Israele e Hamas sembrano essersi accordati per il cessate il fuoco secondo i termini proposti da Donald Trump, una tregua venduta come premessa di una pace duratura che però ha già suscitato numerose critiche da parte degli osservatori. Tra i numerosi problemi che non vengono toccati dal progetto ci sono lo status dei coloni in Cisgiordania e l’incontrollata militarizzazione della società israeliana, ormai pienamente pervasa dalla violenza e sempre più bendisposta a metterla in atto. Matilde Moro – giornalista freelance – è andata a Gerusalemme per seguire la situazione nel paese.
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Nel centro del quartiere cristiano di Gerusalemme, proprio dietro a Jaffa Street, non lontano dalla città vecchia, si apre tra le vie una piccola piazzetta. È piena di locali e ristoranti con i tavolini all’aperto e a guardarsi intorno sembra di essere in una qualsiasi città europea. Da Harvey’s Burger Shack, come in tutto il resto del piazzale, sono seduti tre ragazzi a un tavolino. Mangiano un panino, bevono una birra e ridono tra loro. Avranno diciotto anni e somigliano in tutto e per tutto a tre diciottenni di quelli che si potrebbero vedere a Roma, Parigi o Madrid, se solo non fosse per i giganteschi M16 che portano a tracolla e tengono appoggiati sulle gambe senza posarli mai, nemmeno per mangiare, con la naturalezza con cui si potrebbe indossare un marsupio. Poco più in là, su Jaffa Street, passano una quindicina di ragazzi e ragazze, sempre giovanissimi, alcuni in abiti civili e altri militari. Cantano, gridano, sventolano pistole e fucili. È una scena che ben rispecchia il rapporto della società israeliana con le armi, sempre visibili ovunque e portate con disinvoltura, dai giovani di Gerusalemme come dai coloni nelle aree rurali. Un rapporto che, come si può serenamente immaginare, è diventato ancora più morboso da qualche anno a questa parte.
Solo nelle prime sei settimane dopo il 7 ottobre 2023 sono arrivate all’amministrazione pubblica israeliana più di 236.000 richieste di porto d’armi, con un tasso giornaliero di circa 1.700 permessi rilasciati – pari al numero complessivo di quelli concessi negli ultimi vent’anni. Tutto in regola secondo il governo, tanto che a marzo 2024 il ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir si è congratulato pubblicamente per il raggiungimento dei 100.000 civili armati dall’ottobre del 2023. Da quel momento, è consentito ai cittadini israeliani di girare armati ovunque, perfino all’università. Per capire che cosa possa significare tutto questo per la popolazione arabo-israeliana, ne ho parlato con una studentessa, la ventitreenne Qamar, una palestinese del ’48 da poco laureatasi all’Università di Gerusalemme: “ero l’unica palestinese del mio corso, dove ho dovuto frequentare un anno in più per imparare l’ebraico, anche se già lo parlavo,” mi racconta una sera mentre ceniamo in una terrazza con vista sulla città vecchia a pochi passi dalla sua ex università, “dopo il 7 ottobre quasi tutti i miei compagni di corso israeliani hanno iniziato a venire a scuola armati, spesso con le pistole infilate nelle tasche dei pantaloni, è una cosa a cui non ci si abitua facilmente”.
Anche nei Territori Occupati a sud della Cisgiordania vivere con un’arma puntata addosso è diventata la normalità, mentre la violenza non fa che aumentare. Sono più di vent’anni che l’Occupazione israeliana fa di tutto per rendere la vita impossibile ai palestinesi che vivono in area C – ovvero, quella sottoposta al controllo civile e militare israeliano. Eppure, dopo il 7 ottobre, la situazione è ulteriormente peggiorata, arrivando ad episodi come quello di Sheikh Said Al-Amur, colpito alla gamba da una pallottola a espansione sparata dal responsabile della sicurezza della vicina colonia di Avigayl. A Sheikh Said è poi stata amputata la gamba. O ancora quello dell’assassinio di Awda Hathaleen, giovane insegnante di inglese e attivista palestinese ucciso con un colpo di pistola dal colono Yinon Levi mentre filmava la distruzione delle tubature dell’acqua del suo villaggio. Dopo l’uccisione di Hathaleen, i coloni passeggiano quotidianamente armati in mezzo al suo villaggio, spingendo le carrozzine dei bambini con gli M16 a tracolla.
