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La guerra dei dazi lanciata da Trump non sembra aver prodotto nessun vero vantaggio per l’economia americana. Al contrario, ha scatenato una guerra di meme che sembra minare la legittimità stessa degli Stati Uniti come nazione leader del mondo. Daniele Zinni – memer e scrittore – racconta come questo scontro si è trasformato in una crisi della coscienza statunitense.

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Quanto più Trump sembra vicino alla propria fine – politica ma anche biologica – tanto più sembra capace di piegare la realtà a suo favore, come se avesse un campo magnetico personale che inverte il valore degli eventi. Lo incriminano? Si costituisce e si fa scattare una foto segnaletica in cui sfida i suoi nemici. Gli sparano? Un minuto dopo agita il pugno in aria e urla al pubblico «Fight! Fight! Fight!» mentre le guardie del corpo sembrano doverlo trattenere piuttosto che sostenere. Lo criticano per le bufale sugli immigrati haitiani che mangerebbero gli animali domestici degli statunitensi? Posta un’immagine generata con l’AI che lo mostra circondato da uno stuolo di cani, gatti e oche, dando il via ad un’ondata di contenuti in cui i pet sono una milizia MAGA e lui appare come il loro eroico capo. Forse, però, è ancora più interessante analizzare quali spazi si aprono quando questo suo “superpotere” fa cilecca. Capita: a volte, persino Trump non è nella posizione di ricorrervi, non coglie il momento giusto per farlo, sbaglia la strategia complessiva o sottovaluta le forze avversarie in campo.

Il caso più recente risale allo scorso 2 aprile, rinominato per l’occasione Liberation Day. La giornata aveva come scopo l’annuncio dell’introduzione di dazi contro alleati, nemici e pinguini, ma il presidente ha miseramente fallito nel fornire agli Stati Uniti e al mondo un immaginario di riferimento. Ha sprecato il vantaggio della prima mossa e, così, ha permesso che dei misconosciuti produttori cinesi su TikTok gli rubassero la scena, offrendo agli statunitensi preoccupati una liberazione ben più concreta: la disintermediazione del consumo e l’elusione dei dazi, con la possibilità di acquistare prodotti made in China direttamente dalle fabbriche, a una frazione irrisoria del prezzo. Cosa avevano di speciale quei video, per suscitare tanto scalpore ed essere ripresi dai siti d’informazione di mezzo mondo, e perché ha senso parlarne ancora oggi, a trend concluso?

“Il conflitto può affilare le identità. Ciò che tu sei è ciò che io non sono”, diceva una conduttrice del podcast Critics at Large nella puntata dedicata al dissing fra Drake e Kendrick Lamar. Pur avendo scatenato lui stesso il conflitto commerciale, Trump non ha saputo darsi un’identità all’altezza dell’occasione, un profilo corredato da un’estetica. Si è limitato a presentarsi sul podio allestito davanti alla Casa Bianca con una serie di cartelloni che elencavano le percentuali dei dazi per 57 paesi, e da allora ha continuato a dichiarare che tutti volevano “baciargli il culo” e che aveva in cantiere tremendous deals. Non è stato abbastanza per far sognare nessuno, nemmeno i suoi sostenitori, che anzi hanno iniziato presto a soffrire le conseguenze dell’incertezza e degli stravolgimenti nella politica commerciale. Alla fine è arrivata la retromarcia del governo stesso anche nei confronti della Cina, che in teoria era il vero nemico; ed è lecito a questo punto chiedersi quanto abbia pesato la mancanza di una prospettiva chiara – oltre ai fattori strettamente economici – sulla capacità dell’amministrazione repubblicana di tenere duro o almeno di serrare i ranghi più a lungo.

Se c’era una visione, questa consisteva nella promessa di avviare la reindustrializzazione del paese: riportare le produzioni in patria, creare nuovi posti di lavoro, sganciarsi dalle dipendenze esterne. I primi e più convincenti a visualizzare la visione – ovvero, a tradurla in immagini – sono stati però i suoi critici, che nel resto del mondo (e specialmente in Cina) hanno generato, realizzato e condiviso video impietosi di americani obesi, annoiati e stanchi, seduti alle macchine da cucire negli sweatshop ad assemblare componenti elettroniche o automobili, circondati da simboli della propaganda trumpiana o delle aziende di Musk. La parodia interrogava implicitamente la base di Trump: “Siete davvero sicuri di volere il futuro che i vostri leader vogliono per voi?”. In pochi giorni, l’opinione comune sulla strategia dell’amministrazione USA è passata dal ritenerla delirante al ritenerla sciatta, col diffondersi dell’idea dei dazi slop, la cui elaborazione era stata probabilmente affidata a un chatbot AI senza verificare che avessero un senso. Nel frattempo, il crollo di Wall Street ha portato a una nuova esplosione di meme basati sull’infografica di Finviz che attribuisce a ogni azienda quotata un rettangolo di dimensioni proporzionali alla capitalizzazione e un colore, rosso o verde, a seconda dell’andamento del titolo. La prima ondata risaliva al panico dei mercati dell’autunno 2024 generato dal lancio di DeepSeek, e in entrambi i casi ai meme non è sfuggito che la colorazione pressoché omogenea di rosso si prestava a essere trasformata in una bandiera cinese. Il ribasso di aprile, un Black Monday – ribattezzato Orange Monday in (dis)onore di Trump –, ha anche incrociato la fase finale del trend di studio-ghiblizzazione delle immagini. Qualcuno ha colto l’occasione per realizzare un capolavoro che sarebbe difficile spiegare a chiunque non avesse vissuto quei giorni in diretta, generando l’immagine di un grafico di borsa in tracollo nello stile dello studio di animazione giapponese.

