Sappiamo benissimo come il ritorno di Trump alla presidenza ha influenzato l’ideologia dell’estrema destra europea – la sola a cui di solito prestiamo attenzione. Si parla molto meno però dell’impatto avuto sull’Asia: in Corea del Sud, in particolare, si sta affermando un movimento ultranazionalista legatissimo al partito repubblicano statunitense, al punto da adottarne slogan e idoli. Eleonora Zocca – giornalista esperta di Asia orientale – è stata a Seoul e racconta in questo reportage come il MAGA coreano sta prendendo il controllo delle strade della capitale.
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Quando è arrivata la notizia dell’uccisione di Charlie Kirk nel campus della Utah Valley University, ero in volo verso Seoul, in Corea del Sud. Mi attendeva uno scalo di diverse ore a Pechino ma, non essendomi attrezzata né con una VPN né con le app funzionanti in Cina, sono rimasta per quasi venti ore senza connessione internet e ho appreso della morte del fondatore di Turning Point USA quando era ormai trascorso un giorno intero dall’attentato. Mi ero interessata alla sua figura appena una settimana prima, quando avevo seguito online il tour di conferenze che Kirk aveva tenuto proprio tra la Corea del Sud e il Giappone. La prima, dal titolo “Build up Korea 2025”, era stata organizzata su invito delle comunità evangeliche e cristiane della penisola, mentre la seconda invece si era tenuta a Tokyo ed era rivolta alla platea di elettori del partito xenofobo e di estrema destra Sanseitō, che alle ultime elezioni ha ottenuto quasi dieci milioni di voti in netta ascesa rispetto alla precedente tornata elettorale.
Lì per lì mi ero detta che si trattasse solo di una curiosa coincidenza, dato che fino a quel momento non avevo mai sentito parlare dell’attivista americano. Sicuramente, mai avrei immaginato che di lì a poco avrei trascorso più giorni insieme a dei giovani sudcoreani che ne avrebbero compianto la scomparsa con memoriali e lunghi cortei al grido: “We are Charlie Kirk”. Cosa lega esattamente un trentunenne americano, trumpiano e con un’agenda nazionalista a dei giovani militanti coreani che, seppur appartenenti alla stessa fazione politica, sono immersi in un contesto sociale estremamente diverso e oltretutto a migliaia di chilometri di distanza? Perché immedesimarsi in Kirk al punto tale da piangerne la scomparsa come fosse quella di un fratello?
Il memoriale per Charlie Kirk viene organizzato lunedì 15 settembre dalla Free University, un gruppo di giovani militanti di estrema destra nato a gennaio in supporto all’ex presidente Yoon Suk-yeol che, nel dicembre 2024, aveva tentato il colpo di stato proclamando la legge marziale – un tentativo autoritario prontamente bloccato dal parlamento che ha poi votato per l’impeachment di Yoon, attualmente sotto processo. Il punto di incontro è su un ampio piazzale a Namdaemun, a ridosso dell’ingresso principale a sud della città vecchia. Trovo le coordinate su Naver (una piattaforma online coreana che sostituisce le funzioni di Google Maps, non funzionante in Corea del Sud per una questione di sicurezza interna) così come sono state fornite sul loro profilo Instagram, e a metà mattinata circa inizio a dirigermi verso il centro di Seoul.
Nonostante il piazzale sia immenso e con una grande rotatoria nel mezzo, è impossibile non notare la grande foto di Charlie Kirk, che campeggia in un angolo, accerchiata da corone di fiori funebri e pannelli su cui attaccare dei post-it. Molti passanti si fermano, qualche curioso chiede di che cosa si tratti e poi c’è chi è già munito di fiori e va a porgere l’ultimo saluto al “martire della libertà” e gli dedica un minuto di silenzio. Anche i turisti non rimangono indifferenti: una coppia di occidentali si avvicina al memoriale, l’uomo va spedito verso la foto e fa cenno di una carezza sul volto di Kirk. Mi dicono di venire dalla Francia, probabilmente – penso io – sono elettori del Rassemblement National. Inizio a scattare qualche foto e a parlare con due membri della Free University che sono lì di presidio: “Charlie Kirk è diventato una figura molto nota dopo la sua visita qui in Corea del Sud” mi spiega uno dei due militanti, Kim Young-hyun, “Kirk si batteva per la libertà e ci ha lasciato dicendo di lottare per essa. L’alleanza tra Stati Uniti e Corea del Sud è forte e non si spezzerà”.
