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Il progetto della Commissione europea ReArm Europe è da settimane al centro di un dibattito politico che racconta il continente come militarmente debole e vittima del tradimento americano. La situazione, in realtà, è ben più complessa e affonda le proprie radici nelle forme del capitalismo contemporaneo. Ne abbiamo parlato con Claude Serfati, economista francese esperto di industria bellica e autore del saggio Un monde en guerres (Editions Textuels, 2024).

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L’UE tende a descriversi come un’alleanza economico-politica e si è spesso rimproverato all’organizzazione l’assenza di una politica estera e militare comune. Se ne parla come di un blocco pacifico, eppure le spese militari dei singoli paesi sono mediamente aumentate del 32% già tra 2014 e 2022 – quindi già prima dell’invasione dell’Ucraina e del recente appello comunitario al riarmo collettivo. Come si spiega questa contraddizione?

Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto capire cosa sia uno Stato e comprendere che l’Unione Europea è, dal punto di vista della logica statale, un’organizzazione ibrida, dal momento che in essa sono combinati i rapporti inter-governativi tra grandi potenze capitaliste più o meno militarizzate con delle forme istituzionali che possiamo definire para-statali – come la Commissione, la Banca Centrale Europea, la Corte di Giustizia. È un’osservazione banale e chiara a chiunque, ma è comunque necessario ribadire l’esistenza di queste due dimensioni e la loro continua evoluzione. Tale peculiare combinazione non è fissa e ci sono tre forze motrici che ne determinano il rapporto.

La prima è la dinamica economica – o meglio del capitale – che si è avviata a partire dagli anni Sessanta e Settanta, quando le grandi imprese finanziarie e i gruppi industriali europei si sono sentiti abbastanza forti da tentare di emanciparsi dall’influenza degli Stati Uniti dovendo quindi cercare dei punti d’intesa reciproca, ad esempio per tutelarsi in un mercato ben più vasto di quello in cui operavano precedentemente – è esemplare in questo senso il caso del gruppo Airbus, fondato dalla fusione di industrie francesi, tedesche e spagnole. A questa necessità si aggiunse, a partire dagli anni Novanta, il bisogno di proteggersi dalle aggressioni finanziarie americane, e per questo venne intrapreso il cammino per l’introduzione della moneta unica. Per quanto centrali, però, le dinamiche economiche non agiscono da sole, e infatti occorre fare riferimento all’influenza degli Stati stessi nello spingere verso questa forma d’organizzazione ibrida che è l’UE. Nel farlo rispondevano a ragioni politiche, diplomatiche e culturali che potevano essere di interesse generale (ad esempio, evitare il ritorno della guerra nel continente) o particolare: nel caso della Francia, ridefinire il proprio orizzonte d’azione all’indomani della perdita dell’impero coloniale e poter così riconvertire la propria economia, che ancora oggi si basa al 60% sugli scambi con il resto dell’Europa.

Infine, è stato decisivo il ruolo esercitato dalla Commissione Europea stessa, la cui crescita in termini di potere è iniziata con il finanziamento di programmi tecnologici comuni al fine di sopperire alla limitatezza dei singoli Stati, e ha accelerato con la regolamentazione dei mercati in nome della libertà economica e della concorrenza. Solo a questo punto la Commissione è potuta entrare nell’ambito della difesa – un fatto molto significativo se si considera che l’articolo 296 del Trattato di Roma definisce la materia come competenza esclusiva degli Stati – rapportandosi in particolare all’industria bellica. 

Non credo a chi sostiene che l’UE sia in qualche modo “vassalla” dell’economia americana. Questa è senza dubbio dominante, ma esistono comunque rivalità inter-capitaliste molto forti che oggi vediamo esplodere, accelerando la transizione dell’Europa alla forma di potenza autonoma per la quale è inevitabile porsi la questione militare. Nel mondo attuale le possibilità di un paese di far valere i propri diritti e di essere una grande potenza dipende dalle sue performance economiche (ciò che gli economisti chiamano competitività internazionale) e dalle sue capacità militari. Insomma, l’Europa è sempre stata una potenza militare grazie ai suoi componenti nazionali, ora stanno solo cambiando i rapporti di forza all’interno di questo quadro.

