Il 16 febbraio 2024, esattamente una settimana prima del secondo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, il dissidente russo Alexey Navalny – prima militante nazionalista, poi blogger anticorruzione, infine principale alternativa populista al putinismo – è morto in carcere. La sua morte segna la fine di un’epoca per il regime e l’opposizione russi, e l’inizio di qualcosa di nuovo. Ne parla Giovanni Savino, ricercatore di Storia della Russia all’Università Federico II di Napoli.
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Il secondo anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina cade una settimana dopo la morte di Alexey Navalny, diventato nel corso degli anni Dieci la nemesi di Vladimir Putin. Come già accaduto in altri momenti, questioni interne e esterne si intersecano nella vita della Russia e diventano le une parti dell’altra, senza possibilità di poterle dividere: la guerra ha rappresentato un passaggio di qualità e quantità nella repressione delle opposizioni e al contempo molte delle modalità espresse nel contesto russo sono oggi presenti anche nella politica estera.
È impossibile comprendere cosa abbia rappresentato Alexey Navalny per la società russa senza porre l’accento sulla sua capacità di utilizzare internet e i social, diventando in questo un vero e proprio pioniere nel campo: il blog aperto su LiveJournal, popolare piattaforma di blogging della seconda metà degli anni Duemila, usando come avatar il kickboxer statunitense Eric Esch, diventa il punto di partenza per la sua ascesa a volto pubblico dell’opposizione al Cremlino, in un’epoca in cui le coalizioni anti-putiniane – dominate da personaggi come Garry Kasparov e Eduard Limonov – erano impegnate in una costruzione del dissenso in forme più “tradizionali”, tra conferenze stampa, denunce alla magistratura, e manifestazioni di piazza sempre più rituali. Navalny invece interagisce nello spazio della rete, commenta, litiga, promuove, crea egli stesso meme e frasi diventate celebri; oltre al blog è tra i primi a utilizzare YouTube per dare visibilità alle sue idee e attività. Quando è tra i promotori del movimento nazionalista Narod, tentativo poi naufragato di unire l’estrema destra e la xenofobia allora diffusa in una fascia della popolazione a rivendicazioni democratiche, il suo volto spigoloso diviene il veicolo delle rivendicazioni, nel famoso video in cui vestito da dentista parla di rimuovere le carie intendendo l’immigrazione illegale.
Ben presto sono però le inchieste sulla corruzione, tramite il progetto RosPil (da pilit’, verbo che indica l’arraffare), a diventare il suo vero marchio, assieme alla sua frase di saluto – “ciao, sono Navalny” – conosciuta in tutta la Russia. E a testimoniare ulteriormente l’efficacia del suo approccio basato sull’utilizzo degli spazi social è la campagna elettorale per il rinnovo della Duma nel 2011: lo slogan “votare contro il partito dei truffatori e dei ladri” è virale e in grado di mobilitare, dopo i brogli senza precedenti avvenuti in quell’occasione, centinaia di migliaia di russi nell’inverno fra 2011 e 2012.
È la viralità a rendere possibile l’allargamento del bacino d’ascolto e consenso, e crea una dinamica in grado di uscire fuori dai confini di internet – come dimostrato dalla sua candidatura a sindaco di Mosca nel 2013, quando, tra denunce di corruzione, posizioni duramente anti-immigrazione e programmi di sviluppo della capitale russa, gli appuntamenti dal vivo diventano la prosecuzione di quanto si discuteva online e viceversa, in una dialettica anche questa volta nuova per la politica russa. È l’abilità di dettare la propria agenda e di mettere al centro della discussione i propri temi con i propri tempi a essere la cifra di Navalny. È qualcosa di grosso, perché in Russia tale prerogativa è sempre stata ritenuta esclusivamente appartenente a Vladimir Putin. La cui reazione è stata sempre di non riconoscere il nemico: non vi sono dichiarazioni dove lo chiama per nome, un fatto spesso interpretato come spia di una sua paura, ma in realtà testimonianza dell’irritazione nei confronti di un cittadino comune in grado di rubargli la scena.
A segnare una ulteriore fase nella costruzione della figura di Navalny come leader antagonista di Putin è stata la preparazione della campagna per le presidenziali del 2018, a cui non viene ammesso. In quel contesto, però, diviene evidente un processo che sarà in effetti alla base della dura repressione subita successivamente, vale a dire l’apertura di comitati elettorali, ben presto diventati luoghi di incontro e organizzazione, in varie città della Russia: se una delle critiche più forti alla variegata opposizione russa è sempre stata quella di non riuscire ad uscire da Mosca, nel caso di Navalny e della Fondazione per la lotta alla corruzione (Fbk) è stata proprio l’attenzione riservata alla provincia a permettere l’estensione del proprio consenso, arrivando perfino a mettere su strutture in grado di agire autonomamente sul territorio per lotte locali di ogni tipo, da quelle ambientaliste a quelle sociali.
