La morte di Papa Francesco, uno dei più influenti leader mondiali e guida spirituale di un miliardo di cattolici, resterà negli annali come uno dei grandi eventi del 2025. Non stupisce, allora, che in questi giorni sia proseguito il dibattito sulla figura del pontefice e sul suo impatto politico e sociale a livello internazionale. I funerali, tenutisi la mattina di sabato 26 aprile in Vaticano, diventano un punto di vista privilegiato per portare avanti questa riflessione. Vi ha preso parte il giornalista Francesco Leone Spallino che li ha raccontati in questo reportage.
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“The Pope is dead! Dead!” grida un uomo con indosso una sciarpa dei Rangers Football Club, una squadra di calcio scozzese nota per le sue inclinazioni protestanti e monarchiche, nonché rivale giurata dei concittadini cattolici del Celtic. Il tasso alcolemico del tizio rende però impossibile capire se dalle sue parole, gridate con toni apocalittici, traspaia effettivamente gioia o una smisurata tristezza. La sua figura viene immediatamente risucchiata nella folla che attraversa le vie adiacenti al Vaticano. Sono solo le 8.30 della giornata delle esequie di Francesco, e già è grande la confusione sotto il cielo di San Pietro.
Del resto, che il suo pontificato abbia fatto parte di una stagione caotica per la Chiesa cattolica, non è un mistero: l’abdicazione di Ratzinger, immediatamente precedente all’elezione di Bergoglio, ne era stato il segnale più potente. È difficile stabilire se le azioni di Benedetto XVI siano state il prodotto di una variabile impazzita, capace di lasciare i porporati di stucco annunciando (in latino, naturalmente) le sue dimissioni, oppure se fossero frutto di una calcolata extrema ratio, imposta dai vertici della Chiesa. Come che sia “non si poteva andare avanti così”: che incidentalmente è la stessa cosa che penso mentre prendo parte ai lunghi controlli al metal detector di una altrettanto lunga fila per entrare a Piazza San Pietro, blindata per difendere i grandi potenti della terra, presenti in massa salvo poche illustri eccezioni, tra cui Putin, Netanyahu e Al Bano. La gestione del mastodontico evento, per quanto lenta e macchinosa, cerca di essere il più ordinata possibile, una sorta di replica di quello che la Chiesa era stata per molto tempo fino a ritrovarsi a sua volta coinvolta nel caos degli ultimi 20 anni.
Tuttavia, il pontificato di Francesco era in qualche modo riuscito a domare questo caos, rendendosi parte integrante di esso. L’aggrapparsi in modo disperato alla dottrina e il trattarla come salvagente nella tempesta non aveva dato grandi risultati, come testimoniato dall’evidente fallimento di Benedetto XVI: il pontificato del rottweiler di Cristo aveva partorito poco più di un bassotto, incapace di porre un freno agli scandali, all’emorragia di fedeli e alla crisi delle vocazioni. Francesco ha invertito la tendenza, immergendosi nella comunicazione liquida del XXI secolo e seguendo la corrente. Ha affrontato direttamente questo caos, utilizzando se stesso e il proprio corpo come strumenti comunicativi: Francesco non l’ha fatto con l’eroismo mistico della sofferenza pubblica di Giovanni Paolo II, né con la rigida e timida compostezza liturgica di Benedetto XVI, bensì con una spontaneità naturale, simpatica, persino ironica; con l’immagine quotidiana e immediata del Papa semplice, umile e terreno. Francesco si è lasciato riprendere mentre inciampa, accarezza o reagisce con spontaneità davanti alle folle, diventando nonno, amico, meme. Se la liturgia ne ha sofferto, messa in crisi dai buffetti del Santo Padre ad una donna che lo strattona in piazza o dal suo sottrarre la mano davanti ai baci dei fedeli, il meme sta benissimo. Francesco ci abitua subito al cambio di paradigma con le sue prime parole, quel genialmente banale “buonasera” scandito dal balcone di San Pietro.
