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foto: Cold War Steve

Donald Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti – e come nel 2016 si dice di nuovo che è fascista, complice il saluto romano di Elon Musk durante la cerimonia di inaugurazione. Ma i paragoni con il fascismo offuscano più di spiegare, e per capire il significato del trumpismo per il futuro secolo più che al secolo scorso bisogna guardare a quello ancora prima. Piervittorio Milizia – editor di Iconografie – sul senso del trumpismo, tra Mussolini e Napoleone III.

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Negli ultimi anni ci siamo sempre più abituati a vedere i tasselli del vecchio mondo cadere uno dietro l’altro. Neanche dieci anni fa ci sconvolgeva la Brexit, oggi a stento ci riesce l’immagine dell’uomo più ricco del mondo che fa il saluto romano durante l’inaugurazione del nuovo presidente degli Stati Uniti. A stento, perché il giorno dopo c’è dibattito tra chi dice che ha fatto un saluto romano e chi invece dice di no, voleva dire altro, perché “è autistico ed esprime così i suoi sentimenti”. Le due cose sono vere contemporaneamente: ha fatto davvero il saluto romano, ma l’ha fatto per trollare. Il punto è che, come ha scritto il critico culturale Matthew Ellis, se per la sinistra il riferimento al passato resta impossibile o minaccioso, per la destra non è che un gioco basato sul libero recupero e riutilizzo di simboli svuotati di ogni significato: il braccio teso di Musk, insomma, non ha nessun valore se non l’umiliazione degli avversari sconfitti. Forse, allora, sono altre le cose di cui dovremmo preoccuparci. Io comincerei guardando agli invitati alla cerimonia di inaugurazione che si era tenuta qualche ora prima: abbiamo visto i CEO di tutte le Big Tech, un tempo considerati vicini ai democratici, accanto ai più volgari personaggi pubblici filo-trumpiani, come Joe Rogan, ma anche vari leader dell’estrema destra europea e latinoamericana (con Meloni a Milei ospiti d’onore) al fianco dei presidenti liberali di Georgia e Venezuela, considerati da Washington i leader legittimi dei propri paesi. Come è possibile che un paladino dei liberal come Mark Zuckerberg, uno che meno di due anni fa si allenava letteralmente per spaccare la faccia a Musk, adesso sieda al suo fianco nel celebrare l’arrivo al potere dei fascisti? La risposta è semplice: non c’è nessun fascista. 

Partiamo da un elemento banale ma centrale: i repubblicani, per quanto pericolosi possano essere, in fin dei conti non sono che dei semplici rappresentanti e burocrati e restano, bene o male, legati alle regole della democrazia. Quando, dopo la sconfitta elettorale subita nel 2020 Trump ha cercato di ribaltare l’esito del voto, sono stati i suoi stessi compagni di partito a fermarlo. Trump viene tacciato di fascismo da quando è entrato in politica nel 2016 ma il problema è che tutte queste analisi – e poco importa che a farle siano militanti della sinistra radicale o liberali come lo storico Timothy Snyder – è che si sono sempre fondate su una semplificazione della teoria del “fascismo eterno” proposta da Umberto Eco, tradotta nella selezione arbitraria di alcune caratteristiche riconducibili ad entrambe le esperienze politiche utilizzate per dimostrare il parallelismo. Trump è nazionalista, razzista e complottista, tutte caratteristiche dei fascismi storici, ergo è fascista. Ma non si può ridurre il fascismo semplicemente a nazionalismo, razzismo e complottismo. 

