Sono vari anni che viene profetizzata la fine dell’unipolarismo americano a vantaggio di un mondo diviso tra più egemoni in equilibrio tra loro. La prospettiva, però, non è necessariamente positiva e anzi potrebbe essere estremamente pericolosa – e i primi mesi di presidenza Trump non sono che un’anticipazione del caos futuro. Ne abbiamo parlato con Stefano Azzarà, professore di Storia della filosofia all’università di Urbino e allievo di Domenico Losurdo.
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Negli ultimi decenni – dalla crisi del 2008 alla guerra in Ucraina – abbiamo visto l’implosione dell’ordine globale della “fine della Storia”, ovvero l’unipolarismo statunitense. Com’è cambiato il concetto di imperialismo in questo passaggio di fase? Un tempo il termine era agitato dalla sinistra che si opponeva alle guerre imperiali americane, oggi viene agitato dal liberalismo progressista contro la Russia in difesa della sovranità ucraina.
Anzitutto, dobbiamo distinguere tra “imperiale” e “imperialistico”, anche se può sembrare una distinzione poco rilevante. Se prendiamo in considerazione soltanto la pressione economica, politica e/o militare esercitata su altri territori, la tentazione imperiale nella storia è inevitabile per ogni grande potenza in espansione, perché è legata a una serie di condizioni geopolitiche oggettive – siano l’acquisizione di risorse e influenza o necessità difensive. Questa dimensione è una costante che condiziona il comportamento delle grandi potenze e però, mentre si configura in forme quasi esclusivamente distruttive quando deborda nel colonialismo – identificandosi con lo sterminio e il genocidio, come accaduto con la colonizzazione del Nuovo Mondo – non è necessariamente e soltanto qualcosa di negativo se si guarda invece a quello che Schmitt chiamava jus publicum europaeum, ossia ai rapporti tra pari.
Intanto, nella misura in cui si intreccia alla dominazione politico-militare, solitamente viene esercitata in un contesto regionale e tutto sommato limitato; in secondo luogo, risponde appunto anche a esigenze reali di difesa e cioè mira ad evitare un potenziale accerchiamento e pretende di conseguenza che i territori circostanti siano liberi da pericoli. Si tratta, ripeto, di una determinazione oggettiva. È impensabile che una grande potenza possa essere totalmente libera da questa tentazione ed è normale che, se si ritrova in un qualche modo limitata, cerchi di procurarsi spazi di manovra. In questo senso, i paesi che attorniano una grande potenza possono anche ritenere di avere un diritto astratto di autodeterminazione, ma nella realtà non ne hanno più di quanto ogni individuo, in nome della propria libertà, abbia il diritto di volare sbattendo le braccia o di pretendere che un muro si sposti quando lui intende esercitare il diritto sovrano di passare. Il desiderio di questo individuo si scontrerà inevitabilmente con la realtà, anche se il muro e la gravità possono essere giudicati inopportuni, dispotici e abusivi – e magari lo sono davvero.
La dimensione imperiale può avere anche una natura progressiva, sia sul piano politico che su quello economico e culturale. È il caso, ad esempio, della riorganizzazione dello spazio europeo da parte dell’impero carolingio o dell’unificazione dei territori della Cina con la dinastia Qin, che pone fine al periodo dei Regni combattenti: la tendenza imperiale pone fine alla frantumazione e alla violenza. Il medesimo discorso non si può applicare invece alle conquiste napoleoniche o all’impero austro-ungarico, dal momento che in quel momento sono già costituiti gli Stati nazionali ed è proprio a questi che è ormai affidato lo sviluppo storico. Le cose sono cambiate rispetto alla dispersione feudale, per cui la sopraffazione imperiale è adesso prevalentemente reazionaria; il XIX secolo ha ormai da tempo superato i problemi del passato prendendo un corso ben preciso – ovvero quello descritto dalla filosofia della storia di Hegel. Può darsi che nel XXII secolo la dimensione nazionale esaurisca la sua necessità e la spinta imperiale ritrovi potenzialità progressive, ma ancora non lo sappiamo. Nella misura in cui l’impero nega gli Stati nazionali, la coscienza nazionale e il diritto internazionale, comunque, non si tratta più di una tendenza “imperiale” oggettiva ma possiamo cominciare a parlare di imperialismo.