Il vero colpo di teatro, però, è stata l’operazione dei fornitori cinesi: intorno alla metà di aprile, in piena escalation della guerra dei dazi fra Washington e Pechino, su TikTok hanno iniziato a circolare video di produttori che sostenevano di realizzare abbigliamento o accessori per conto di grandi brand occidentali e si rivolgevano ai consumatori statunitensi. Proponevano di acquistare, online o di persona, articoli come borse di Hermès, per 1000 dollari anziché 38.000; leggings Lululemon, per 5-6 dollari anziché 100; sandali Birkenstock, scarpe Nike e di altri marchi per prezzi tra 1 e 10 dollari. Alcune di queste clip sono state visualizzate milioni di volte. Secondo gli esperti e i rappresentanti delle aziende intervistati da CNN e New York Times, è improbabile che si trattasse di fornitori legittimi; erano piuttosto produttori di copie a basso costo. Eppure, qualche commentatore ha avanzato il sospetto che potesse esservi un coordinamento politico occulto dietro questi video, apparsi all’improvviso e in gran numero, deflagrati nella coscienza collettiva e poi scomparsi. In diversi video non sembrano neppure dare indicazioni chiare su come procurarsi gli articoli in vendita. È effettivamente curioso che i produttori in questione abbiano scaricato l’app per l’occasione, considerato che in Cina la nostra TikTok non è disponibile ed è sostituita da Douyin. Ma ci interessa davvero sapere se fosse o meno una psyop, laddove è già certo che ne ha avuto i medesimi effetti destabilizzanti? Molti statunitensi avevano abbassato le difese, dopo giorni di confusione e timore, e nel feed si sono trovati all’improvviso giovani cinesi rassicuranti e spigliati che descrivevano più o meno dettagliatamente i processi di produzione e avevano un obiettivo dichiarato: vendere i propri prodotti – ovvero quello che di solito la gente sui social tende a nascondere. Si sono innamorati della schiettezza, e la performance dell’autenticità ha compiuto anche stavolta il suo miracolo. La relatability vince sempre sull’invidia e sull’odio.

I video hanno avuto successo tanto per ciò che dicevano quanto per ciò che implicavano e omettevano. Innanzitutto, confermavano un antico sospetto dei consumatori: le merci che acquistano sono terribilmente sovrapprezzate rispetto a quello che valgono. L’operazione commerciale poteva interessare a qualcuno, ma l’operazione-verità interessa a tutti. Uno dei video inizia con un gancio che non sfigurerebbe in un’inchiesta: Let’s expose luxury’s biggest secret. Dopo tre secondi di clip, il John Fantozzi di turno ha visto la verità e si è incazzato come una bestia. Se noi statunitensi dobbiamo sborsare così tanto mentre i cinesi incassano così poco, allora l’unico vero nemico comune è il marchio, l’inutile middleman che lucra seduto in poltrona! Praticamente la base di una nuova Internazionale per disinnescare la guerra commerciale, basata su un principio simile a quello che i partiti socialisti europei non riuscirono a difendere quando si trattava di impedire la Prima guerra mondiale. Con la differenza che il patto di oggi – la cospirazione delle colombe contro i falchi trumpisti – non richiedeva né un’organizzazione collettiva, né di fare alcun sacrificio, anzi.

Il margine per stringere l’accordo tra consumatori e produttori era garantito dallo spazio di auto-assoluzione concesso agli spettatori dei video. Pur svelando la realtà dietro ai prezzi delle borse o delle scarpe, i fabbricanti cinesi non criticavano le ingiustizie della divisione internazionale del lavoro. Se lo avessero fatto, si sarebbe corso il rischio di mettere in difficoltà le coscienze degli statunitensi. Al contrario, l’offerta si appellava proprio al loro desiderio di continuare a beneficiare delle iniquità globali spuntando prezzi ridicoli – il segreto di Pulcinella della globalizzazione, la cui crisi è all’origine del successo stesso di Trump e dei suoi omologhi nel resto del mondo occidentale. La brava gente nei video non sembrava avere la minima intenzione di tenere per sé un pezzo più grande della torta, ora che il commensale più vorace ne era stato allontanato. Sarà perché sono socialisti; sarà perché tanto hanno già i magazzini pieni; sarà perché in Cina si può vivere anche con poco; sarà perché i cinesi sono grandi lavoratori e percepiscono la produzione di oggetti come la loro missione e la vendita come il culmine del processo di realizzazione individuale. Le razionalizzazioni possibili, insomma, non mancano.