Proprio nella basilica petrina, intanto, iniziano le esequie. Trump e Zelensky, immortalati in una fotografia destinata a entrare nella Storia, confabulano. L’ultimo incontro era finito tra urla e accuse; stavolta i toni del confronto sembrano più pacati, smorzati forse anche dalla sacralità e dalla potenza dell’ambiente. Vaticano 1 – Casa Bianca 0. Nella foto, due sedie, recuperate in fretta per l’occasione, ospitano i corpi del leader dell’Occidente libero e democratico, oggi più vicino alla Russia che all’Ucraina, e del presidente ucraino, che negli USA aveva trovato il suo principale alleato e che ora sente quella stessa alleanza premere come una lama sulla sua schiena. Poco dopo Trump, sul social Truth, scriverà che forse Putin non vuole la pace. Forse lo sta solo prendendo in giro. Sono circa le 9.30 della giornata delle esequie di Francesco e grande è la confusione sotto il cielo di San Pietro.
Mentre la bara del defunto papa viene portata fuori dalla basilica tra gli applausi della folla e posata sul sagrato, un pensiero grottesco mi attraversa la mente: chissà cosa accadrebbe se Francesco aprisse la bara e ne uscisse sotto forma di zombie. Come reagirebbe il presidente Mattarella, posto in prima fila? E che suono ridicolo emetterebbe Donald Trump? Mentre scaccio questo pensiero, mi domando perché mi sia venuto in mente: forse a causa dei troppi video visti su Instagram, con sale cinematografiche americane in delirio per lo “zombie fantino” tratto da Minecraft; o forse mi sono solo ricordato del motto informale dell’ordine dei gesuiti, di cui Bergoglio era parte, ovvero perinde ac cadaver, “come un cadavere”. In un raro impeto di amor proprio decido di dare spazio alla seconda ipotesi. L’ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola, del resto, mi aveva sempre affascinato: da cinquecento anni forma sacerdoti che sussurrano alle orecchie dei re con la stessa scioltezza con la quale si sono fatti massacrare nell’opera di evangelizzazione del Giappone, esprimendo circa 200 martiri tra le loro fila. La duplice radice gesuita, fondata su l’endiadi di esercizio del potere e sacrificio, non è una novità ma l’espressione massima di una essenza profondamente cristiana: la Chiesa non sarebbe sopravvissuta due millenni se si fosse affidata solo al martirio e non anche ad una struttura solida, in grado di gestire l’organizzazione, la comunicazione e le strategie politiche della comunità. Per farlo, tendenzialmente, oltre ad essere vivo, devi essere in grado di esercitare potere. E cosa c’è di meglio per farlo della cara, vecchia monarchia assoluta? Pure questa, però, crescendo, ha bisogno di una forza operativa.
È proprio in questo bisogno che si inseriscono, fra gli altri, i gesuiti. La compagnia di Gesù ha infatti sempre avuto un rapporto privilegiato con il potere ecclesiastico: fondati come servitori diretti del papato, avevano una organizzazione simil-militare forgiata dal fuoco della controriforma e costituivano una vera e propria élite intellettuale. La loro adattabilità li rendeva una ottima scelta per le missioni diplomatiche e le opere di evangelizzazione lontane dall’Europa occidentale, mentre, al tempo stesso, mantenevano un fede incrollabile, muovendosi appunto “come un cadavere”, alla ricerca del bene della Chiesa e nient’altro. Guidati dal “Papa Nero”, come è chiamato il capo dell’ordine, si erano presto attirati anche giudizi negativi, come quelli di machiavellismo, relativismo, infatuazione per il potere terreno (visto che rifiutavano le scalate in quello puramente ecclesiastico) e vennero soppressi a più riprese. Non stupisce che l’idea di un gesuita al vertice della Chiesa fosse considerata quasi impossibile, considerando pure che si formava un paradosso: come poteva il braccio del papato esprimerne anche la mente?