È più utile guardare non a quello che Trump e Hitler hanno in comune ma agli elementi che li differenziano. In primo luogo, allora, il fascismo si è sempre presentato accompagnato da organizzazioni ben disciplinate e pronte a tutto, mentre è a dir poco difficile immaginarsi i benestanti membri del Partito repubblicano mobilitarsi in massa per spaccare la testa ai sindacalisti, bruciare case e negozi degli ebrei o insorgere in armi. È la stessa congiuntura storica attuale, caratterizzata da una sempre crescente de-istituzionalizzazione della politica, a renderlo improbabile. Secondo lo storico belga Anton Jäger la destra avrebbe resistito meglio a tale tendenza, ma ad oggi le sue massime espressioni sono i sindacati di polizia e le associazioni di proprietari immobiliari, e i gruppuscoli armati di estrema destra esistenti non sono che semplici leghe di “sottoproletari isolati che vanno a proteggere concessionari di automobili”. Se però per la sinistra questa disorganizzazione ha significato la compromissione quasi totale del proprio progetto politico, non si può certo dire la stessa cosa per i conservatori. Semplicemente perché, e qui veniamo alla seconda grande distinzione tra trumpismo e fascismo, il trumpismo non fronteggia nessun nemico interno reale, ma nemmeno potenziale. I vari Mussolini e Franco emersero proprio perché si posero in contrapposizione diretta con il movimento dei lavoratori, che in Europa non ha mai più avuto tanta forza come nel primo Novecento – e non è un caso se storici come Claudio Pavone abbiano parlato di quel periodo come di una “guerra civile europea”. La proposta politica fondamentale del fascismo ai capitalisti era la seguente: c’è il rischio di una rivoluzione, date in mano il potere a noi piccoli borghesi e fateci reprimere i lavoratori. La brutta sorpresa sarebbe arrivata solo in un secondo momento: arrivata al governo col beneplacito delle élite economiche, la piccola borghesia lo avrebbe tenuto per sé.

Con Trump non assistiamo a niente di tutto questo. In nessun paese occidentale – tantomeno negli Stati Uniti – esistono organizzazioni operaie in grado di minacciare l’ordine sociale. Quello che esiste, però, è una minaccia che viene da fuori: la Grande Convergenza. È un processo che si configura come un vero e proprio ribaltamento degli equilibri economici mondiali così per come si erano definiti a partire dall’inizio dell’età del colonialismo, il singolo processo più importante del mondo contemporaneo, con il quale vengono a mancare le basi stesse dello sviluppo capitalistico del mondo occidentale per come si è definito da cinque secoli a questa parte, in quello che l’economista Giovanni Arrighi ha definito “un totale rovesciamento della struttura fortemente piramidale del sistema gerarchico” della catena produttiva globale. Di fronte a ciò i paesi occidentali, piuttosto che accettare di ridefinire il proprio ruolo egemonico, reagiscono con violenza a questo scenario, con guerre, dazi e sanzioni – ovvero, disarticolando le strutture economiche e politiche della globalizzazione. A questo gioco partecipa l’intera politica occidentale. Basti pensare a come fu già l’amministrazione Obama a riaffermare la centralità strategica del continente asiatico per gli interessi statunitensi o a come Joe Biden abbia proseguito la guerra commerciale avviata da Trump contro la Cina. 

Questo accade perché questo conflitto tra il vecchio e il nuovo non ha un vero contenuto ideologico e finisce per svolgersi tutto nel medesimo campo politico, traducendosi nella dinamica che già un secolo fa Lenin definiva come un conflitto inter-imperialistico finalizzato al controllo della circolazione dei capitali; il ruolo dello stato è tutelare il proprio capitale nazionale dai concorrenti stranieri e prenderne il controllo con la forza, per quanto interconnessi possano essere tra di loro, qualora questi diventino una minaccia. È quello che è accaduto alla fine della Belle Époque con la crisi economica del 1873, il ritorno del protezionismo e poi la Prima guerra mondiale; ed è quello che sta accadendo di nuovo oggi, con il disgregarsi del mondo post-1989 come conseguenza della crisi del 2008 e del decennio populista – la “fine della fine della Storia”, pietra tombale del neoliberalismo sul quale era stata costruita la globalizzazione e che la vittoria di Trump ha reso inevitabilmente obsoleto.