Il dibattito tra gli storici è ampio e le posizioni sono molto diverse, anche perché sono molteplici i caratteri della forma “impero”, ma per tanti aspetti è in primo luogo proprio la presenza degli Stati nazionali a distinguere ciò che era solo imperiale da ciò che ora è imperialistico. È un corollario implicito nella teoria leninista, che ridefinisce la tendenza imperiale nelle condizioni del modo di produzione capitalistico, secondo criteri che assumono il loro significato reale in questo contesto, che è prevalentemente politico: lo sviluppo capitalistico, lungi dall’essere sinonimo di pace e armonioso commercio, è inevitabilmente connesso alla dominazione e alla guerra e entra prima o poi in contraddizione con l’ordine basato sulle nazioni che esso stesso, paradossalmente, ha stimolato.
Per quanto riguarda il cambiamento di significato che è avvenuto di recente, si tratta di una giusta constatazione. Molte parole hanno cambiato significato perché le parole sono un campo di battaglia per l’egemonia. E con la vittoria storica del capitalismo, gran parte del lessico della tradizione rivoluzionaria, che era in via di trasformazione già dagli anni Settanta, è stato appropriato dalla grande borghesia che lo usa per corroborare la propria visione del mondo e il proprio primato culturale. Ancora negli anni Ottanta gli storici liberali evitavano il termine “imperialismo” e usavano quello di “imperiale” per distinguersi dal leninismo e per sussumere sotto questa categoria l’egemonismo sovietico. Dopo la fine della Guerra Fredda le cose sono cambiate e l’“imperialismo” è apertamente appropriato e ribaltato di segno. Ecco che “imperialisti” sono la Russia o la Cina, laddove per queste potenze dobbiamo constatare in realtà soltanto l’inevitabile tendenza “imperiale” oggettiva (una tendenza nella quale l’ovvia rivendicazione di una leadership regionale si intreccia a esigenze difensive e persino di completamento dell’unità nazionale, nel caso della Cina). “Imperialisti” invece non sono gli Stati Uniti, nonostante questi abbiano sistematicamente imposto il loro dominio violando senza remore la sovranità di Stati nazionali che sono anche assai lontani dai loro confini, dato che dopo la correzione della Dottrina Monroe a fine Ottocento e poi con l’intervento nella Prima guerra mondiale, il mondo intero, e non più il solo emisfero occidentale, diventa il cortile di casa della “nazione indispensabile” guidata dal Manifest Destiny e la politica estera diventa una collezione di casi particolari della politica interna statunitense. Gli Stati Uniti diventano invece “internazionalisti”, strappando anche questa parola alla tradizione rivoluzionaria, proprio in quanto intervengono in tutto il mondo per garantire il rispetto dei diritti umani. Si tratta di un internazionalismo astratto che è l’epifenomeno politico di un universalismo filosofico altrettanto astratto, immediato e aggressivo.
In questa situazione, l’ordine internazionale fondato sulle regole appare in crisi – anche a causa del mondo occidentale che ne è stato il principale promotore. La forza sembra essere tornata a dettare legge nel sistema internazionale: sembrano sfidarsi gli adepti della supremazia (sia essa russa o occidentale) contro i realisti alla John Mearsheimer che implicitamente accettano il riconoscimento della forza tramite le sfere di influenza. Eppure in nessun caso queste due visioni vengono messe in relazione all’imperialismo. È possibile una terza via?
Il cosiddetto ordine internazionale fondato sulle regole si è contrapposto in questi decenni all’ordine internazionale fondato sull’Onu e nonostante le apparenze così rassicuranti è un esempio di bispensiero perché è la formula che esprime la pretesa degli Stati Uniti e della catena di comando imperialista occidentale di plasmare la globalizzazione secondo le proprie regole – e cioè alla luce del primato delle democrazie liberali e degli interessi occidentali. Questa visione del mondo e la situazione planetaria che ne è derivata sono anch’esse legate alla forza. La quale, dunque, ha sempre dettato legge nel sistema internazionale. Certo, c’è oggi una novità: la crisi dell’universalismo ideologico che ha trasfigurato questa formula legittimandola sul piano ideale nell’idea dei diritti umani, una crisi che sta riportando in auge la politica di potenza. A questo punto, nemmeno le fantomatiche “regole” a convenienza bastano e vige il principio dell’arbitrio sovrano degli Stati Uniti, i quali non hanno più nemmeno bisogno di trovare qualche formula giustificatoria.