Anche tra gli statunitensi poco interessati a fare acquisti, i video hanno fatto una certa presa. In Italia conosciamo bene il desiderio di dissoluzione che serpeggia in una parte della popolazione quando alle elezioni vince l’altra parte – l’idea disfattista per cui se si è democraticamente deciso di essere governati da certa gente, allora ci meritiamo di fare una brutta fine e si tifa asteroide. Analogamente, tanti anti-trumpiani stanchi sognano un fuoco purificatore che faccia giustizia della stupidità del loro paese alla deriva. Umiliateci, per carità! In questo scenario così deprimente, si è aperta ai loro occhi una finestra su un altro mondo che non sembra alla fine dei suoi giorni ma nel pieno della crescita e popolato di elementi ingegnosi. Da noi nessuno sa più cosa c’è dentro un nugget di pollo, e invece questi hanno una percezione tanto precisa della catena del valore mondiale da sapere come riscriverla. Il futuro è loro e se lo sono meritato. Non promuovono un’ideologia, né un’utopia, né una protesta, ma una soluzione pragmatica: mentre l’amministrazione USA gioca una partita assurda, lasciano che giochi e le girano intorno. Come Sun Tzu. Affascinante che debbano essere i cinesi, a insegnare agli statunitensi come fare a meno del governo.

In realtà, più che aprire una breccia nell’immaginario statunitense sulla Cina, le clip dei produttori hanno continuato ad ampliarne una già esistente. Un primo contatto diretto c’era stato all’inizio del 2025, quando TikTok stava per essere vietata negli Stati Uniti come estrema conclusione di un processo avviato da Trump durante il suo primo mandato e proseguito sotto Joe Biden. Nessuno sapeva ancora cosa avrebbe fatto Trump una volta reinsediatosi alla presidenza, mentre l’app aveva annunciato che avrebbe presto sospeso le proprie operazioni. Nel giro di tre giorni, tra il 14 e il 16 gennaio, tre milioni di utenti in cerca di una nuova “casa” hanno scaricato l’app cinese RedNote (Xiaohongshu), portandola ai vertici delle classifiche App Store e Play Store. Lì non hanno solo ritrovato i propri connazionali, gli altri “rifugiati di TikTok”, ma si sono anche messi ad interagire con utenti cinesi che si sono mostrati disponibili nello spiegare come usare l’interfaccia in mandarino, ironici nel presentarsi come “la tua spia personale” e stupiti dagli stereotipi che sono emersi sul loro paese. Scontando una certa esagerazione necessaria per fare visualizzazioni su TikTok, pare che per alcuni sia stato davvero straniante scoprire che la Cina è una potenza industriale, non un gigantesco slum, e che i cinesi sono persone… normali. “Ho iniziato a vedere video di americani completamente sconvolti da quanto siano avanzate le città in Cina, da come le persone possano avere una vita dignitosa con appartamenti belli, trasporti pubblici e auto elettriche all’avanguardia”, ha scritto un utente su r/chinalife. “Non parlo solo di sorpresa. Parlo di vere e proprie crisi esistenziali. Sono scioccati dal fatto che le strade in Cina siano molto sicure e che le spese mediche e le tasse universitarie siano relativamente basse”.

Questo genere di esperienze, per quanto parziali, stanno contribuendo a cambiare la percezione della Repubblica Popolare in casa della superpotenza concorrente. Mentre altre forme di pubbliche relazioni come la celebrity diplomacy si rinnovano secondo schemi collaudati – per esempio con la visita in Cina dello streamer IShowSpeed – i momenti di ampio affratellamento digitale “dal basso” rappresentano una novità. Di solito, persone da gran parte del mondo partecipano alle ondate di meme sui grandi eventi internazionali mettendo in gioco la propria visione del meme, non sé stessi. Gli episodi legati a RedNote e alla guerra commerciale sembrano mostrare nuove aperture in quel rituale fatto di reazioni rapidissime e codificate che è la vita online. Se siano sincere o tanto pilotate da sembrare sincere, è impossibile saperlo. Intanto, nella settimana precedente al Liberation Day, un sondaggio del Pew Research Center rilevava per la prima volta in cinque anni una diminuzione nella quota di americani che hanno un’opinione sfavorevole della Cina.


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