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Da decenni, l’America Latina alimenta l’immaginario del mondo occidentale che però non sembra capire davvero idee e modi della politica sudamericana, ridotta a qualcosa di esotico e lontano. Così facendo, però, diventa impossibile interpretare fenomeni sociali che affondano le proprie radici in secoli di lotte, aspirazioni secolari, repressioni durissime e continue contraddizioni. Il momento attuale della Colombia, divisa tra tentativi di riforma e lo scontro aperto con Donald Trump, sintetizza alla perfezione questa tendenza . Ce ne parla Nicolás Estepa Suárez, storico esperto di violenza politica in Colombia.

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Negli anni Settanta, dopo la sconfitta del movimento nazional-populista e l’instaurazione di una dittatura militare in Bolivia, il giovane intellettuale René Zavaleta Mercado aderì al Partito comunista e si mise ad analizzare le cause del naufragio rivoluzionario. Sorprendentemente, Zavaleta affermò che una caduta simile non annunciava la fine del movimento, bensì un’apertura alle possibilità storiche del proletariato; da questo laboratorio concettuale nacque l’idea dell’abigarramiento, nozione che indica la natura eterogenea e disarmonica tipica della sinistra sudamericana. Mezzo secolo prima, in Perù, un’altra rottura aveva segnato il destino del pensiero socialista latinoamericano, quando l’indigenista marxista José Carlos Mariátegui aveva fondato il Partito socialista peruviano, avvicinandosi alla Terza Internazionale di Lenin. Il passaggio dal nazionalismo al marxismo fece emergere come elemento decisivo la rivalutazione delle “eterogeneità storiche” – un’idea ispirata dalla pubblicazione di testi inediti di Marx ed Engels e in particolare di quelli dedicati alle comuni rurali russe. Insomma, alla luce degli eventi e dei precedenti storici, non sembra una coincidenza che il 23 ottobre 2025 il ministro della giustizia del presidente colombiano Gustavo Petro – il primo capo di Stato di sinistra nella storia recente del paese – abbia convocato un’Assemblea costituente fondata proprio sulla proposta di mettere in piedi una “rivoluzione agraria”

Il governo di Gustavo Petro sta attraversando uno dei momenti più complessi dalla sua ascesa al potere nel 2022, segnato da una forte polarizzazione, dalla perdita del sostegno del parlamento e da un crescente scontro con le opposizioni di destra e di estrema destra. La sua scommessa di lanciare un’Assemblea nazionale costituente e una profonda riforma agraria si inserisce in un contesto di stallo istituzionale e di malcontento sociale, in cui il presidente sostiene che le strutture dello Stato ostacolano i cambiamenti necessari per consolidare la pace e la giustizia sociale. Dal palazzo presidenziale, Petro ha ribadito che il suo obiettivo non è di perpetuare il proprio potere, ma di “compiere il mandato del popolo” che chiede trasformazioni rimaste in sospeso sin dalla costituzione del 1991. Tuttavia, la sua proposta arriva in mezzo a tensioni politiche interne, critiche internazionali e a un crescente scontro con i leader dell’opposizione, sia locali che stranieri. 

Recentemente, il presidente è stato protagonista di una polemica con il presidente statunitense Donald Trump, che ha accusato di “alimentare discorsi di odio e autoritarismo”, provocando reazioni virulente da parte dei settori conservatori di entrambi i paesi e rafforzando l’idea di uno scontro ideologico più ampio nel continente tra populismi di sinistra e di destra. Sul piano interno, la destra ne denuncia la deriva “populista” e “autoritaria”, mentre l’estrema destra locale ha trovato nel dibattito sulla riforma agraria e sulla redistribuzione della proprietà rurale un terreno fertile per mobilitare le proprie basi, accusando il governo di attentare alla proprietà privata e di destabilizzare l’ordine istituzionale. Ciononostante, il presidente insiste sul fatto che la sua proposta mira a una ridefinizione della proprietà e del possesso della terra, per correggere le storiche disuguaglianze della campagna colombiana e garantirne l’accesso ai contadini e alle comunità sfollate. Questa iniziativa si completa con riforme in materia di istruzione, sanità, giustizia e partecipazione politica, che il capo dello Stato intende elevare a rango costituzionale attraverso l’Assemblea Costituente.