Il ruolo dell’estrema destra contemporanea, tutta figlia del trumpismo, è quindi alzare il livello dello scontro. Non basta continuare ad armare Israele nella propria guerra genocida contro la popolazione palestinese, bisogna dargli totale carta bianca; non basta imporre tariffe doganali sulle merci cinesi, occorre farlo con tutti i paesi BRICS+; non basta lavorare insieme alle aziende del complesso militare-digitale per usarne le tecnologie, si deve fare entrare Elon Musk nelle istituzioni. Prima di farlo, però, bisogna fare i conti con le masse: il crollo delle basi dello sviluppo capitalistico occidentale fa infatti saltare anche i meccanismi con cui il capitale è riuscito per decenni in Occidente a tenere le masse fuori dalla storia. Il risveglio politico delle masse, in mancanza di organizzazione, rende possibile il loro controllo dall’alto. E allora se per riportare la globalizzazione al servizio dell’Occidente bisogna alzare il livello dello scontro, per alzare il livello dello scontro bisogna mobilitare le masse, e per mobilitare le masse occorre renderle interessate a quello scontro in termini ideologici – e per questo la politica dei populisti di destra contemporanei è condotta sul piano di guerre culturali dichiarate come esistenziali contro nemici sempre diversi che possono benissimo cambiare da un giorno all’altro: il deep state, le persone non cisgender, gli immigrati. E in assenza di identificazione di classe, proprio la razza diventa il primo parametro di riferimento in una retorica dei “dimenticati della globalizzazione” che implica l’evoluzione del concetto, non più inteso necessariamente in termini di colore della pelle ma anche come semplice appartenenza al mondo occidentale – un’ulteriore distinzione rispetto al fascismo che contribuisce a spiegare il successo elettorale di Trump anche fra le minoranze.

Poiché lo scontro globale si fa sempre più violento da entrambe le parti – l’invasione dell’Ucraina, l’etnonazionalismo indiano e gli esperimenti egemonici turo e iraniano sono lì a dimostrarlo – lo scenario attuale richiede come non mai una sinergia tra il potere istituzionale e quello economico, tenuti a lavorare insieme per contrastare una minaccia che non è più interna – come poteva essere il movimento operaio – ma totalmente esterna. In questo senso, il ricorso al fascismo non sarebbe nemmeno necessario, basta rendere più incisiva la ricolonizzazione del Terzo mondo in rivolta. Per farlo, serve una forza politica capace di riunire le borghesie occidentali, grandi e piccole, nella lotta comune contro quelle del Sud globale, appiattendo qualunque altro conflitto intestino. La dinamica ricorda da vicino quella individuata da Karl Marx nel modus operandi di Napoleone III che riuscì proprio in questo modo a porre fine alla lunga fase rivoluzionaria della Francia moderna, sconfiggendone la componente proletaria. Tutti uniti contro il nemico comune, insomma, in un’alleanza che porta alla depoliticizzazione di tutte le interazioni sociali, laddove invece il fascismo si proponeva di controllare e assumere su di sé ogni attività indipendentemente dalla propria natura – nelle parole di Mussolini, “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Ora, per quanto Trump possa coltivare una serie di tentazioni autoritarie tanto marcate da spingere il giornalista Leonardo Bianchi a parlare di un vero e proprio “cesarismo rosso, non è certamente interessato alla costruzione di un regime totalitario. Il controllo dello Stato non è per lui un fine, ma uno strumento per tutelare al meglio gli interessi del capitale privato; allo stesso modo di Napoleone III, si è impegnato a creare la coalizione più vasta possibile. Questa volta l’obiettivo non è sconfiggere i lavoratori ma contrastare l’ascesa del Sud del mondo – caotica e tutto sommato ancora debole, come i nemici del presidente francese – e ricreare l’età dell’oro.

Insomma, America is back…di nuovo. Mondi che fino alla settimana scorsa ci sembravano incompatibili tra di loro come l’oligarchia tecnologica e gli sciamani quanonisti si sono finalmente riuniti sotto l’ala del trumpismo mettendo da parte ogni altra rivalità reciproca per assistere insieme al funerale di un vecchio mondo ormai inadeguato a garantirne la sopravvivenza e dell’ideologia che avrebbe dovuto governarlo. Un funerale che pure si è presentato come una festa, una celebrazione dell’America ancora capace di espandersi da Panama a Marte perché ancora guidata dal proprio Destino manifesto di nazione civilizzatrice. Ben lontano dalle cupe minacce del fascismo novecentesco, Trump è il leader più compiuto del nuovo mondo libero contro ogni suo avversario, e ora sta agli altri leader mondiali di accettarlo – già martedì, parlando al forum di Davos, Ursula von der Leyen ha dichiarato che le promesse della globalizzazione non sono mai diventate realtà. Trump non è Mussolini – se Mussolini era il figlio del secolo passato, Trump è il padre di quello a venire.


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