Non diversamente da Huntington, Mearsheimer ha criticato in maniera molto aspra, secondo la sua consueta impostazione realista, l’universalismo liberale che ha presieduto alla politica estera statunitense dal trionfo nella guerra fredda, una “logica universalista” che induce questo paese a voler plasmare “il mondo a propria immagine e somiglianza” assegnandosi una sorta di missione ai limiti del fanatismo religioso e attribuendosi persino il dovere di assicurare la felicità e il benessere del mondo intero attraverso un ininterrotto intervento nelle vicende di ogni angolo della Terra. In un mondo articolato in nazioni e aree di civiltà molto diverse tra loro, che hanno i loro interessi e le loro peculiarità culturali e che rifiutano queste ingerenze che ne ledono la sovranità, i caratteri prevalenti della “politica estera liberale”, che nel suo fanatismo messianico ipocrita e contraddittorio pretende di detenere la verità assoluta, incrementano le possibilità di guerra. Ma quella di Mearsheimer non è una critica del suprematismo occidentale bensì del liberalismo democratico e della stessa democrazia, condotta in nome di un liberalismo conservatore; così come la critica dell’universalismo astratto non avviene in direzione di un universalismo concreto ma della rivendicazione del particolarismo come unico orizzonte possibile della politica, internazionale e non. All’impossibile universalismo liberale, dunque, viene contrapposta la cinica rivendicazione del particolarismo come ritorno al liberalismo pre-democratico puro e autentico e come unica dimensione della politica tra le nazioni e tra i popoli. Per Mearsheimer, non solo la politica è prevalentemente “competizione per il potere” ma questa competizione è “un gioco a somma zero” e non c’è possibilità di comune avanzamento della comunità delle nazioni sulla strada del progresso. Proprio il primato dei rapporti di forza in quanto tali, invece, non viene in nessun modo messo in discussione.
C’è un’alternativa al fanatismo liberaldemocratico e al realismo particolarista e relativista dei liberalconservatori? C’è una terza via? La terza via più auspicabile sarebbe il socialismo, ovvero la rivoluzione. Ma nell’attesa, il percorso più praticabile per attenuare la violenza mi sembra quello che il filosofo cinese Zhao Tingyang ha delineato attraverso il concetto di Tianxia, “tutto sotto il medesimo Cielo”. È un’idea di coesistenza tra le nazioni e le aree di civiltà che al gioco a somma zero del particolarismo contrappone l’idea di un gioco a somma positiva, così che tutti avrebbero vantaggio dalla cooperazione piuttosto che dal conflitto. È un percorso che, al contrario di quello particolaristico, parla condivisione, multilateralismo, istituzioni internazionali, democrazia tra le nazioni. E che non rinuncia a un orizzonte universalistico ma invece di definirlo a priori in maniera astratta lo costruisce concretamente nella prassi attraverso il riconoscimento reciproco degli attori in gioco. Certo, questa è la teoria e la pratica è un’altra faccenda. Tuttavia, siamo molto lontani da questo scenario e al momento la cosa più probabile sembra essere una catastrofica fusione delle prime due vie: si pensi al discorso di insediamento di Trump, in cui ha annunciato che fermerà il Green Deal, deporterà milioni di migranti e pianterà la bandiera USA su Marte, con una fantastica sintesi di fanatismo ideologico e culto della forza arbitraria e fine a se stessa.
Qual è il ruolo, in questa situazione di caos, della Grande convergenza, quel processo di rimodulazione della disparità tra Occidente e resto del mondo reso possibile dalla globalizzazione negli ultimi 40 anni?