Questa iniziativa, però, non nasce in contraddizione con la storica influenza americana sul paese ma è un prodotto diretto della stessa, ormai ridottasi nella forma più reazionaria e grottesca in Donald Trump, che aveva definito Petro un “barone del narcotraffico” e il suo governo come la base del “terrorismo narco-socialista”, in una vera e propria manifestazione di nevrosi imperiale che al contempo è causa della riforma di Petro e se ne vuole limite. Dopotutto, è paradossale per gli Stati Uniti che certe rivendicazioni provengano dalla propria exclave per eccellenza nel Sud del mondo, il cosiddetto “Israele sudamericano”, e ancora di più che queste siano state formulate a partire da Shanghai, il centro economico della Repubblica Popolare Cinese. Da parte sua, la Colombia – paese in cui furono costruiti campi di concentramento con tanto di forni crematori per far sparire i militanti del movimento socialista Unión Patriótica in quello che è stato definito come un vero e proprio genocidio – dichiara oggi, in un’inversione dialettica al limite del comico, che la Rivoluzione cinese fu il processo storico più rilevante del XX secolo, avendo mostrato come “un esercito di contadini poveri può cambiare la terra, spezzare le proprie catene e decidere di essere libero”.

Il nothing ever happens cessa di essere una rappresentazione vuota e, come nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, la farsa si converte in simbolo puramente retorico che anticipa le condizioni dell’azione. I costumi irrigiditi e i discorsi apologetici non fanno altro che annunciare un punto di non ritorno nella storia del paese. Marx lo indicò con precisione: il proletariato non è un’immagine borghese e la sua rivoluzione non può che avanzare in risposta agli eventi. E quando la borghesia si risveglia, lo spettro è ancora lì. Mentre alcuni falsificano la storia, altri la riconoscono. Nel mondo del capitale non sembra più esserci spazio per le rivendicazioni collettive, né per le grandi mobilitazioni. Se l’Europa è ormai diventata una terra di consumo e compiacenza in cui il capitalismo verde ha sostituito la lotta per la coscienza, al contrario le società rurali prendono in mano il timone della narrazione del proprio passato e possono ridefinirne liberamente il significato: invocano vecchie sconfitte non per ciò che furono ma per quello che rappresentano oggi. Una dichiarazione quasi ingenua, proveniente da un ministro colombiano la cui concezione liberale del mondo lo rende cieco, finisce per essere l’annuncio delle lotte che vengono – e che non se ne sono mai andate. Così, il governo evoca lo spirito del Grande balzo in avanti come modello ma, nel districare le catene, le espone all’aria aperta; e l’aria, inevitabilmente, le corrode. Non sorprende che, nel suo account su X, Petro abbia invocato simultaneamente a una costituente e a “prepararsi contro l’invasore”, con allusioni esplicite alla guerra del Vietnam.

Dopotutto, come è noto, le ingerenze statunitensi nella regione hanno una lunga storia e si sono lasciate dietro una lunga scia di sangue – ma forse non ne sono chiare le dinamiche. Nel 2003, il comandante dell’esercito colombiano Lino Sánchez fu condannato per la sua collaborazione con i paramilitari anticomunisti delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) nella pianificazione ed esecuzione del massacro di Mapiripán, avvenuto il 12 luglio 1997. Indagini condotte da giornalisti indipendenti colombiani e statunitensi rivelarono la partecipazione indiretta degli Stati Uniti alla strage e, su pressione del senatore democratico Patrick Leahy, si ammise che i Berretti Verdi americani avevano addestrato il commando di Sánchez almeno fino alla fine di giugno; insomma, sia l’esercito colombiano sia i paramilitari ricevettero l’appoggio delle forze armate statunitensi. I procuratori colombiani segnalarono che questi corsi, tenuti con il pretesto della “lotta al narcotraffico”, servivano in realtà ad insegnare tattiche di controguerriglia. I Navy SEAL furono stanziati a pochi chilometri da Mapiripán fino all’inizio del 1998 e si arrivò persino a provare la presenza di alti comandi militari statunitensi nei giorni del massacro, con il pretesto di chiudere i corsi di addestramento, nonché la piena complicità del futuro presidente del paese Álvaro Uribe Vélez. 