 

La ridefinizione strategica statunitense, disinteressata se non ostile all’Europa, è stata largamente usata come argomento per giustificare la necessità del riarmo del continente. Ma in cosa consistono effettivamente i progetti esposti dalla commissione e come si immagina la postura dell’UE nelle gravissime tensioni internazionali di questi anni, ad esempio rispetto al ruolo della NATO? 

Il piano ReArm Europe è effettivamente molto significativo, per quanto “solo” 150 miliardi di euro sugli 800 previsti saranno poi avanzati direttamente dalla Commissione – il resto sarà costituito da una serie di facilitazioni concesse agli Stati membri per permettere loro di reggere la spesa. Si tratta di un processo in pieno svolgimento quindi non si possono dare risposte definitive, ma possiamo guardare a quanto è accaduto fino ad adesso. In primo luogo, si tratta di un’accelerazione di tendenze già in atto e non di una scelta di rottura: come si è già detto, la militarizzazione dell’UE o quantomeno quella dei suoi Stati membri, prosegue almeno dal 2014. Oltretutto, bisogna ricordare gli otto miliardi investiti ancora nel 2020 per il programma di ricerca e sviluppo militare noto come Fondo Europeo per la Difesa – una cifra senz’altro ridotta ma tutt’altro che trascurabile dal momento che corrisponde a poco meno del 10% del principale programma tecnologico comunitario della Commissione, Horizon Europe.

C’è stato, piuttosto, un cambio di scala nella militarizzazione dell’UE che però non ne rappresenta una razionalizzazione. Al contrario, sembra che il pretesto dell’“imperialismo russo” serva a giustificare un piano che, di fatto, mira soltanto a espandere su scala più ampia i complessi militari-industriali nazionali. Non è stata lanciata nessuna campagna volta a fondere gli interessi industriali e operativi a livello europeo – impensabile, poiché implicherebbe che la francese Thalès rinunci a mercati a favore dell’italiana Leonardo – ma non sono nemmeno previsti interventi finalizzati a regolare il mercato europeo della difesa, in cui al momento vengono prodotti 14 tipi di carri armati. Lo stesso Libro Bianco su ReArm Europe si premura di sottolineare che tutto resta di competenza degli Stati membri. Siamo di fronte a una riproposizione su scala più ampia di quanto esiste da decenni per soddisfare gli stati maggiori militari e i gruppi industriali. Non c’è nessuna vera svolta qualitativa.

Non credo proprio che nella difesa possa verificarsi ciò che è accaduto con la moneta unica. L’euro rispondeva a interessi economici specifici, facilitava l’integrazione dei grandi gruppi industriali e finanziari, e ha permesso l’imposizione delle politiche di austerità. Ma la difesa è tutta un’altra cosa, si tratta del fondamento stesso dello Stato-nazione. È impensabile una difesa comune e nessun piano che non intacchi la sovranità nazionale potrà arrivare lontano. Oltre alla resistenza degli Stati bisogna considerare la presenza della NATO, che, di fatto, è stata per 70 anni la difesa comune dell’UE e continuerà a esserlo – sia il Segretario della difesa Pete Hegseth che il Segretario di Stato Marco Rubio hanno chiarito che gli Stati Uniti non intendono lasciare l’alleanza. L’intenzione di Trump è infatti la conduzione di una guerra economica anche contro l’Europa ma, nello smantellamento del vecchio ordine liberale globale, il solo vero obiettivo strategico-militare resta la Cina. Ci raccontiamo che la militarizzazione europea serve ad ovviare all’abbandono americano ma non è così: l’aumento della spesa militare europea e il rafforzamento di questa componente della NATO è quello che Trump chiedeva e ha di fatto ottenuto.

Nel suo libro ha indicato una sorta di continuità tra il riarmo europeo e le politiche securitarie e di contrasto violento all’immigrazione portate avanti da anni dall’UE e dopotutto è evidente fin dal 2008 come l’Europa sfrutti i momenti di crisi per ridefinirsi – è successo con la crisi finanziaria, con la pandemia di COVID e adesso con la guerra. Possiamo parlare dell’unione come di un sistema emergenziale permanente?