Un elemento a cui si presta poca attenzione è il cambiamento dei temi nella sua agenda politica man mano che cambiava la società russa. Navalny passa dal voler la chiusura dei confini agli immigrati dall’Asia Centrale, a promuovere manifestazioni contro la riforma delle pensioni del 2018, a mettere in discussione le privatizzazioni degli anni Novanta – non a torto viste come la causa diretta della costruzione di un sistema autoritario e oligarchico all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica. Navalny in questo ricorda esperienze appartenenti ad altri continenti e realtà, e per definirne le posizioni politiche probabilmente l’unica etichetta possibile è quella di populista, spogliata da ogni sua definizione polemica o dispregiativa; siamo davanti ad un populismo “puro”, semplicemente frutto del tentativo di essere sempre in sintonia con gli umori e le sensazioni della società russa.
Se già il tentativo di avvelenamento del 2020, in una Russia sconvolta dalla pandemia, era stato un segnale quantomeno evidente che si intendesse porre definitivamente fine alla sua carriera politica (e alla sua vita), è la guerra a cambiare in senso ancora più radicale, lo stato delle cose. In un paese dove già dal 2012 in poi, con il terzo mandato presidenziale di Putin, si erano progressivamente ridotti gli spazi democratici e d’informazione grazie ad un mix di nuove leggi, circolari del Ministero degli Interni e altre modalità informali di repressione, il 24 febbraio 2022 segna un ulteriore spartiacque. Nel giro di meno di dieci giorni, all’inizio di marzo, viene adottata la legge per il contrasto alle fake news e al vilipendio alle forze armate (poi esteso alle autorità), alla base di una ondata di repressione inedita anche per gli standard putiniani. Il monitoraggio continuo di internet attraverso Roskomnadzor, l’Autorità russa per le telecomunicazioni, si accompagna agli arresti eseguiti contro chi partecipa alle manifestazioni contro la guerra nei primi mesi del conflitto; sono noti i nomi di Navalny (già in carcere dal gennaio 2021, quando era rientrato dalla Germania), del politico liberale Ilya Yashin, del giornalista Vladimir Kara-Murza e del filosofo Boris Kagarlitsky, ma i casi di cittadini comuni arrestati e condannati a vari anni di prigione per un post su Vkontakte, una battuta in un bar o per aver espresso una propria opinione al lavoro sono tanti, tanti di più: si contano ben 19.855 arresti a partire dall’invasione dell’Ucraina, oltre a 895 processi contro chi è accusato di essere contrario al conflitto – secondo i dati di OVD-Info, un’organizzazione che si occupa dei diritti dei detenuti politici.
Ma la guerra porta con sé altre contraddizioni inevitabili all’interno della Russia, spesso esacerbate anche dalle scelte dello stesso Putin, il quale ha più volte ribadito come grazie alla “operazione militare speciale” si stia creando una nuova élite, formata dai combattenti al fronte e dalle loro famiglie: un gruppo sociale che ha ottenuto, almeno sulla carta, una serie di privilegi di non poco peso in un paese dalle diseguaglianze sociali tanto forti – dai salari più alti, alla gratuità degli studi universitari con priorità di accesso senza bisogno di passare i test d’ammissione, a forti sconti sui mutui per la casa e l’assistenza sanitaria prioritaria. Un cuneo in grado di produrre, in prospettiva, un pericoloso discorso tra “noi” e “loro”, che ha già fatto la propria comparsa persino nella cronaca nera con il rientro degli ex detenuti reclutati per andare a combattere al fronte e dopo sei mesi di guerra nelle città e nei villaggi d’origine, finendo spesso al centro di episodi di violenza. La guerra, insomma, a prescindere dal suo andamento, sta cambiando profondamente la Russia e sta facendo nascere una nuova base di consenso per il regime putiniano.
Le contraddizioni, però, sono ben presenti anche nelle famiglie di chi è al fronte, soprattutto tra chi ha visto i propri cari inviati in guerra in seguito alla mobilitazione parziale avviata nel settembre 2022 e il cui decreto attuativo è ancora oggi in vigore. L’avvicendamento dei militari è stato solo parziale, e non sono rari i casi di mobilitati rimasti in trincea o nei territori ucraini occupati dalle forze armate russe per quasi un anno e mezzo. Sono tante le mogli, madri, sorelle dei cittadini diventati soldati nell’autunno del 2022 che hanno deciso di organizzarsi in una struttura orizzontale, Put’ domoj (La strada verso casa), partita dalle chat in cui ci si industriava su come inviare viveri ed equipaggiamenti ai propri uomini, e trasformatasi in una novità politica a tutti gli effetti, perché dalla richiesta di procedere alla rotazione si è passati progressivamente a chiedere la fine del conflitto e il ritorno a casa di tutti. In modo semplice, con slogan efficaci come “ja zaebalas’” (traducibile, più o meno, in “mi sono rotta il cazzo”), in una contrapposizione frontale con la propaganda di guerra, le donne ogni sabato portano fiori ai monumenti ai caduti nella Grande guerra patriottica del 1941-45, tenendo i capelli raccolti in uno scialle bianco e, nelle mani, i garofani rossi simbolo del cordoglio per i militari. I metodi di questa mobilitazione sono debitori anche dell’eredità di Alexey Navalny. Se il messaggio dato dalla sua morte appare chiaro e evidente nella sua durezza, resta, per le autorità russe, la difficoltà di gestire le contraddizioni aperte dalla guerra, in un paese in cui la stanchezza e la voglia di pace potrebbero riservare degli sviluppi inattesi.