Washington si consolidò come arbitro del conflitto, iniettandovi capitali e armi e dimostrando che la seduzione finanziaria convive sempre con la violenza. Neanche i gesti più ambiziosi e inverosimili – come il viaggio nella giungla che fece nel 1999 il presidente della Borsa di New York Richard Grasso per trattare personalmente con le FARC – possono alterare le linee di potere che decidono chi parla e chi ascolta, chi sopravvive e chi impone la propria legge. La promessa di democratizzare il capitalismo, tipica della “fine della storia”, si è ridotta a conti fatti ad una strategia militare violenta e coercitiva e la pace tramite il mercato si rivelò nella sua forma più “pura” di pace mediante la forza. È così che, a partire dal 2005, il conflitto colombiano venne inglobato nella fredda logica della sicurezza emisferica, della lotta contro il terrorismo e il narcotraffico, dove gli eserciti del capitale subappaltavano la propria violenza a imprese private che offrivano logistica e supporto in combattimento. I documenti declassificati della CIA rivelano che il già citato Uribe Vélez e il leader delle AUC Carlos Castaño erano a capo di una rete di narcotraffico che si estendeva come un’ombra sulle istituzioni colombiane, controllando lo Stato e blindando il proprio dominio con la violenza, in modo che il narcostato fosse la strategia degli Stati Uniti per mantenere il proprio avamposto in accordo con le élite locali.

Se però Castaño avrebbe presto trovato la morte in circostanze ancora oscure, Uribe arrivò alla presidenza e trasformò, col beneplacito di Washington, lo Stato neoliberale in un sistema al servizio dei paramilitari con il pretesto della lotta anticomunista e contro-insurrezionale che giustificava – e ancora giustifica – l’intervento straniero e il mantenimento di un ordine sociale diseguale. Così, l’alba del secolo si trasformò in una farsa di potere, dove violenza e capitale si intrecciano sotto l’etichetta di “sicurezza democratica”. Il legame si è mantenuto intatto nel tempo: nel 2024, l’ambasciatore statunitense in Colombia ha diffuso sul proprio account X un comunicato per chiedere ad alcuni politici colombiani di cessare le loro ingerenze nelle elezioni presidenziali statunitensi. In particolare, sono i rappresentanti del partito conservatore Centro Democrático a sostenere attivamente Donald Trump, arrivando persino a generare movimenti di capitali economici ed elettorali tra la popolazione colombiana e latina in Florida. E non è un caso che proprio questo partito sia stato identificato come la continuazione dei progetti oligarchici di Uribe Vélez, fondati sulla centralità del narcotraffico e delle attività paramilitari che lo stesso Trump ha elogiato in varie occasioni.

È evidente in questo contesto come non solo il governo di Gustavo Petro ma l’intera società colombiana si trovino in una situazione assolutamente controcorrente rispetto all’attuale fase politica reazionaria a livello globale, ma anche rispetto alla propria storia segnata da continue controrivoluzioni riuscite. Da ciò si comprende quindi perché il paese sia finito nel mirino degli statunitensi, che, spaventati, vedono nella difesa di Gaza e nella proposta di una costituente sotto forma di “rivoluzione agraria”, il risveglio di vecchi spettri che non hanno mai cessato di manifestarsi e che formano l’immaginario popolare. Come sottolineò lo storico Eric Hobsbawm, i contadini colombiani vantano una lunga storia di sollevazioni, spesso dimenticate, che concorrono a creare tradizioni mai scomparse e che vanno anche oltre l’alba del socialismo. Perciò il maoismo nel paese non fu una ricezione ingenua di idee lontane ma un ritorno ponderato ad una storia di lotte per la terra e l’uguaglianza – e non è un caso che Eutiquio Timoté, primo candidato presidenziale del Partito comunista colombiano negli anni ‘30, sia stato un indigeno di etnia Pijao.