Un ruolo decisivo. È questo il processo di fondo, che soggiace a tutti i sommovimenti delle altre sfere e le sovradetermina. Ed è, nella sua sostanza, il miracolo perennemente rinnovato della storia: l’attestazione che la storia c’è, che le cose cambiano, si muovono. E che la legge fondamentale di questo movimento è ineffabile, perché non è altro che l’assenza di ogni prevedibilità naturalistica. L’eterogenesi dei fini, insomma, le collisioni da cui scaturisce il corso del mondo, costituiscono l’aspetto più affascinante della storia umana. Nata per spinta inerziale – ma anche per consapevole progettualità al fine di spianare il terreno del mondo all’espansione del dominio occidentale –, la globalizzazione capitalistica non è mai stata un’autentica mondializzazione, un farsi mondo del mondo, perché è sempre stata la dilatazione globale degli interessi particolari dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti. E tuttavia, poiché la realtà è sempre debordante rispetto a ogni intento umano, finisce pian piano per includere nel mercato mondiale aree del mondo fino a quel momento marginali e per risvegliarne le energie. Questo attesta come lo stesso capitalismo non avesse esaurito in quel momento (e probabilmente nemmeno tutt’oggi) le sue potenzialità progressive, quelle potenzialità che sono presenti anche nel rapporto di capitale, incastonate nel suo nucleo distruttivo di sfruttamento e dominazione: come la stessa riduzione del lavoro vivo a lavoro astratto, come è persino inscritto nella forma del denaro, anche la globalizzazione alludeva comunque, per vie traverse e contraddittorie, alla costruzione dell’essenza umana generica e attendeva soltanto la negazione della negazione. Così che già agli inizi del secondo millennio non aveva nessun senso definirsi “no global” ma era decisamente più adeguata la definizione di “alter-globalisti” e cioè di fautori di una autentica globalizzazione che passasse per il riconoscimento tra alterità.
Certo, se è stato doloroso il processo di globalizzazione capitalistico in senso stretto passato per il crollo del blocco sovietico, anni e anni di guerre, fame e devastazione, anche questo risveglio postcoloniale non è stato indolore. Non c’è dubbio che queste regioni abbiano saputo efficacemente investire sul mercato mondiale aperto dalla globalizzazione e monopolizzato in quel momento dall’Occidente il loro vantaggio competitivo, ossia il bassissimo costo del lavoro e la ancora scarsa sensibilità ambientale (che, come diceva un altro sincero democratico come Kenichi Ohmae, emerge soltanto quando un popolo supera i 10mila dollari di reddito annuo, ossia quando i bisogni primari sono stati garantiti). Ma il basso costo del lavoro non sarebbe stato sufficiente e avrebbe soltanto precostituito le condizioni di una dominazione ancora più feroce da parte delle grandi potenze se non fosse intervenuto un altro fattore, e cioè il diverso rapporto tra Stato e mercato che in quelle aree ex coloniali si è affermato, con la capacità, da parte degli Stati nazionali interessati, di dirigere lo sviluppo economico anche mediante elementi di pianificazione e di coordinare gli interessi particolari subordinandoli all’interesse nazionale. Questa combinazione ha consentito così un fenomeno di portata gigantesca: la Cina, per parlare del caso più clamoroso, ha concentrato in pochi decenni lo sviluppo delle forze produttive che l’Occidente ha accumulato in secoli di storia, consentendole di conservare la propria indipendenza e di spezzare le catene della dominazione imperialistica, proseguendo sulla scena internazionale la rivoluzione politica che aveva liberato il paese dal Giappone e dal primato della borghesia compradora.
Le conseguenze di questo fenomeno sono difficilmente sottovalutabili, ma è certo che sarà un processo molto lungo e complicato e che non ne siamo oggi che all’inizio. Tuttavia i suoi contraccolpi condizionano già la scena politica in tutti i paesi del mondo e in particolare in Occidente, poiché con l’ascesa del mondo ex coloniale i rapporti di forza politici, economici e culturali cambiano. Sul terreno culturale, questo si traduce nel rifiuto dell’universalismo astratto e immediato occidentale come una forma di imperialismo culturale; sugli altri terreni, implica la diminuzione della quota di ricchezza e di potere a disposizione dell’Occidente. Il management capitalistico della crisi messo in campo dalle liberaldemocrazie ha scaricato sulle classi subalterne e sui ceti medi questa perdita di ricchezza e potere. Da qui la stagione della scissione populista-sovranista, che è l’epifenomeno dello sgretolamento del blocco sociale del capitale stabilito, ossia del capitale globalizzato non più in grado di garantire i propri clientes; e il rafforzarsi della frazione outsider del medesimo grande capitale, la quale è riuscita a mettersi alla testa di questa rivolta facendone proprie le parole d’ordine e riuscendo nel miracolo attuale, per cui miliardari senza principi capeggiano un popolo di morti di fame inebriandolo di parole d’ordine ispirate ai valori morali e alla tradizione. Il mondo slitta a destra da 40 anni. Se questo slittamento era capeggiato in chiave tecnocratica dalla liberaldemocrazia, il testimone adesso è passato al liberalismo conservatore, che torna alle sue origini più feroci e declina la fase politica in chiave particolaristica e primitivistica.
