Quasi la stessa cosa. Dopo tre anni di pandemia la Cina ha riaperto le sue porte al mondo, gettandosi alle spalle i lockdown e tornando a rincorrere il sogno del socialismo con caratteristiche cinesi. Per molti aspetti la Repubblica popolare nell’era post pandemica è ancora il Paese delle contraddizioni: il vecchio e il nuovo dei palazzi, il nazionalismo dei consumi e la voglia di commercio internazionale, i motorini elettrici per un futuro sostenibile e l’aria condizionata a palla; le Tesla ultimo modello e le nonnine che raccolgono bottiglie di plastica per rivenderle a pochi centesimi. Tutto sembra ricordare il 2019. Sembra.
Bastano pochi dettagli e molti non detti per riconoscere un Paese che in questi anni di isolamento è stato riplasmato dalle pressioni di un’economia che rallenta ma non si ferma, e da riforme tanto puntuali quanto pervasive da parte di un governo sempre più presente in ogni angolo della società. Lo si legge nei tornelli di ingresso a università e appartamenti con il riconoscimento facciale, introdotti durante le restrizioni della politica Zero Covid e mai rimossi. Nella ormai totale assenza di contanti – già nel 2020 erano pochi ma adesso chiunque, anche in piccoli villaggi, strabuzza gli occhi alla vista delle banconote raffiguranti il presidente Mao. Nella scomparsa fascinazione per lo straniero, che sì, fa strano rivedere dopo così tanto tempo, ma non suscita più la stessa curiosità e reverenza di una volta.
Soprattutto, a essere cambiate sembrano essere le aspettative delle persone nei confronti dello Stato. Ora che la stragrande maggioranza dei cittadini cinesi può permettersi uno stile di vita confortevole e l’obiettivo di Deng Xiaoping di “lasciare che sia prima una parte della popolazione ad arricchirsi” può dirsi raggiunto, e dopo aver resistito al “nemico” del contagio, i cittadini si aspettano di vedere ripagati i propri sacrifici. A questo proposito, nel parlare del futuro e del paragone tra Cina e Occidente il termine che emerge di continuo è fuli xitong (福利系统), il welfare, il sistema di previdenza sociale. Quello che, a detta di molti, in Cina non ha retto negli ultimi anni, e che invece rimane forse l’ultimo oggetto di ammirazione dei cinesi verso i Paesi occidentali.
Del resto del mondo però, si parla poco. Ci sono sfide più pressanti a cui pensare, problemi che toccano da vicino le persone e hanno la priorità: la disoccupazione giovanile, il costo delle case, i corsi extrascolastici per i bambini. Poco futuro e tanto presente. Ai piani a lungo termine pensa il Partito comunista cinese, mentre la gente comune, come mi ricorda un tassista di Wenzhou, pensa a “mettere il riso in tavola” e tanto basta.
“Si prega di non sputare”. Un cartello a caratteri cubitali lo ricorda ai passeggeri della metropolitana di Hangzhou. Tredici linee di metro dai vagoni completamente sterilizzati, ma, si sa, le cattive abitudini sono dure a morire. Per tre estati non abbiamo fatto che parlare di Pechino e di Covid: di Wuhan prima, della Zero Covid e di Shanghai poi. Ma se qualcuno si risvegliasse improvvisamente nella Cina del 2023 dopo un lungo sonno, faticherebbe a trovare le tracce di questo sogno lucido condiviso. Qualche dispenser di disinfettante, uno sticker sbiadito per il distanziamento sociale. Gli unici a indossare ancora le mascherine sono i dipendenti di negozi e bar, ma anche chi ha un po’ di raffreddore. Non è una cosa di cui si parla volentieri, il Covid: è un sollievo poterlo dimenticare, ed è un privilegio poterlo ignorare. “I cinesi hanno una grande resilienza”, mi dice una professoressa di una prestigiosa università del sud della Cina. “Anche se da fuori sembra che non sia successo niente, nel nostro cuore la ferita è ancora aperta”.