Il narcotraffico opera in risposta a tutto questo come un centro di potere reazionario, strutturato secondo i criteri del modo di dominazione oligarchico che storicamente ha determinato i rapporti di potere in America Latina. Una dinamica che, come ha sottolineato lo storico Marco Palacios sulla scia di Gramsci, si configura come un tentativo di ricomposizione sociale da parte delle classi dominanti. Secondo questa logica, allora, i cartelli della droga non esistono fuori dalle logiche di potere istituzionali e gli Stati Uniti tentano semplicemente di consolidare la propria influenza nella regione, trasformandola in un laboratorio geopolitico, dove il modello del narcostato coloniale serve come meccanismo di controllo politico, economico e territoriale. Questo schema, paragonabile in certi aspetti alle dinamiche imposte a Gaza, non solo rafforza le sovranità nazionali come identità in reciproca contrapposizione, ma promuove la balcanizzazione dell’America del Sud, indebolendo qualsiasi progetto autonomo e sinceramente internazionalista che aspiri a un’integrazione regionale-globale.

In questo contesto, la figura di Gustavo Petro rappresenta una rottura con quell’ordine prestabilito. La sua proposta politica, che intende rifondare l’“ordine basato sulle regole” del sistema globale e usare la giustizia internazionale – incarnata nella causa palestinese – come bandiera etica e diplomatica, sfida direttamente gli interessi egemonici statunitensi. Perciò, quello che non si perdona a Petro non è solo il suo discorso, ma il tentativo di costruire un nuovo quadro di potere fondato sull’autodeterminazione, l’equità e la difesa dei popoli di fronte ai meccanismi coloniali contemporanei. Tra il 1999 e il 2025, il mondo è passato dalla globalizzazione neoliberale ad un multipolarismo conflittuale, ma entrambi i modelli condividono la stessa origine e lo stesso fallimento: l’impossibilità di superare le logiche del neoliberismo. Il primo ha mancato le proprie promesse, l’altro non è nemmeno riuscito ad immaginare un’alternativa coerente finendo per riprodurre la competizione geoeconomica sotto nuove forme. Così, sia la “pace tramite l’investimento” sia la “pace tramite la sovranità”, si rivelano come espressioni fallite di un sistema globale che continua a subordinare la giustizia e l’autodeterminazione al (dis)ordine neoliberale, regolato dalle stesse regole che garantiscono la persistenza delle dinamiche del capitale.

Ora, dalla rivoluzione delle pianure orientali fino allo sterminio dell’Unione Patriottica, il contadinato colombiano, agente ed elemento sacrificale del conflitto generato dall’espansione del capitale in Colombia a partire dagli anni ’70, solleva un movimento che cerca di riattivare forze sociali e desideri, non solo attraverso rivendicazioni memoriali ma con azioni di lotta concreta in un incontro di tempi multipli, tutto e niente allo stesso tempo. Sebbene la poca perspicacia dei socialdemocratici e dei liberali che compongono la maggioranza della coalizione di governo del petrismo, il Pacto Historico, impedisca loro di cogliere ciò che le loro bandiere possono significare per l’immaginario di massa, resta il fatto che in Colombia il XXI secolo debba ancora effettivamente iniziare, rendendo così finalmente possibile un vero confronto per l’egemonia.

Di fronte alle fantasie hollywoodiane, ai miti e alle epopee, conta soltanto l’ottimismo dell’azione, e vediamo l’eroe del futurismo contemporaneo, Paul Atreides in Dune, voltarsi e fuggire spaventato di fronte al rifiuto delle stesse masse che credeva già conquistate. Ma questo laboratorio di fine secolo è anche uno specchio dell’abigarramiento dei tempi che lo precedono e che lo seguiranno. La disputa Petro-Trump, allora, non è un fatto isolato, ma la metafora di come le strutture del capitale tentino di incorporare tutto, persino l’insorgenza storica, e di come i progetti rivoluzionari siano costretti a imparare un nuovo linguaggio pur mantenendo intatto il proprio nucleo – la disputa per la terra, la memoria e l’autonomia. Il conflitto persiste, ne cambia solo il volto.


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