Un grande assente, in questi discorsi, è il movimento organizzato dei lavoratori. Sia per la sconfitta storica del socialismo 30 anni fa, sia per l’evidente debolezza di chi ancora si richiama al socialismo novecentesco nell’elaborare un posizionamento autonomo. Esiste nell’attuale congiuntura la possibilità che un movimento dei lavoratori riesca ad organizzare una propria risposta agli eventi in corso e in che modo dovrebbe configurarsi?
Questo è il tasto più dolente, perché tutto il resto non dipende da noi mentre questo sarebbe il nostro lavoro principale. Qui però siamo totalmente allo sbando. Stiamo ancora tentando con grande fatica di elaborare la sconfitta e di capirne le ragioni, figuriamoci se siamo in grado di analizzare lucidamente il presente e di organizzarci per il futuro. Quando un pugile prende un cazzotto ben assestato e cade sulle ginocchia, ce ne vuole prima che riesca a rialzarsi e a ritrovare l’equilibrio. Inutile farsi illusioni. Ragionando ovviamente in un’ottica di lotta di classe, per una lunghissima fase – una fase che sebbene sia iniziata 40 anni fa è purtroppo ancora all’inizio – saremo su posizioni di ritirata e di resistenza, tanto che già riuscire a fare una ritirata ordinata che tenga assieme un nucleo significativo di truppe sarebbe tanto. Avendo misurato per esperienza generazionale le differenze tra ieri e oggi, ci attende un secolo nelle catacombe, come minimo. Mancano le condizioni strutturali per qualunque presa di consapevolezza e per qualunque reazione. I processi di ristrutturazione capitalistica hanno distrutto la classe lavoratrice come classe per sé, come classe dotata di consapevolezza di sé e di identità, e per ricostituirla ci vorrà una fatica immane che non è ancora nemmeno cominciata.
È chiaro: di fronte a un capitale che ha saputo globalizzarsi – per quanto in maniera contraddittoria –, il movimento dei lavoratori è lacerato, anzi non esiste più come movimento internazionale e anche nelle singole nazioni è ridotto a una metafora. Ma questa lacerazione non è casuale, perché è l’esito di un lavoro di frantumazione che è iniziato con la ristrutturazione del ciclo produttivo ed è proseguita con le esternalizzazioni, le privatizzazioni, la manipolazione della legislazione del lavoro, la trasformazione molecolare delle forme di coscienza. Per rimediare a questo disastro sarà necessario un lavoro di ricucitura che impiegherà molti decenni e che dovrà essere capace di ripetere, nelle condizioni nuove, ciò che è avvenuto con la rivoluzione industriale, quando milioni di diseredati passati dalle campagne alle periferie delle metropoli hanno appreso a riconoscersi vicendevolmente e a fare dei propri bisogni dei bisogni e delle battaglie comuni. Un lavoro che riguarderà, per quello che posso capire, soprattutto le prossime generazioni di studiosi e di militanti. Verso i quali la mia generazione – tenendo conto dei danni che ha fatto e dunque della sua comprovata incompetenza – ha soprattutto un compito culturale di natura monastica: il compito cioè di trasmettere un patrimonio culturale; di ricucire la frattura che impedisce al momento il passaggio del testimone da una generazione all’altra, dal momento che la nostra tradizione si è interrotta.
Invece che alla lotta di classe, la sinistra globale sembra accarezzare sempre più spesso l’idea che il multipolarismo sia la soluzione. La guerra in Ucraina, però, sembra aver mostrato come l’era del multipolarismo possa essere ben diversa rispetto al pacifico processo di rinegoziazione del potere globale che ci si immagina sarà – potrebbe rivelarsi niente più che un’era di competizione inter-imperialista come quella pre-1914. È inevitabile dunque non pensare alla lezione di Lenin sull’imperialismo come fase suprema del capitalismo. Come dovrebbe porsi la sinistra di fronte a questa questione?