Nel frattempo, sul sagrato di fronte alla basilica petrina inizia l’omelia del cardinale Giovanni Battista Re, decano del collegio cardinalizio. Nel suo discorso, ricorda come Francesco andò in un Iraq devastato dalle barbarie dell’ISIS, sfidando i rischi della guerra: un applauso educato arriva dai presbiteri presenti in piazza e lo stesso applauso, ancora più forte, si palesa quando viene nominato il tema della pace. Quando invece Re parla di un pontificato attento alle tematiche moderne e ai suoi sforzi per il dialogo interreligioso, gli applausi si fanno molto più timidi. Al ricordo di come il primo viaggio di Francesco sia stato a Lampedusa, metà dei presbiteri applaude fragorosamente. L’altra metà immobile, le mani conserte. Sono le 10 e qualcosa della giornata delle esequie di Francesco e grande è la confusione sotto il cielo di San Pietro.
Nonostante la sacralità del momento, viaggio col pensiero all’Argentina del 1976, al momento in cui due sacerdoti gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalics, vennero sequestrati dai soldati del regime di Jorge Rafael Videla. L’arresto probabilmente era dovuto alla vicinanza ideologica dei due sacerdoti alla teologia della liberazione, una corrente di pensiero nata pochi anni prima che coniugava l’impegno pastorale e quello politico contro l’oppressione sociale e economica – con espliciti tratti anticapitalisti. Il responsabile dell’ordine gesuita nel paese restò in silenzio e, anzi, collaborò attivamente, togliendo a Yorio e Jalics la protezione ecclesiastica; le malelingue parlano di mate bevuti insieme ad un alto esponente della giunta militare, l’ammiraglio Emilio Massera. Il responsabile dell’ordine nega, si difende, afferma di averlo fatto per proteggerli meglio. Ma i dubbi non se ne vanno e dopo la fine della dittatura subisce un esilio interno. Quando nel 1998, tornato tra i favori dell’ordine, viene fatto vescovo di Buenos Aires da Giovanni Paolo II, sceglie il motto Miserando atque Eligendo, ovvero “Guardando con misericordia e scegliendo”. Sembra però che la mera “misericordia” non guidò le decisioni di Jorge Mario Bergoglio nelle azioni verso i suoi confratelli, torturati per due mesi dalla giunta militare.
Ma è invece nello “scegliere”, nella freddezza politica di Bergoglio nell’abbandonare Jalics e Yorio, che si può intuire la cifra del suo pontificato. Francesco incarnerà la dualità dei gesuiti e della Chiesa, il sacrificio e il potere. La Chiesa ha resistito alle persecuzioni, alle guerre, alle eresie, con una tenacia brutale. Ha combattuto, senza pietà o compromessi, con l’unico scopo di non estinguersi. Non ha esitato a reprimere, ad escludere e ad annichilire, e lo ha fatto con la stesso metodo che ha garantito la sua esistenza: la ferocia della sopravvivenza, contro tutto e tutti. Francesco ha incarnato questa logica. Quando serve essere martiri, si muore. Ma quando serve resistere, si resiste: “Si dice che non bisogna reagire violentemente, ma se il dottor Gasparri, mio grande amico, dice una parolaccia contro la mia mama…. ma gli aspetta un pugno!” dirà ad un giornalista, suscitando grande ilarità tra i presenti ed orrore dottrinale tra i membri più conservatori della Chiesa. Chissà cosa avrebbe fatto Gesù di Nazareth se gli avessero offeso la mamma, mi domando, mentre il cardinale Re sul sagrato della piazza benedice il feretro papale con dell’incenso. Sono le 11 della giornata delle esequie di Francesco e ancora è grande la confusione sotto il cielo di San Pietro.
“Eddaje fai qualcosa co’ ste cazzo de mani” dice un fotografo, appostato come me sul tetto del colonnato di sinistra della piazza. Si è lamentato tutta la mattina dell’impostazione troppo rigida e poco scenica di Sua Eminenza Gian Battista Re (“S’è magnato ‘n manico de scopa questo”), rendendoci tutti partecipanti involontari dei suoi pensieri. In effetti, rispetto a Francesco, manca una certa grinta da parte del cardinale, che comunque ha 91 anni e sta celebrando un funerale con tutta la sua compostezza, rappresentando in fondo ciò che Francesco non era, con un controllo formale delle emozioni e una certa sacralità dei gesti. Non che Bergoglio abbia mai rovesciato tavoli o utilizzato in modo brutale la forza del papato: rispetto all’inizio del suo pontificato i cambiamenti dottrinali sono nulli e l’esperienza dei sinodi si è conclusa con un buco nell’acqua, affondata dai numerosi dubia dei cardinali.