Sono ancora pochi gli stranieri in Cina dopo l’esodo del 2020. Si tratta per lo più di studenti, anche se come ricordato di recente dall’Economist il fascino per lo studio della lingua cinese è calato drasticamente negli ultimi dieci anni. L’atteggiamento dei cinesi verso gli stranieri è sempre lo stesso: curioso, gentile, accogliente. Chi non vive nelle grandi città non vi è abituato, specie dopo il Covid. Ma qualcosa è decisamente cambiato: il mito dell’occidentale bianco sta forse volgendo al termine. Nella prima estate dopo le restrizioni pandemiche i turisti cinesi in giro per il mondo stanno avendo esperienze prettamente negative: la Cina è più sicura, dicono, mentre l’Europa pullula di ladruncoli e disservizi secondo quanto lamentato da tantissimi utenti sui social cinesi in questi mesi.
“Americana? O russa?”, mi viene invece chiesto qui. Seguito spesso da un “Meno male, gli Stati Uniti non ci piacciono”, ripetuto di continuo, senza richiesta. Gli Stati Uniti, c’era da aspettarselo, non piacciono; così come il Giappone che “inquina le acque di tutto il mondo”. Se parlando di politica interna bisogna camminare sui gusci d’uovo, chiacchierare del panorama internazionale è pratica ben accolta. “Dovete imparare a pensare con la vostra testa”, mi ammonisce uno “zio” [termine colloquiale per riferirsi a persone più grandi in Cina], “senza seguire gli Stati Uniti sulla guerra in Ucraina”. Tutti concordano che la posizione cinese sul conflitto tra Mosca e Kiev sia “quella giusta, la non interferenza”. Nelle librerie delle principali città l’unica biografia di un leader internazionale, oltre a quella del presidente cinese Xi Jinping, è quella di Vladimir Putin.
Lo scorso giugno in Cina il livello di disoccupazione tra i residenti dei centri urbani nella fascia di età tra 16 e 24 anni ha raggiunto il 21,3%. Il 15 agosto Pechino ha sospeso la pubblicazione delle statistiche sulla disoccupazione giovanile. La pressione sulle nuove generazioni è sempre stata alta, ma ha ormai raggiunto livelli inediti. C’è un senso generale di stanchezza e frustrazione che è impossibile non paragonare ad altre parti del mondo dove il mercato del lavoro è impreparato per accogliere le frotte di ragazzi qualificati che le università macinano ogni anno. In Cina si aggiungono le pressioni sociali delle famiglie, la cui spesa più ingente anche in tempo di risparmio rimane quella per l’educazione dei figli.
Trova un lavoro. Compra una casa. Compra una macchina. La trinità del sogno cinese è un modello poco attraente per Millennial e Gen Z cinesi e il sacrificio richiesto troppo grande e il risultato non garantito. Chi una volta si impegnava per essere ammesso nelle più prestigiose università del Paese oggi sogna un semestre all’estero, “per non pensare sempre e solo ai voti”, per fare come gli amici stranieri che “oltre allo studio fanno anche altre cose”. E se dopo gli studi non trovi lavoro, tenta la fortuna. Una curiosa novità nella Cina del 2023 sono infatti i banchetti per i biglietti della lotteria a ogni angolo delle città. Sono ovunque, e attirano soprattutto i giovani, mentre una volta erano appannaggio dei più anziani. Nel primo semestre di quest’anno gli introiti dalle vendite di biglietti della lotteria nazionale sono raddoppiati rispetto al 2022, raggiungendo la cifra record di 34 miliardi di euro.
Alla fine dei conti, tutto è cambiato e niente è diverso oggi in Cina. Si continua a correre, se pur a passo più moderato. Si continua a sorprendere, anche se con aspettative più alte. Si continua a innovare, ma tenendo sempre più isolato il resto del mondo. Si continua, come da etimologia, a considerarsi il Paese al centro del mondo per eccellenza.

Giornalista, editor di China Files e contributor del manifesto.