L’amministrazione Trump ha inaugurato di recente in Florida un centro di detenzione per migranti su un isola in mezzo a paludi infestate dagli alligatori, che per la sua posizione è stato soprannominato “Alligator Alcatraz” e paragonato dai media a un campo di concentramento. Davide Piacenza – giornalista e scrittore – ci si è avvicinato con un gruppo di turisti.
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Dalla downtown di Miami, per arrivare al centro visitatori della Shark Valley – così chiamata nonostante sia infestata da pressoché tutto tranne squali – ci vuole circa un’ora: si procede lungo la Dolphin East-West Expressway che taglia in due la città e poi si imbocca la US Route 41 in direzione ovest, dove i palazzoni e le bodega lasciano spazio a un territorio sempre più solitario e acquitrinoso. Sono le Everglades, il “mare d’erba” d’America, già rifugio dei nativi della tribù dei Miccosukee durante il colonialismo britannico e poi statunitense, e un posto che somiglia molto poco al resto del paese.
Le Everglades sono un luogo al tempo stesso semplicissimo e complicato da descrivere: da una parte l’idea iperuranica di “pianura”, una distesa di paludi, mangrovie e punteggiature di tree islands a perdita d’occhio, che si estende senza variazioni per 20mila chilometri quadrati; dall’altra una sensazione di frontiera, di territorio estremo e inospitale, rimasto ancorato a uno stato di natura ostile. Non sorprende, insomma, che la destra americana abbia scelto proprio questa regione per mettere in piedi la propria parata trionfale di propaganda anti-immigrazione, rimodernando l’area di un vecchio campo d’aviazione nell’area di Big Cypress, a venti minuti da Shark Valley, e costruendoci il suo “Alligator Alcatraz”.
Come accade spesso con ciò di cui Donald Trump si erge a primo sostenitore, molti dei particolari che lo riguardano risultano opachi: si tratta di un centro detentivo per migranti irregolari, ma mentre scriviamo la sua capienza è oggetto di dibattito, né si sa ancora precisamente quali detenuti ci finiscano. Quel che è certo è che è stato costruito in fretta e furia – appena otto giorni alla fine di giugno, secondo quanto riportato al pubblico – su mandato del governatore della Florida Ron DeSantis, passato da essere un feroce sfidante di Trump alle primarie repubblicane ad un suo fedele falco. Altri dettagli noti sono che è costato più di 400 milioni di dollari e che impiegherà 400 persone tra personale penitenziario e addetti alla sicurezza.
Si chiama “Alligator” perché il simbolo imperituro delle Everglades, nonché ciò che più rimane negli occhi e nella mente dei visitatori, è proprio l’alligatore americano (nome scientifico Alligator mississippiensis): un animale meraviglioso, di cui ho visto spuntare il profilo da superpredatore per la prima volta in uno dei canali che corrono lungo l’infinita strada senza curve che porta a Shark Valley, forse esprimendomi in uno di quegli “ohhh” meravigliati da turista babbeo. Un alligatore del Mississippi – o gator, come viene detto da queste parti – è un rettile che può arrivare a pesare 500 chili e a misurare fino a quattro metri e mezzo, quindi vederne uno che riposa al sole, immobile, a pochi passi di distanza, di solito non è una situazione che mette a proprio agio – tanto che due turisti del Maryland del mio tour organizzato decidono di declinare cordialmente la proposta di una foto “with the gator”, mentre un instancabile canadese si avvicina così tanto che temo a più riprese la tragedia. In realtà, tuttavia, come tanti altri animali l’alligatore americano sconta una reputazione almeno in parte immeritata: certo, è perfettamente in grado di uccidere un essere umano, ma le cronache della Florida registrano attacchi statisticamente più improbabili delle morti dei malcapitati che sono stati colpiti da un fulmine; l’alligatore di giorno riposa immobile al sole, e se qualcuno si avvicina troppo lui si ritrae in acqua, in cerca di un luogo più appartato (diversamente dal coccodrillo, anch’esso presente nell’area, che invece consigliano caldamente di non fermarsi a fotografare). La nostra guida locale dice, non si sa quanto scherzando, che i maggiori rischi alla nostra incolumità vengono dai ciclisti che sfrecciano a tutta velocità sui vialetti delle Everglades. I Miccosukee invece insegnano da secoli ai loro bambini a fare la lotta con gli alligatori, esseri viventi con cui, dice la tradizione, hanno imparato a parlare.