Allo stesso modo, è sempre più comune vedere in queste zone della Cisgiordania coloni minorenni, qualche volta ragazzini di appena dodici o tredici anni, girare armati con le greggi: “l’utilizzo dei bambini coloni è sempre più comune” mi spiega Pablo, attivista di Mediterranea Saving Humans, che incontro in Masafer Yatta, una regione collinare a sud della città di Hebron (o, in arabo, Al Khalil). “I coloni mandano avanti i bambini perché non sono punibili dalla legge israeliana, strumentalizzandoli e compiendo di fatto anche una violazione del loro diritto all’infanzia”. D’altra parte, da quando è in carica, Ben-Gvir ha distribuito più di 120.000 armi da fuoco, compresi fucili d’assalto, a “squadre civili di sicurezza” composte da coloni volontari, in un crescente clima di normalizzazione della violenza che sta permeando ogni ambito della società – e si potrebbe ricordare a questo proposito che il portavoce del ministro, in occasione della festa del Purim, ha mascherato il proprio figlio proprio da Ben-Gvir, con tanto di pistola alla mano.
In un contesto sociale del genere, insomma, non sorprende troppo incontrare in una domenica sera qualunque un gruppo di giovani armati ed esaltati che gridano per le strade di Gerusalemme. Oggi però quei fucili assumono un’aria ancora più inquietante del solito. È il 7 settembre e verso le 11 di mattina, pochi chilometri più a nord, a Ramot Junction, due ragazzi palestinesi sono saliti su un autobus di linea, il numero 62, e hanno aperto il fuoco sulla folla causando sei vittime e una decina di feriti. I due sono a loro volta stati “neutralizzati” – per usare la terminologia adottata nella prima nota diffusa dal governo israeliano – da un militare fuori servizio e un civile che si trovavano, armati, sulla scena, e che hanno subito risposto al fuoco. L’identità dei due assalitori palestinesi viene diffusa quasi immediatamente: sono Mohammad Taha, 21 anni, e Muthanna Omar, 20 anni, e vengono da due villaggi della Cisgiordania che si trovano poco distante, Al-Qubeiba e Qatanna. Hanno la stessa età dei giovani civili con i fucili imbracciati a Gerusalemme, vivono e probabilmente hanno vissuto per tutta la loro vita a pochissimi chilometri di distanza. Anche se Hamas si complimenta quasi subito per l’azione, hanno agito da soli, non erano affiliati al movimento islamista né ad alcuna altra organizzazione. Le reazioni da parte del governo sono immediate e prevedibili: si parla subito di vendetta, rappresaglia, lotta per sconfiggere il terrorismo.
Secondo Marco Lombardi, professore ordinario di sociologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed esperto di sicurezza e terrorismo, con cui ho parlato a poche ore dall’attentato, è la tempesta perfetta: “la vendetta è una spinta unificatrice” . È un principio semplice, che però spiega con sufficiente chiarezza il meccanismo di costruzione e mantenimento del consenso tra la popolazione israeliana dal 7 ottobre in avanti. Dall’esterno tendiamo a valutare quanto accade in Medio oriente con un approccio quasi esclusivamente analitico, finendo così per sottovalutare sistematicamente la dimensione della reazione emotiva della popolazione, un elemento forse ancora più pericoloso di qualsiasi piano razionale o strategico.
La stessa componente emotiva che alimenta in maniera profonda il circolo della violenza così come la continuità del consenso israeliano: “Noi leggiamo quello che sta accadendo in termini politici e quindi tendenzialmente razionali, quando in realtà basta parlare con qualsiasi israeliano, a prescindere dalla sua parte o partecipazione politica, per rendersi conto che da quello che è successo il 7 ottobre non ne sono ancora usciti. Parlando con le persone e stando qui ci si rende subito conto che è un paese piccolo per quanto riguarda la dimensione, poco numeroso per quanto riguarda le persone, con un’identità fondata sulla storia comune, un’identità fortemente etnica e religiosa; si capisce quanto profondamente, per queste ragioni, tutti qui vivano i mille morti del massacro del 7 ottobre come una perdita familiare”. Questa carica affettiva ed emotiva, unita alla chiamata alla vendetta, non può che continuare ad alimentare un sistema in cui la sicurezza può essere solo un’illusione, nel migliore dei casi, o un’argomentazione propagandistica, nel più realistico.