Nel mio libro La mondialisation armée, pubblicato nel 2001, pochi mesi prima degli attentati alle Torri gemelle, dedicavo un intero capitolo al concetto all’epoca nuovo di “sicurezza nazionale”: una trasformazione nelle agende di difesa americane e europee la cui comparsa era riconducibile allo scenario internazionale emerso dalla caduta del Muro di Berlino e dalla scomparsa dell’URSS. Eppure questo concetto non ha un vero significato: è una formula vaga e non si sa bene cosa includa, tanto che tra gli anni Novanta e Duemila si è sviluppata una vasta letteratura sul tema. A mio avviso si trattava della fine della distinzione tra nemici interni ed esterni, così come stava scomparendo quella tra strumenti economici di guerra e strumenti militari – non si parlava ancora molto di guerra cibernetica o ibrida, ma era chiaro che ci stavamo avvicinando a quel modello. L’unica certezza era che l’espressione rispondesse comunque a delle esigenze concrete – è un po’ come ha detto Enzo Traverso a proposito del concetto di totalitarismo: non funziona sul piano teorico, ma è utile per discutere e comprendere ciò che ci sta dietro. 

Le politiche securitarie e di contrasto all’immigrazione rispondono a queste istanze e in questa tendenza l’Europa partecipa con un ruolo di primo piano. L’UE si è effettivamente militarizzata, ma lo ha fatto attraverso il canale della “sicurezza” e in particolare contro i migranti. Così facendo si è rivelato come si esprimano le ambizioni dominatrici europee: non si tratta di conquistare militarmente dei territori come fa oggi Putin o come Trump minaccia di fare in Groenlandia o a Panama, ma di occuparli pacificamente attraverso relazioni neocoloniali, basate da un lato sulle vecchie relazioni coloniali e dall’altro sulla potenza economica della Germania. Tutto questo era chiaro già nel 2003, quando l’Unione Europea adottò per la prima volta una sua dottrina di sicurezza sotto la guida di Javier Solana – all’epoca l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e subito dopo divenne segretario generale della NATO – che trattava sia la risposta a minacce militari sia quella a minacce economiche e civili. Ho avuto modo di notare come nei documenti di sicurezza europei i concetti di “terrorismo” e “immigrazione illegale” siano spesso associati e separati soltanto da una virgola, rendendo evidente come l’obiettivo securitario primario dell’UE sia la “terrorizzazione” delle popolazioni, in particolare di quelle immigrate.

 

Nel suo libro è proposta una stretta connessione tra guerra tra nazioni e guerra alla natura – una tesi che sembra confermata, ad esempio dalle crescenti tensioni nell’Artico o dalla proposta di Draghi di riaprire le centrali a carbone italiane per sopperire all’assenza del gas russo. Come spiega il legame tra queste due dinamiche e ritiene possa mutare significativamente con ReArmEU?

Sono due dinamiche strettamente connesse. Come ha detto Marx – spesso accusato di aver sottovalutato la questione ambientale, malgrado si siano scoperte ben 6000 pagine manoscritte sul tema – il capitale non può continuare a svilupparsi se non distruggendo le uniche due fonti della ricchezza, cioè il lavoratore e la terra. Il capitale, infatti, è un rapporto sociale orientato costantemente verso l’espansione illimitata e perciò deve appropriarsi in modo frenetico delle risorse utili ad accumulare profitto. Fin dalla notte tempi le società umane si sono consapevolmente costruite nella ricerca di un equilibrio tra uomo (il soggetto del lavoro) e natura (il suo oggetto) e per quanto questo rapporto potesse anche assumere carattere predatorio restava comunque in piedi un qualche metabolismo tra le due dimensioni. Ed è proprio questo metabolismo che il capitale distrugge, perché la sua logica non è quella della conservazione e della riproduzione – né delle specie vegetali né di quelle umane – ma il solo conseguimento di un profitto. Credo che uno dei meriti di Trump sia proprio quello di mostrare quanto il capitalismo sia riducibile alla pura dimensione predatoria: predazione delle ricchezze naturali ma anche degli esseri umani che a loro volta sono parte della natura. E proprio per questo il livello sempre più irreversibile di distruzione dello spazio naturale oggi raggiunto si configura anche come autodistruzione dell’umanità.

Oltre a questo occorre considerare che, a partire da quello che ho chiamato “il momento 2008”, la crisi ambientale ha operato in concomitanza con quella economico-finanziaria e con quella geopolitica, dando inizio ad un ciclo in cui la specie umana piuttosto che continuare ad evolversi è entrata in quello che potremmo considerare un processo di involuzione dovuto ad una sorta di ripiegamento su sé stesso del capitale. Nonostante quello che hanno sostenuto molti teorici postmoderni prendendo alla lettera la retorica liberale sulla globalizzazione, la conquista territoriale è ancora cruciale per il capitalismo imperialista. A questa, però, se ne affianca oggi una nuova: la conquista della riproduzione della vita stessa, iniziata negli anni Novanta con il sequenziamento genetico e espressa oggi nella privatizzazione dei dati da parte di Big Tech. Se quindi prima il capitale tendeva ad espandersi oggi si rivolge contro i singoli individui in quanto tali, portando a pieno compimento la teoria di Marx che citavo poco fa. 