Condivido questa cautela, a differenza di altri che sono invece fin troppo certi a proposito degli scenari di domani. Non è possibile prevedere quale sarà l’esito di questo processo, che sarà comunque molto lungo e che dovrà fare i conti con il persistente primato degli Stati Uniti e la loro indisponibilità a cedere il potere senza provarle prima tutte, compresa una guerra planetaria. In ogni caso, l’eterogenesi dei fini non vale soltanto per l’Occidente e non vale soltanto per il capitalismo ma anche per i Brics e per un eventuale orizzonte post-capitalistico. Chi immagina la presenza già in atto o comunque imminente di un campo compatto con una strategia comune, proietta per il momento i propri desideri, o le proprie memorie distorte, sulla realtà. Mi piacerebbe, ma non mi spingo a tanto. Anche perché l’esperienza del cosiddetto “campo socialista” – che non era affatto un campo o era semmai esso stesso un campo di battaglia – insegna. Anche in un assetto socialista la questione nazionale non si estingue, come dovrebbe sapere chi si ricorda di Budapest e Praga (e di quanto quelle vicende abbiano contribuito al crollo del socialismo in Europa); ed è paradossale che il venir meno delle contraddizioni tra le nazioni venga profetizzato, nel caso dei Brics, proprio da coloro che pretendono di aver riscoperto la questione nazionale da sinistra. Si tratterà, affinché quel fronte possa effettivamente costituirsi, di gestire le inevitabili contraddizioni nazionali in maniera che rimangano sempre secondarie rispetto alla contraddizione principale e cioè al conflitto tra il mondo e l’imperialismo statunitense. In questo senso io vedo però un’analogia più stringente – e me la auguro – con la Seconda guerra mondiale; e non, come sostiene Canfora e come viene detto nella vostra domanda, con la prima. Nella Seconda guerra mondiale era in gioco il tentativo nazifascista, fortunatamente fallito, di stroncare la rivoluzione coloniale sul nascere; oggi c’è il tentativo statunitense-occidentale di riportarla indietro.
A quest’altezza, comunque, io vedo un ulteriore elemento dirimente, che ci riconduce alla questione precedente e cioè alle prospettive del movimento dei lavoratori. Tra le tante difficoltà del compito di ricostruzione di cui parlavo, una spicca in particolare. Decisivo sarà capire e far capire come la lotta di classe nella metropoli capitalistica passi nuovamente, oggi, per il riconoscimento della rivoluzione coloniale e per l’alleanza con il Mondo Nuovo che avanza, così che quando sarà il momento i lavoratori d’Occidente sappiano capire da quale parte stare, dove sta il loro interesse. È tutt’altro che semplice. Già negli anni Venti del Novecento, opponendosi al movimento operaio e alle sue posizioni internazionalistiche, un autore reazionario come Spengler faceva notare come persino tra l’ultimo operaio d’Europa e gli indigeni delle colonie ci fosse un dislivello nel tenore di vita spropositatamente favorevole al primo. Era un argomento capzioso, ovviamente, e parlare di «salari di lusso» dell’operaio bianco era una provocazione. E tuttavia Spengler toccava un nervo scoperto, perché non ci sono dubbi che il compromesso capitale-lavoro che ha consentito il boom economico è più facile se il capitale può redistribuire parzialmente alla forza lavoro una quota, per quanto minima, dei dividendi coloniali, così che anche la forza lavoro – divenendo aristocrazia operaia rispetto alla classe operaia di altri popoli – è compartecipe del meccanismo di sfruttamento inscritto nella divisione internazionale del lavoro e del commercio. Oggi che questa compartecipazione ha margini molto minori, è assai facile convincere le classi subalterne che il loro impoverimento è colpa dei migranti che penetrano la fortezza Occidente e del mondo ex coloniale che assedia il nostro giardino ordinato. Assai più difficile sarà convincerli che gli interessi del proletariato bianco e della «rivoluzione dei popoli di colore», sempre per usare il linguaggio degli Spengler, sia l’unica strada per costruire un modo di produzione più razionale e più umano.