Sono molto incuriositi dal fatto che una giornalista occidentale sia lì e sia interessata ai motivi che li hanno spinti a organizzare quell’iniziativa. Mi invitano quindi a tornare più tardi, nel pomeriggio, quando si sarebbe tenuto un momento di preghiera collettivo. Proprio in questa occasione, faccio la conoscenza di uno dei portavoce della Free University, Sim Jae-hong. Doppiopetto chiaro, occhiali tondi sul viso, una spilla con la bandiera della Corea del Sud sulla piega della giacca, Sim sembra appena sceso da una macchina del tempo con il fermacravatte e il fazzoletto nel taschino. Parla un inglese fluente dopo anni di studio a Londra, dove – mi racconta a margine del solenne momento di preghiera – ha visto “una società allo sbaraglio piena di immigrati e criminalità”.
Nei circa quindici minuti in cui parliamo ricalca a menadito il discorso fatto da Charlie Kirk, il 5 settembre: la minaccia comunista cinese e nordcoreana, le infondate accuse di una presunta interferenza di Pechino alle elezioni presidenziali di inizio giugno, il pericolo di un’“invasione” di migranti cinesi a seguito della sospensione del visto per i viaggi turistici in vigore dal 29 settembre, il sostegno all’ex presidente Yoon e alla sua decisione di proclamare la legge marziale perché – prosegue Sim – “siamo in una situazione di emergenza”. Verso la fine del discorso arriva all’altro grande cavallo di battaglia del movimento MAGA e dell’estrema destra in generale: la questione demografica e la minaccia femminista. “Il femminismo di fine Ottocento e inizio Novecento in cui si chiedeva il diritto al voto andava bene, poi però sono arrivate la seconda e terza ondata influenzate e contaminate da una visione marxista che ha minato la nostra gioia, le nostre famiglie e l’esistenza stessa della società coreana”.
Come mi spiega Kim Joon-hyo, giornalista della testata socialista Workers’ Solidarity e autore di un lungo articolo sulle sempre più strette connessioni tra i movimenti di estrema destra americani e coreani, “il legame tra Charlie Kirk e l’estrema destra coreana è diventato molto noto dopo la sua morte, ma di recente è stata rivelata un’altra visita che Kirk aveva fatto a dicembre poco prima del tentato colpo di stato di Yoon Suk-yeol”. “Ci sono poi altri due aspetti secondo me rilevanti da sottolineare – prosegue Kim – il primo è il post che Trump pubblica prima di incontrare, a Washington D.C., il presidente Lee Jae-myung (il candidato di centrosinistra eletto a giugno proprio per prendere il posto del destituito Yoon, ndr). Dopo aver scritto in maiuscolo ‘Che cosa sta succedendo in Corea?’, Trump parla di ‘purghe della rivoluzione’ facendo riferimento ai processi giudiziari e agli arresti che la magistratura coreana ha condotto dopo il tentativo di insurrezione di Yoon”.
“In quel momento”, chiarisce Kim, “Trump utilizza l’agenda dell’estrema destra coreana per fare leva sui negoziati per i dazi con il presidente Lee”. “L’altro episodio è il ringraziamento che il presidente degli Stati Uniti porge, in occasione del funerale di Kirk, all’estrema destra coreana proprio quando il Partito del Potere Popolare (PPP) , ora all’opposizione, ha messo il cappello sulle proteste di piazza. C’è da dire che le connessioni nascono già a partire dal 2019, quando Trump aveva avviato la guerra commerciale contro la Cina e fece fallire i colloqui con la Corea del Nord di Kim Jong-un. Prima di essere ucciso, Kirk stava lavorando a un ulteriore rafforzamento dell’asse tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone in chiave anticinese”.
Le posizioni anti-cinesi diventano ancora più evidenti quando, il giorno successivo al memoriale, vado alla manifestazione che la Free University ha indetto a Myeongdong, quartiere della capitale noto soprattutto per lo shopping ma che per i militanti di estrema destra ha un significato completamente diverso, dal momento che proprio qui ha sede l’ambasciata cinese in Corea del Sud. L’appuntamento viene dato davanti al grande edificio delle poste e il mandato è quello di vestirsi di nero per onorare nuovamente la scomparsa di Kirk. Sempre in segno di lutto, il corteo sarà “silenzioso” e quindi senza tamburi a scandire i tempi dei cori.
Alcuni manifestanti appena mi vedono mi vengono incontro per salutarmi. Qualcuno di loro l’ho incontrato la sera prima, altri mi hanno riconosciuto dalle dirette che sono state trasmesse su YouTube o altri social media. In sole due serate sarò finita in decine di live, tra streamer con centinaia di migliaia di iscritti e creator che hanno iniziato da meno tempo. Ci sono persone di tutte le età, sono sia uomini che donne e tutti sono attrezzatissimi: cavalletti, gimbal e ombrelli incorporati per impedire che la pioggia finisca sugli obiettivi. Ora capisco le scene degli streamer nella serie coreana Hellbound. L’estrema destra, dopotutto, può vantare un proprio apparato mediatico alternativo alla stampa mainstream e probabilmente altrettanto pervasivo. Lahee, uno youtuber con 123mila iscritti, mi dice che un suo video in inglese in cui “raccoglie le prove delle interferenze cinesi alle elezioni di giugno” è stato proiettato dai Repubblicani al Congresso americano.