Ne è sicuro Yair Dvir, portavoce della Ong israeliana B’Tselem, che da decenni si occupa del monitoraggio dello stato dei diritti della popolazione palestinese nei Territori Occupati. Quando apre la porta del suo ufficio, a sud di Gerusalemme, è primo pomeriggio e dell’attentato non si sa ancora molto, mi chiede che aria si respira in città, se il traffico è già bloccato. Abituato a leggere con precisione i segnali che il governo israeliano manda alla popolazione, prevede con esattezza quello che succederà: “sappiamo tutti che nel momento in cui ci sono degli atti di resistenza armata Israele li usa per sostenere la narrazione dell’autodifesa, e per promuovere ulteriormente il loro obiettivo di ultimare la pulizia etnica in Cisgiordania, lo stiamo vedendo già dai primi commenti”.
L’obiettivo è l’accelerazione di un processo in atto da decenni, espresso chiaramente dal ministro delle finanze Bezalel Smotrich il 3 settembre, in occasione della presentazione del piano di annessione della Cisgiordania: “il massimo della terra, il minimo della popolazione”. Dvir lo spiega chiaramente, violenza chiama violenza, e dalle politiche israeliane, tese in maniera sempre più palese e dichiarata alla cancellazione del popolo palestinese, l’unica risposta che ci si può aspettare è altra violenza ad una intensità inimmaginabile, in un ciclo che non sembra destinato a fermarsi. “L’unico modo per creare un senso di sicurezza per tutte le persone che vivono qui, ebrei, palestinesi e tutti gli altri, non è quello di intensificare l’occupazione o la violenza, come invece accadrà dopo oggi, ma quello di creare un sistema basato sulla giustizia, la libertà e l’uguaglianza”. Un principio così banale, la cui attuazione sembra però tanto lontana da essere irraggiungibile. Invece, “la violenza genera solo violenza” – usa proprio questa formula, Dvir, la stessa che si potrebbe utilizzare nel cortile di una scuola materna parlando a dei bambini, ma che i governi più potenti del mondo, in questo momento, sembrano determinati a ignorare.
Yair si prende anche il tempo, pur nella concitazione e nell’incertezza del momento, per fare una doverosa riflessione sull’uso delle parole: “Noi qui a B’Tselem facciamo attenzione a non utilizzare il termine ‘terrorismo’, usiamo ‘violazioni dei diritti umani’, e Israele sta commettendo la più grave violazione che degli esseri umani possano commettere: un genocidio a Gaza, che è il crimine peggiore, e poi anni e anni di occupazione e violenze qui in Cisgiordania”. È un aspetto importante, specie in un contesto in cui una sola e semplice parola, terrorismo, sembra ancora sufficiente, a quasi due anni di distanza dall’inizio del genocidio, per giustificare lo sterminio sistematico di una intera popolazione. Mentre lascio Dvir e torno verso il centro di Gerusalemme, questo ragionamento mi rimane appiccicato addosso. Continuo a pensarci mentre mi riavvicino alla città vecchia in mezzo a un traffico che si fa sempre più lento e pesante e si diffonde la notizia che hanno chiuso alcune delle principali vie di accesso e di uscita lungo il confine, così come il confine di Allenby da cui sarei dovuta passare di lì a poche ore.
Se riconosciamo che sono le parole a costruire la realtà, l’uso che ne facciamo diventa una questione di responsabilità. Le parole che usiamo e le storie che ci raccontiamo hanno un ruolo e un peso essenziali anche in questo momento e in questo posto, nonostante raramente siano al centro dell’attenzione. Così continua a sembrarmi anche più tardi, mentre sono seduta da Harvey’s Burger Shack a mangiare un panino dopo una lunga giornata di cui cerco faticosamente di tirare le fila, con gli occhi puntati sugli M15 esibiti con assurda normalità al tavolino di fronte al mio. Non vale solo qui, però. Mentre mi guardo attorno e mi chiedo quali siano le storie che i ragazzi e le ragazze seduti accanto a me scelgono di raccontarsi, ho la sensazione sempre più forte di guardare in uno specchio. Mi chiedo allora con quanta determinazione ci aggrappiamo anche noi alle stesse storie, per continuare a vivere nella nostra normalità con indifferenza, mentre guerra e disuguaglianze si impongono in maniera sempre più inevitabile e straziante davanti ai nostri occhi. Non cambia poi molto, forse sono solo diverse espressioni delle intollerabili disparità prodotte dallo stesso sistema. Penso, di nuovo in maniera scontata, alla banalità del male e all’abisso in cui conduce, che mi sembra ora così chiaro davanti a me. Allora, forse, la responsabilità che dovremmo assumerci è quella di non rifiutare questa visione, di guardare invece in questo abisso e riconoscerci.