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Tra le tante cose che non conosciamo di questi animali grandiosi e dell’aspetto preistorico, c’è il loro orientamento politico: nessun biologo ha mai provato che gli alligatori siano o non siano razzisti, per esempio. Il loro silenzio sul tema, però, ha dato ai repubblicani un’opportunità da sfruttare: il procuratore generale della Florida James Uthmeier ha coniato il termine “Alligator Alcatraz” per rilanciare la propaganda xenofoba e securitaria di Trump, sottintendendo che la trentina di denti di cui sono muniti gli alligatori che si aggirano attorno a Big Cypress terranno a bada tutti quei migranti indisciplinati. E da allora il nomignolo ha avuto una tale fortuna da finire su magliette, tazze e merchandise vario in vendita su Amazon ed Etsy a qualche decina di dollari, e da portare qualche fan trumpiano a venire in pellegrinaggio per farsi una foto sotto il nuovo cartello stradale che reca il delicatissimo nome della prigione.
Le Everglades, mi trovo a pensare in quelle otto ore per cui ci cammino, sono in effetti un territorio che deve ricordare parecchio la prigionia: comodamente separate dalle luci scintillanti di Downtown Miami e dai locali hip di Wynwood, il loro pantano che riempie l’orizzonte ricorda un supplizio universale ben più che un ecosistema fragile e costantemente in bilico. Kayla, la guida turistica a capo del mio gruppo di visitatori – ci sono anche due giovani coppie che scoprono, all’area di sosta Mikkosukee, di venire dalla stessa cittadina del Regno Unito vicina a Oxford, Witney – quando parla della Florida si stringe nelle spalle e si limita a dirci che “è una terra tutta uguale”. Come a sottintendere: che noia. Il nemico numero uno del luogo, almeno prima che i repubblicani additassero i migranti, è il pitone birmano, un animale che invece per fortuna nella mia escursione non vedrò, dato che è una specie di serpente-mostro marino che arriva a più di cinque metri di lunghezza. Il pitone non è una specie nativa della zona, come suggerisce il suo nome: è arrivato nel profondo Sud americano nel 2000, e da allora ha colonizzato le Everglades predando pressoché ogni specie autoctona – compresi esemplari anziani di alligatori. Kayla ci spiega che qualcuno pensa che la miccia sia stata accesa da uno dei tipici e temuti uragani della zona, che qualche decennio fa avrebbe distrutto le teche di un rettilario dell’area, liberando i primi pitoni nelle paludi.
Quello degli alligatori “razzisti”, invece, non è un tropo del tutto nuovo: già negli anni delle leggi di Jim Crow, quelle della segregazione razziale in atto fino alla metà del secolo scorso negli Stati del Sud, i casi di utilizzo di bambini e neonati afroamericani come esche per alligatori (“alligator bait”) erano abbastanza diffusi da apparire nei minstrel show e nelle pubblicità di epoca schiavista. Oggi, a quasi un secolo di distanza, il Dipartimento per la Sicurezza nazionale statunitense twitta immagini generate con l’intelligenza artificiale di alligatori con il cappellino dell’ICE, la United States Immigration and Customs Enforcement, ovvero l’agenzia che mette in atto i raid trumpiani in cui i migranti vengono prelevati con la forza, spesso dalle loro case private, e deportati.
Trump stesso ha già avanzato l’idea di riaprire Alcatraz, quello vero, sull’isolotto nella baia di San Francisco, dimostrando di essere pronto a tutto nella sua caccia alle streghe che prende di mira gli irregolar aliens i quali, oltre a vivere negli Stati Uniti spesso da decenni, sostengono l’economia americana – salvo poi pentirsene, quando si accorge che il razzismo istituzionale talvolta non paga. Come sempre, la destra tira il sasso e nasconde la mano: il Department of Homeland Security, dopo aver twittato l’immagine degli alligatori anti-migranti, ha già precisato che “la Florida sta costruendo e gestendo la struttura utilizzando fondi statali su terreni statali sotto l’autorità di emergenza statale”, come per negare ogni coinvolgimento del governo federale. Eppure, pochi giorni prima, era stata la stessa segretaria del dipartimento Kristi Noem a dichiarare di aver personalmente avallato il piano.
Le attività detentive di “Alligator Alcatraz” sono cominciate poche settimane fa, con l’arrivo dei primi detenuti inviati dall’ICE. Le stime diffuse sostengono che la struttura può ospitare fino a 5000 ospiti. Carlos, la guida che ci ha portato col caratteristico e rumorosissimo idroscivolante in una delle oasi naturalistiche ospitate dalle isole di alberi che galleggiano nel mare d’erba delle Everglades, come tante persone di origine cubana in Florida non ha voglia di sentire parlare del suo paese d’origine: a un gruppo di vecchine australiane che il giorno dopo ripartiranno alla volta dell’Avana sibila con una nota di sdegno “vedrete una carce”, un carcere. Se si fossero fermate un altro po’, però, ne avrebbero potuto vedere uno anche lì: ogni tanto le parole tornano indietro come boomerang.
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