La vittoria elettorale di Donald Trump — un trionfo con cui il partito repubblicano ha conquistato la Casa bianca, ma anche il Senato e la Camera dei rappresentanti — apre un capitolo nuovo per la politica statunitense. La prossima amministrazione Trump si prospetta infatti drasticamente diversa da quella del 2016: non solo il partito repubblicano controllerà ogni ramo del governo, ma soprattutto sono profondamente cambiati i rapporti di forza tra Trump e il resto del partito. All’epoca, Trump aveva strappato la vittoria contro il risultato del voto popolare, ed era visto dall’establishment conservatore come un alieno, un utile idiota che doveva distrarre il pubblico mentre “gli adulti” governavano. Questa volta la dinamica sarà completamente diversa: il partito si è spostato saldamente nell’ambito dell’estrema destra, e anche i politici di lungo corso che guardano con fastidio alla tracotanza di Trump oggi non possono che riconoscerne il mandato popolare. Trump è riuscito in una operazione che alla destra del partito non riesce da decenni, normalizzando le parti più estremiste delle politiche repubblicane e rendendole appetibili a un’intera platea elettorale che fino al 2020 non le avrebbe mai sostenute. E adesso, gli Stati Uniti si preparano a imbarcarsi verso 4 anni drasticamente trasformativi, che porteranno il paese verso misure autoritarie e forse a un passo dalla teocrazia.
Malgrado nel 2020 Biden abbia sconfitto Trump con un margine plebiscitario di 7 milioni di voti, la sua candidatura nasceva in un contesto di dubbio e preoccupazione. Già nel dicembre 2019, da settimane, si parla di un problema: Joe Biden non è più giovane e si crea la necessità di farne un presidente di un solo mandato, un “ponte” per le prossime generazioni di candidati democratici. Eppure, 4 anni dopo, Biden si ricandida. Rivendica come la sua amministrazione abbia segnato una svolta netta nella gestione dell’economia statunitense, scommettendo — e spesso vincendo — sulla ricostruzione di una industria forte. I fondamenti macroeconomici della Bidenomics sono solidi e progressisti, ma il miglioramento delle condizioni economiche del paese non è mai stato comunicato con successo all’elettorato, sempre più spaventato da fattori critici come l’esplosione dell’inflazione e la crescita incontrollata della spesa alimentare. Insomma, quando Biden vantava il crollo della disoccupazione, lo faceva a una platea dove il 5% dei lavoratori deve avere due lavori per sopravvivere; rispetto agli anni di Trump la percentuale di cittadini statunitensi sotto la soglia della povertà è scesa in modo rilevante, ma nel paese restano in condizioni di povertà quasi 37 milioni di persone, che hanno passato gli ultimi due anni a sentirsi dire che l’economia del loro paese era una bomba. Biden si ricandida da presidente più impopolare degli ultimi 75 anni ed è poi costretto a ritirarsi una volta emerse in diretta televisiva le sue difficoltà mentali. È ormai troppo tardi, però per svolgere delle vere primarie, e la candidatura ricade su Kamala Harris, costretta a improvvisare una campagna elettorale che pesca a piene mani dalla retorica obamiana, ma che non può ovviamente distanziarsi dall’amministrazione Biden.
Gli strateghi democratici da più di 15 anni credono in un mantra: Demographics is destiny. Codificata come vera e propria policy da James Caville nel suo seminale 40 More Years: How Democrats Will Rule the Next Generation, la tesi vuole che la vittoria dei democratici sia garantita con il progressivo diversificarsi dell’elettorato statunitense. È il fondamento reale della fake news spesso diffusa da Elon Musk, secondo cui i democratici avrebbero voluto rubare il risultato elettorale permettendo ai migranti senza documenti di votare. Il problema, però, è che non è vero, la composizione demografica non è un destino: la tesi si basa sul fatto che i democratici hanno importanti pool elettorali nelle minoranze etniche e di genere, ma queste coorti non sono monolitiche, e anzi, più crescono di numero — e, in modo rilevante, più si rallenta la loro crescita — più il loro voto si fraziona. La nomina a vice presidente di Harris, e poi la sua candidatura, rientrano naturalmente in questa dottrina: Harris ha titolo e può parlare con minoranze presso le quali altri leader politici hanno meno credibilità, ma secondo la logica democratica, il loro voto è praticamente un atto dovuto. Nelle settimane prima delle elezioni, i democratici speravano che i gruppi non bianchi e le donne — anche le donne conservatrici — avrebbero salvato la situazione, ma non hanno fatto molto per accattivarseli. Il supporto acritico e sanguinario al genocidio in corso nella Striscia di Gaza, poi, sembra essere stato un elemento che ha fortemente accelerato il processo di scollamento con la base elettorale democratica all’interno dei gruppi non bianchi.