Certo, il cardinal Becciu avrebbe da ridire, allontanato da Francesco ancor prima che la giustizia vaticana facesse il suo corso (una storiaccia brutta brutta di peculati e truffe), ma tutto sommato il pontificato non ha ristrutturato l’architettura della Chiesa. Non c’è mai stata una esplicita dichiarazione di guerra alla millenaria struttura ecclesiastica, ma una paziente, certosina (o, meglio, gesuita) erosione interna. Non ha sfidato la dottrina in maniera aperta, ma l’ha incrinata delicatamente, con dubbi e silenzi. Da qui la reazione spaesata di credenti e laici di tutto il mondo: un pontefice troppo di sinistra per la destra, troppo poco di sinistra per la sinistra. Francesco in effetti è riuscito a divenire il paladino della comunità LGBTQ+ senza aver fatto alcun effettivo passo dottrinale per l’inclusione della comunità, così come è riuscito a mandare segnali incoraggianti ai progressisti sul ruolo della donna nella chiesa mentre negava apertamente la possibilità femminile di accesso al diaconato – e tantomeno all’episcopato.
Questo cortocircuito è dato in parte anche dall’applicazione di categorie politiche laiche all’interno della Chiesa, un’entità che per sua stessa natura segue regole diverse. Non dimentichiamoci che Bergoglio ha inserito lo stemma gesuita nel suo scudo personale, ed è in pieno spirito gesuita che ha collocato al centro del proprio pontificato una precisa parte di mondo (le periferie), di idee (l’ambientalismo e l’anticapitalismo) e di valori (fratellanza, giustizia sociale) abbandonati, lasciati soli. E lì sì è ritagliato il suo serbatoio di potere, facendosi pastore del gregge delle anime perse, dagli sconfitti di questo secolo. Ha chiesto loro legittimità con il suo mantra “pregate per me”, calcando quasi paradossalmente le orme di Yorio e Jalics, che avevano l’unica colpa di aver sbagliato il calcolo politico di qualche decennio. Ha usato questo potere per far sì che fosse la Chiesa stessa a interrogarsi sulle proprie contraddizioni, sui propri limiti. “Il peccato più grande è la certezza. La certezza è la più grande nemica dell’unità” dice il cardinale Lawrence nel film Conclave, ed è su questo principio che Francesco ha costruito la sua Chiesa. Ha accolto i dubia dei cardinali sui sinodi non come una sconfitta, ma come testamento del suo successo, facendoli cadere, in pieno spirito di Francesco, senza risposta. Ha lasciato una Chiesa non costruita con assi diverse, ma da un insieme di domande aperte, di spazi grigi che sfuggono a facili classificazioni, di incertezze feconde e rivoluzionarie. È proprio questa la sua vera rivoluzione: aver insinuato il dubbio come metodo, aver messo in discussione la stessa idea di ordine, senza distruggerla, ma mostrando quanto sia fragile e malleabile.