In questa marcia verso la barbarie il Green New Deal appare come un incidente di percorso, un’illusione in assoluta contraddizione con i bisogni del capitale. C’è quanto mai bisogno di alleanze rosso-verdi serie che contrastino questo sistema. Vi faccio un esempio semplice: le banche dati dell’intelligenza artificiale consumavano nel 2024 il 4% dell’energia totale negli Stati Uniti ma si stima che già entro il 2030 tale cifra arrivi tra l’8% e il 12%. Come si può conciliare la cosiddetta quarta rivoluzione industriale fondata sull’IA con l’aumento del consumo energetico? Da un lato, eliminando i consumatori “inutili” – cioè decine o centinaia di milioni di esseri umani – e dall’altro con la conquista di risorse minerarie essenziali, le terre rare, di cui sono molto ricche Groenlandia, Canada e Ucraina. La contraddizione tra la preservazione ambientale e il modello economico esistente è immediata, lo ha provato Trump facendo entrare Big Tech nella propria amministrazione. Insomma, non c’è dubbio: il Green New Deal e tutte le politiche affini appartengono al passato.

 

In questo dibattito la sinistra non sembra capace di proporre un punto di vista forte e indipendente: in Francia il Front Populaire ha ceduto al ricatto delle sue componenti centriste sull’invio di armi all’Ucraina e in Germania la Linke ha di recente annunciato di appoggiare l’aumento delle spese militari. In Italia, dove pure il Movimento 5 Stelle è riuscito ad organizzare una vasta opposizione di piazza, non c’è nessuna linea politica coerente sul tema. Perché accade e quale ritiene possa essere una vera alternativa rivoluzionaria?

È una questione molto ampia. Penso che la sinistra stia pagando il fatto di non aver capito che il capitalismo non è semplicemente un regime di dominazione economica, ma una forma di dominazione e repressione sociale. Fino al 2010 la quasi totalità della letteratura politica continuava a concentrarsi sul neoliberismo definendolo una vittoria del mercato, ma già alla fine degli anni Novanta era evidente che le varie guerre civili scoppiate all’epoca nel Terzo Mondo fossero conflitti per l’accaparramento di risorse pienamente integrati nella globalizzazione, attraverso vari canali finanziari, economici e militari. D’altro canto in molti paesi esistono forti tradizioni pacifiste – l’abbiamo visto in Germania, in Italia, in Inghilterra – che in altri contesti sono ben più deboli. In Francia, per esempio, questa tradizione è stata abbandonata già con la presidenza del socialista François Mitterrand nel 1981, eletto con un programma antimilitarista che pure non venne assolutamente rispettato, e ancora sotto Hollande che nel 2013 avviò la guerra in Mali.

Oltre a questo non solo a sinistra non si discute veramente di cosa sia il militarismo ma esistono anche delle correnti che lo difendono apertamente. Lo dimostrano alcune delle posizioni assunte sull’invasione dell’Ucraina. Certo, il conflitto rientra in un contesto di rivalità inter-imperialiste – come del resto tutte le guerre – ma mi sembra comunque sbagliato assolvere Putin dalle proprie responsabilità dirette sulla base delle minacce che avrebbe ricevuto dagli Stati Uniti. Così non si fa che contribuire alla confusione e per questo ho sempre rifiutato la visione “campista”. Anche ai tempi dell’Unione Sovietica, ero consapevole dei diritti sociali garantiti alla popolazione ma non per questo sostenni l’invasione dell’Ungheria o quella della Cecoslovacchia. Una politica di sinistra deve basarsi sui diritti dei popoli alla propria autodeterminazione. Per questo è del tutto legittimo criticare il doppio standard dell’Unione Europea che condanna la Russia ma sostiene Israele, ma bisogna purtroppo anche rigirare l’argomento contro chi si oppone al genocidio a Gaza ma rifiuta di condannare chiaramente l’imperialismo di Putin.


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