È difficile capire come chiunque possa voler votare per Donald Trump tra gli scandali sessuali e il tentato golpe. Eppure, proprio ora che i cittadini statunitensi lo conoscono meglio, gli piace molto di più. Negli anni in cui la destra sostiene che le proprie opinioni vengano censurate da una cabala woke, Trump ha saputo costruirsi al contrario una figura da jolly politico. Adorato dai fondamentalisti religiosi, Trump è percepito come marcatamente diverso dal resto del partito sul diritto all’aborto; nonostante i continui dog whistle razzisti, il suo consenso presso gli uomini afroamericani e ispanici continua a crescere; e dopotutto per gli elettori più giovani — anche quelli appartenenti a minoranze — l’aggressività e il razzismo di Trump sono completamente normalizzati, è semplicemente come parla la destra, e si augurano che il resto delle ricette dei repubblicani siano migliori di quelle di Biden.
Parte della riuscita di questa operazione politica è dovuta alla personalità e al personaggio di Trump, che tanti trovano ilare e irriverente. Ma altrettanto importante è il nuovo ruolo dei repubblicani, che sono riusciti a trasformarsi nel partito che combatte contro l’establishment, anche se sostenuto e composto da milionari, imprenditori, alta borghesia. Questo nuovo profilo — che spesso coniuga idee teocratiche, autoritarie, misogine — è stato visto come comunque preferibile da una parte consistente dell’elettorato che con una presidenza Trump sarà più esposto alle politiche radicali e reazionarie della destra statunitense. Insomma, se i democratici sono quelli che ti dicono che l’economia va alla grande quando stai in bolletta, i repubblicani sono diventati quelli che ti dicono che il paese è in declino e va salvato – che cosa si voglia fare dopo le elezioni, per molti, evidentemente, è meno importante. Per tanti, contava soltanto che le cose cambiassero, e così Trump, incredibilmente, è diventato il candidato del cambiamento.
Questo cambiamento passa su due binari — da una parte c’è la progressiva normalizzazione degli aspetti più estremisti di Trump, ignorati da una popolazione sfibrata e impoverita, dall’altra c’è la progressiva radicalizzazione della società stessa. Quello che ha fatto vincere Trump è il primo binario, a radicalizzazione ancora non iniziata: i referendum per il diritto all’aborto hanno mostrato l’esistenza di una coalizione più ampia, forse single issue o forse semplicemente meno politicizzata sugli altri temi, che però non ha sostenuto Harris. Alexandria Ocasio-Cortez e gli altri membri della “Squad,” l’ala progressista del Partito democratico, sono stati rieletti. Diversi candidati democratici per il Senato, perfino quelli che poi hanno comunque perso, hanno staccato anche con un buon margine Harris. Costruire una narrazione nazionale uniforme non si può fare, come chi vuole che i democratici abbiano perso le elezioni perché erano troppo “woke” — in Delaware, dove Harris è arrivata prima, è stata eletta Sarah McBride, che diventerà la prima parlamentare dichiaratamente transgender della storia statunitense.
Così, mentre sempre più elettori “si abituano” alla retorica di Trump, tanti altri finiscono in tunnel di radicalizzazione profonda, che passa attraverso propaganda di stampo nazionalista cristiano, come il Project 2025 della Heritage Foudation. Sui social network, nelle ore successive all’annuncio della vittoria di Trump, c’è stata una vera e propria esplosione di gioia fascista e misogina incontrollata: l’influencer neonazista incel Nicholas Fuentes ha commentato su X, “Your body, my choice. Forever”. Andrew Tate ha condiviso un post in cui una utente di X chiedeva che fosse eletto “un presidente che non sia uno stupratore,” commentando: “Richiesta respinta.” Il copione è lo stesso del 2016 ma questa volta non sono dei marginali a festeggiare, ma alcune delle voci più ascoltate nel paese.
Questa polarizzazione non potrà stabilizzarsi da qui a gennaio, quando Trump si insedierà di nuovo alla Casa bianca. Nel 2017, Trump iniziò la sua prima presidenza con una scarica di decreti esecutivi, concentrati nel distruggere le riforme obamiane e a implementare il famigerato “Muslim ban”. Questa volta la misura che dovrebbe marchiare l’inizio della sua amministrazione potrebbero essere le deportazioni di massa di persone senza documenti — una proposta crudele ma che ha fatto salire le azioni delle aziende che amministrano le prigioni private statunitensi. Sarà invece più facile minare le politiche di contrasto alla crisi climatica, un altro obiettivo ripetuto spesso in queste settimane, promettendo un ritorno al drill, drill, drill: con il controllo di entrambe le camere del Congresso i repubblicani potrebbero azzerare tutte le politiche climatiche di Biden, mettendo a rischio l’efficacia di qualsiasi impegno globale per evitare la catastrofe climatica.
Come reagiranno le persone che hanno votato Trump senza aderire pienamente alla sua linea estremista, così come la capacità di organizzazione delle forze di opposizione ci diranno rapidamente che forma prenderanno gli Stati Uniti nei prossimi anni – 4 o 40 che siano, come Caville sognava per i democratici. Oggi, il paese più ricco del mondo è più vicino che mai a sprofondare nel fascismo non con un colpo di stato o con la vittoria di un autocrate di provenienza militare, ma grazie alla progressiva normalizzazione dell’estremismo di destra, che ha poi impedito alla popolazione di riuscire anche solo ad immaginare quanto male potrebbero andare le cose — quanto il loro paese potrebbe cambiare nel giro di pochi mesi, una firma con lo Sharpie alla volta.