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Nella destra americana sono sempre più frequenti i riferimenti all’antica Roma, con la figura di Trump trasfigurata in quella di Giulio Cesare: l’uomo della provvidenza che con un colpo di forza salverà il Partito repubblicano e il paese. Leonardo Bianchi, giornalista esperto di estrema destra, sul momento tardo-repubblicano degli Stati Uniti.

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All’inizio di marzo del 2020 – prima della fase più acuta della pandemia, delle rivolte scatenate dall’omicidio di George Floyd e dell’assalto al Congresso – lo storico ed esperto di storia romana Tim Elliot spiegava in un lungo articolo su Politico che la traiettoria della repubblica statunitense è paurosamente simile a quella della Repubblica romana. Più di duemila anni fa, scriveva Elliot, i romani si trovavano in una situazione per certi versi simile a quella statunitense del XXI secolo, in cui un leader autoritario e dittatoriale – Giulio Cesare – “passa sopra le norme democratiche, si fa beffe dei contrappesi al suo potere ed erode il dibattito politico”.

Un po’ come negli Stati Uniti contemporanei, anche le élite romane erano convinte che il sistema repubblicano fosse troppo forte, troppo bilanciato e troppo sacrosanto per essere scardinato da una singola figura politica, per quanto carismatica e popolare questa potesse essere. Ma si sbagliavano di grosso: “Cesare ha disintegrato quell’illusione nella stessa maniera in cui Trump ha ridefinito i confini dell’accettabilità politica negli Stati Uniti, rivelando quanto le istituzioni non siano davvero in grado di arginare la minaccia dell’autoritarismo”. La stagione del cesarismo ha lasciato Roma divisa, polarizzata e preda della violenza politica. Nell’impossibilità di rimuoverlo con metodi democratici, agli avversari di Cesare non rimase come opzione che attentare alla sua vita, un gesto che, invece di salvare la repubblica, ne avrebbe accelerato la distruzione. Chiaramente, i romani del tempo non potevano sapere che la loro epoca sarebbe passata alla storia come “tarda repubblica”. Allo stesso modo, avverte Elliot, gli statunitensi potrebbero star vivendo la propria età tardo-repubblicana, senza saperlo o rendersene pienamente conto.

Il paragone storico voleva essere un avvertimento. Tuttavia, sono sempre di più gli ideologi conservatori e filotrumpiani – generalmente afferenti alla New Right – che non vedono alcun problema in questo scenario; al contrario, si augurano proprio che Trump si trasformi in un “Cesare rosso”, il colore del Partito Repubblicano.

Il primo ad avanzare l’idea di un “cesarismo americano” è stato Michael Anton, membro del think tank conservatore Claremont Institute nonché consulente strategico di Trump, tanto influente che nel 2017 Vanity Fair l’aveva definito il “Machiavelli” del primo mandato trumpiano, e addirittura “l’uomo più potente dell’amministrazione repubblicana”. Per dare l’idea del personaggio, Anton è diventato noto con la pubblicazione dell’articolo The Flight 93 Election – significativamente firmato con lo pseudonimo romaneggiante Publius Decius Mus – in cui si paragonavano le elezioni presidenziali del 2016 al volo 93 della United Airlines, quello che l’11 settembre del 2001 è precipitato in un campo in Pennsylvania a causa della rivolta dei passeggeri. Nel paragone, lasciar vincere Hillary Clinton significava morte certa per il conservatorismo, mentre puntare su Trump era l’equivalente politico di sfondare la cabina di pilotaggio e ostacolare i dirottatori di Al-Qaeda: un tentativo disperato, ma comunque preferibile. Il senso dell’argomentazione di Anton, insomma, è che bisognava provarle tutte pur di fermare il Partito Democratico.

Nell’articolo c’è una menzione al “cesarismo”, ma non è positiva: figura tra le possibili conseguenze negative di una vittoria di Hillary Clinton. Quattro anni più tardi Anton avrebbe ripreso il concetto nel saggio The Stakes (uscito prima delle elezioni del 2020) cambiandone l’accezione e riappropriandosene: è qui che per la prima volta appare il termine “cesarismo rosso”, descritto come una “forma di governo individuale tra la monarchia e la tirannia” ma soprattutto come un male necessario per arginare un’inarrestabile deriva a sinistra.

Eppure, ecco che la sconfitta di Trump materializza i peggiori incubi di Anton, e la sua visione diventa ancora più cupa. In Up From Conservatism, un’antologia di interventi pubblicata nel 2022 dal Claremont Institute, spiega che gli Stati Uniti hanno scollinato all’inizio degli anni Sessanta – quando cioè sono state approvate varie norme anti-discriminatorie – e che da allora sono controllati da “una rete di burocrati non eletti, dirigenti del settore tecnologico-finanziario, sedicenti esperti che fissano i confini di quello che si può dire, e media che pattugliano aggressivamente quei confini”. Come ha ricostruito il giornalista Jason Wilson sul Guardian, Anton non è l’unica figura intellettuale della galassia trumpiana ad avere questa visione apocalittica degli Stati Uniti – e, di conseguenza, a proporre il “cesarismo rosso” come rimedio definitivo.