Intanto, in mezzo al raduno di persone sempre più consistente, svetta uno stendardo dell’attuale presidente Lee Jae-myung a testa in giù e una gigantografia di Charlie Kirk. Tra i cartelli tenuti in mano dai manifestanti, oltre a “We are Charlie Kirk” in bianco su sfondo nero, ce n’è anche uno in rosso con su scritto “chiNAZI OUT” oppure “BOYCOTT CHINA”. Di sfondo, sul margine, le stelle gialle tipiche della bandiera cinese. Da alcune settimane, il corteo non riceve più l’autorizzazione necessaria a passare vicino all’ambasciata cinese. A inizio agosto, inoltre, la polizia ha aperto un’indagine nei confronti di un membro della Free University che avrebbe strappato uno striscione raffigurante il volto di Xi Jinping proprio davanti l’edificio. Nei suoi quasi tre anni di mandato, ma soprattutto con il colpo di mano poi fallito, Yoon ha polarizzato inesorabilmente la società coreana.
“Non bisogna pensare che il PPP sia ‘diventato’ di estrema destra – mi spiega ancora Kim Joon-hyo – perché in realtà sta ‘mostrando’ la sua vera natura. Il PPP è l’erede del partito al potere negli anni Settanta durante le dittature filo-americane. Sebbene dopo il 1987, con i movimenti di protesta e l’avanzata della classe democratica borghese, si sia mosso con più cautela, in questo momento di crisi sta tentando di tornare alla ribalta. Per il momento, con l’epurazione delle alte cariche militari e politiche che hanno collaborato al tentato colpo di stato non gli sta andando bene, ma quello che Yoon ha fatto, lo scorso dicembre 2024, è stato dimostrare che l’autoritarismo è un’opzione sul tavolo. Questo è il motivo – chiosa Kim – per cui è rimasto il simbolo e il leader dell’estrema destra in Corea del Sud”.
La società coreana, d’altro canto, non sta reagendo passivamente a questa tendenza reazionaria e, anzi, sono stati messi in moto tutti gli anticorpi sociali necessari per far fronte alla deriva autoritaria. La popolazione – e in particolare le donne tra i venti e i trent’anni – si è largamente mobilitata nel presidio delle piazze così come per reclamare l’impeachment di Yoon. Si può dire che è anche grazie a queste iniziative dal basso se, alla fine, il sistema democratico ha retto. D’altronde, anche durante il mio pur breve soggiorno, io stessa mi sono potuta rendere conto di quanto quella sudcoreana sia una società viva e reattiva. Senza segnalazioni o preavvisi, mi imbatto continuamente in manifestazioni di ogni tipo: proteste in sostegno della Palestina, presidi contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti, e cortei organizzati da vari partiti politici.
Sono ormai gli ultimi giorni prima del mio rientro in Italia. Ricevo un messaggio su Instagram da uno dei membri della Free University, Yu Chan-wook, a cui ho chiesto come mai avessero scelto Jeju come luogo della loro prossima manifestazione. Jeju è l’isola più grande della Corea del Sud e si trova a sud della penisola. “Ogni settimana – mi scrive – cerchiamo di portare la nostra protesta in città diverse del paese, e per sabato 20 settembre abbiamo scelto Jeju perché è stato il primo posto nel paese in cui è decaduto l’obbligo di visto turistico per i cittadini cinesi. Inoltre – leggo ancora nel messaggio – il governo non sta mettendo nessun freno all’acquisto di terreni e immobili sull’isola sempre da parte di acquirenti cinesi. Siamo invasi – sia da dentro che da fuori. E se i media non mostrano la verità, allora saremo noi ad andare dalle persone”.
Sono stata in dubbio fino all’ultimo sull’andare a seguire o meno la manifestazione a Jeju, poi nel fine settimana sono entrate altre interviste e sono rimasta a Seoul. Con me però avevo l’ultimo libro pubblicato in Italia della scrittrice premio Nobel, Han Kang. In Non dico addio, Han Kang racconta del massacro che tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della guerra civile dei primi anni Cinquanta venne compiuto per mano della Gioventù del Nord-Ovest, l’associazione di giovani estremisti di destra formata da transfughi nordcoreani pieni di rancore. Dopo due settimane di addestramento – scrive Han Kang – erano sbarcati sull’isola con indosso un’uniforme dell’esercito o della polizia. L’ordine ricevuto dal governo americano era molto preciso: bisognava fermare l’avanzata del comunismo, anche a costo di uccidere tutti e trecentomila gli abitanti dell’isola. Ne ammazzarono trentamila, di cui millecinquecento bambini sotto i dieci anni di età.