sono dimostrati non più validi e la realtà ha cominciato a muoversi su binari sconosciuti, seguendo leggi di funzionamento ancora da scoprire.
Conflitti tecnologico-commerciali, cordate internazionali di pesi allineati, riscoperta del “politico” nelle decisioni economiche, decadimento dell’ordine liberale internazionale, ascesa di nuove potenze. L’Asia è un potente motore dietro a questi cambiamenti, che a loro volta stanno dando all’Asia stessa un nuovo volto, tanto da spingere molti a ribattezzare questo secolo col suo nome. L’Asia muove gli equilibri globali e il suo ruolo nel sistema mondo che verrà è fuori discussione.
Attenzione però a cosa intendiamo con secolo asiatico. In primo luogo perché se è vero che il XXI secolo sarà senza dubbio un secolo asiatico, è altrettanto vero che anche il XX secolo lo è stato. E in secondo luogo perché lo stesso termine “Asia” è altamente contraddittorio e rischia di offuscare più che chiarire ciò che avviene in quella parte del mondo. Dietro la parola “Asia”, infatti, non si nasconde infatti un soggetto politico ma un luogo dove pullulano molti dei soggetti politici che stanno dando forma al XXI secolo – ognuno con i suoi punti di forza e le sue sfide interne, ognuno con divergenze e inconciliabilità rispetto agli altri. Per parafrasare Metternich, l’Asia è solo un’espressione geografica.
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