Nel saggio del 2023 War on the American Republic, il politologo conservatore Kevin Slack ha sostenuto che le idee progressiste siano divenute talmente predominanti da aver corroso le fondamenta stesse della democrazia statunitense, ormai divenuta una specie di tirannia liberal alla quale non può che contrapporsi appunto un “Cesare rosso” in grado di “istituire un ordine post-costituzionale” per “ridare il potere al popolo”. L’anno precedente era stato invece pubblicato un altro libro, The Case for Christian Nationalism, nel quale il politologo integralista Stephen Wolfe arrivava a invocare una vera e propria “rivoluzione” per eleggere un “Cesare cristiano” e instaurare un “cesarismo teocratico” che combatta il secolarismo.

La suggestione del “cesarismo rosso”, dunque, pervade ampiamente certi circoli conservatori e trumpiani. Ma – e questo è l’aspetto più importante – non è affatto una teoria marginale, confinata al dibattito culturale. Nel 2021, JD Vance, all’epoca candidato senatore nello stato dell’Ohio e oggi scelto da Trump come suo candidato vicepresidente, aveva detto in un podcast che “ci troviamo in un periodo tardo repubblicano: se vogliamo invertire la rotta dobbiamo darci veramente dentro, fare cose davvero radicali e spingerci in direzioni che ora come ora danno fastidio a un sacco di conservatori”. Nello stesso intervento, Vance suggeriva a Trump di “licenziare ogni impiegato di medio livello e ogni funzionario nella pubblica amministrazione e di rimpiazzarli con i nostri”. 

L’idea di impossessarsi dello stato federale attraverso una purga di massa non nasce nel vuoto, tanto che la si può definire come il cuore pulsante del “Project 2025”, un piano d’azione para-golpista per un eventuale secondo mandato trumpiano, elaborato da oltre cento associazioni e think tank conservatori. Se implementate fino in fondo, le proposte contenute nel documento finale di 900 pagine trasformerebbero gli Stati Uniti in una specie di teocrazia fascista guidata da un “Cesare rosso” con un potere semi-divino. Tra queste, per fare qualche esempio, ci sono la previsione di un controllo presidenziale totale sulle istituzioni federali, basato su una screditata teoria pseudo-costituzionale (la Unitary Executive Theory); il ridimensionamento radicale del FBI, considerato troppo woke e vicino ai democratici; la deportazione di massa dei migranti; l’estensione a livello nazionale del divieto di aborto; la promozione di un’istruzione fondata sui dettami del nazionalismo cristiano.

Trump ha detto di non saperne nulla, ma secondo la CNN al piano hanno collaborato più di 140 persone a lui legate – inclusi sei ex segretari della sua amministrazione. D’altro canto però, è innegabile che negli ultimi mesi Trump si sia messo a parlare come una sorta di dittatore in pectore: “prometto che estirperemo i comunisti, i marxisti, i fascisti e gli estremisti di sinistra che si annidano come parassiti dentro i confini della nostra nazione, mentendo e truccando le elezioni”, ha dichiarato in un comizio. In un altro ha associato i migranti all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, accusandoli di “avvelenare il sangue della nostra nazione”. In un’intervista alla rete televisiva in lingua spagnola Univision ha fatto intendere che, in caso di vittoria, userebbe il Dipartimento di giustizia per arrestare i suoi avversari politici – incluso il presidente Joe Biden – e gli ex alleati che non hanno condiviso le bugie sugli inesistenti brogli delle presidenziali del 2020, tra cui l’ex procuratore generale Bill Barr e l’ex capo di stato maggiore dell’esercito Mark Milley.

Dopo il fallito attentato del 13 luglio 2024, la retorica trumpiana e del Partito repubblicano – ormai sempre più simile a una chiesa personale di Trump – si è arricchita di tinte messianiche e cristologiche. “Non dovevo essere qui stasera”, ha detto l’ex presidente durante la convention repubblicana a Milwaukee. “Se lo sono è soltanto per la grazia di Dio onnipotente”. Durante la sparatoria, ha ricordato, “c’era sangue ovunque, ma in un certo senso mi sentivo al sicuro, perché avevo Dio al mio fianco, lo sentivo”. E sono in molti, sia dentro che fuori il partito, a pensare che Trump sia stato salvato da un intervento divino – malgrado nell’attentato sia rimasto ucciso un suo sostenitore. Il tema dell’intervento divino è stato inoltre ripreso da vari alleati storici di Trump: Ben Carson, ex segretario dello sviluppo urbano nell’amministrazione Trump, si è detto certo che “Dio ha protetto Trump con uno scudo” e Steve Bannon – l’ex consulente strategico di Trump che sta scontando una condanna per essersi rifiutato di testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta della Camera sul 6 Gennaio 2021 – ha parlato di “armatura di Dio”. Charlie Kirk, fondatore del movimento ultraconservatore Turning Point USA, ha scritto che “l’intero paese è stato salvato da un colpo di vento che ha deviato il proiettile quanto bastava. Nelle scritture, lo Spirito Santo è spesso associato al vento. […] Donald Trump è protetto dalla mano di Dio”.

L’essere sopravvissuto a quell’attentato è pertanto il segno inequivocabile che anche dall’alto vogliono che il candidato repubblicano vada fino in fondo, diventando un Giulio Cesare cristiano e salvando gli Stati Uniti. E a Trump non resta che lanciare il dado e varcare il Rubicone.


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