Indipendentemente dall’identità del nuovo pontefice (per i bookmaker sarà Parolin) e dal suo credo “politico”, Bergoglio lascia una certa pressione sul conclave: come reagirà di fronte al dubbio, alle non risposte, alla sfida che questo pontificato ha lasciato alla Chiesa? Se l’appassionante app “FANTAPAPA”, lanciata con una certa grazia il giorno dopo la sua morte, divide i cardinali in “progressisti” e conservatori, forse la vera divisione dovrebbe riguardare chi intende dare risposte alle domande aperte di Francesco o chi, invece, continuerà sulla linea del porre dubbi. Come che sia, l’evento sarà il conclave più mediatico di sempre: questo non solo perché già “memeticamente” succulento, fra cardinali che si scolano interi minibar delle stanze di Santa Marta credendoli gratis e l’infinita telenovela Becciu, che condannato in primo grado a 6 anni e mezzo e all’interdizione dai pubblici uffici ha cercato comunque di presentarsi per votare al conclave, salvo poi fare marcia indietro – e vendere la decisione come l’intenzione di rispettare la volontà di Bergoglio. Mai come oggi l’evento avrà una copertura praticamente continua, in una perenne diretta streaming che interesserà ogni angolo del pianeta come diretta conseguenza della piena globalizzazione della geografia dei papabili. In più, con la polarizzazione politica attuale, sarà facile aspettarsi che le tifoserie progressiste e conservatrici saranno in attesa, col fiato sospeso, di capire se potranno pendere dalle labbra del prossimo pontefice o additarlo come l’anticristo o il Führer della situazione. Da non sottovalutare anche la potenza dell’alone di mistero, in un epoca dove ci è permesso l’accesso via social in ogni più disparato angolo del riservato e del “magico”; la segretezza del conclave, seppur conosciuta nei suoi metodi, rende l’evento potentemente attrattivo per il pubblico generale. Inoltre, il potere dell’incertezza, il non sapere cosa accadrà, rende l’elezione ancora più interessante, alimentando confronti, dialoghi, scambi di opinioni e un rinnovato interesse per l’incerto destino della Chiesa.
Alla veglia per il Santo Padre, solo pochi giorni prima del funerale, molti turisti e curiosi, pochi rosari e ancora meno suore in lacrime. Romani quasi non pervenuti; sicuramente la tradizione bucolica della pasquetta italiana ha influenzato la scelta di qualcuno, ma molti mostrano disinteresse. Uno dei miei pizzaioli di fiducia, quella sera, mi chiese se la piazza fosse piena. Al mio “no”, rispose con “ma di Pasquetta chi c’ha voja di annà a vede nmorto?” Stessa domanda che vorrei fargli io rispetto al suo voler lavorare, ma sono interessato a mantenere buoni rapporti. Lo stesso sembra stia accadendo oggi per il funerale; troppo svegli i romani per andare nella bolgia fatta di metal detector e polizia, a sudare sette camicie sotto il sole di San Pietro pe vede nmorto. Interessante sarà capire se la proverbiale immunità dei romani al fascino del sacro si imporrà anche sulla curiosità di quando assisteremo alla fumata bianca, con un conclave che porterà la Chiesa al centro della narrazione globale; di credenti forse pochi, ma di spettatori realisticamente miliardi.
L’omelia del cardinale Re è finita, i necrofori si avvicinano alla bara e con una certa fatica la sollevano verso la Piazza, che applaude. Penso che se dovessi definire perché Francesco è stato il primo vero papa del XXI secolo, non guarderei alle migliaia di smartphone che si innalzano dalla piazza, ma in quanto parte integrante dei “fenomeni”, mediatici e non, di questi “incomprensibili” decenni. Francesco ha scelto l’ambiguità come strumento pastorale, il dubbio come linguaggio della fede, in contrasto sì con l’assolutezza degli algoritmi (e dei dogmi), ma assolutamente in tema con la dispersione ideologica e lo spaesamento generale di questo secolo. Non ha cercato di convertirsi alla modernità, ma di ascoltarla, ritagliando un ruolo per la sua Chiesa, modellandola in modo che fosse capace non solo di resistere ai tempi, ma di pensarsi di nuovo. E questa malleabilità sarà la chiave di volta per la sua sopravvivenza di domani.
Ancora una volta i gesuiti hanno portato a termine il loro compito, proteggendo la Chiesa nella tempesta. E questi momenti del cadaver di Francesco, trasportato fuori dal sagrato dai necrofori, sono l’ultima azione del suo lascito concreto. Guardo giù verso la bara che lentamente viene portata verso Santa Maria Maggiore per l’ultima volta. Non ci sarà nessuno zombie Francesco, nessun miracolo teatrale, nessuna resurrezione. Nessun dubbio. Solo la consapevolezza che la Chiesa, dopo di lui, non ignorerà più la forza demolitrice di una domanda, si piegherà ad essa ma non si spezzerà. Sono i dubbi di Francesco, in fondo, ad essere il suo più grande atto di fede. È mezzogiorno, e non c’è più confusione sotto il cielo di San Pietro.