È stata ufficialmente raggiunta una tregua tra Israele e Hamas che potrebbe porre fine ad un anno e mezzo di guerra e genocidio che sono costati la vita a decine di migliaia di palestinesi. Il conflitto però lascerà dei strascichi, anche sull’autonarrazione che potrà fare di sé Israele che ha legittimato i propri crimini peggiori in nome dell’autodifesa e della lotta all’antisemitismo – un tema che, come si è visto in questi giorni a Bologna, è ormai utilizzato in modo sempre più strumentale e disonesto. Ne abbiamo parlato con Molly Crabapple, artista, scrittrice e militante antisionista statunitense.
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Con la più recente offensiva israeliana a Gaza, è emerso un tema di grande attualità: l’antisionismo e l’antisemitismo. Da un lato, il governo israeliano accusa di antisemitismo chiunque lo critichi; dall’altro, l’odio antisemita è effettivamente aumentato proprio perché Israele afferma di parlare e agire in nome di tutti gli ebrei. Come è cambiato il rapporto tra questi due poli dopo Gaza?
Il sionismo politico ebbe origine come reazione all’antisemitismo europeo. Il padre del movimento, come è noto, fu Theodor Herzl, un giornalista viennese che dapprima sognava l’assimilazione degli ebrei nell’identità austriaca, arrivando persino a proporne la conversione di massa al cristianesimo. Tuttavia, il processo Dreyfus – durante il quale i tribunali francesi condannarono ingiustamente un ufficiale ebreo innocente per tradimento, esiliandolo sull’Isola del Diavolo – convinse Herzl che vi fosse un elemento genocida radicato nel tessuto dell’Europa che nessun ebreo avrebbe mai potuto superare, per quanto patriottico o assimilato potesse essere. Bisogna anche considerare il momento storico in cui sorse il sionismo, vale a dire la fase di frammentazione degli imperi cosmopoliti europei in stati etnici esclusivisti – la Serbia ai serbi! La Bulgaria ai bulgari! – e di conseguenza anche il progetto sionista dipese come tutti i progetti etno-nazionali da una sanguinosa pulizia etnica e di cancellazione dell’alterità. Nato come reazione all’antisemitismo europeo, il sionismo assorbì molti dei suoi credi più tossici. Vedeva gli ebrei della diaspora come deboli, malati, emasculati, parassitari e disconnessi dalla terra, sognando la creazione di un nuovo ebreo forte, con un aratro in una mano e un fucile nell’altra.
Il sionismo è una filosofia politica, e come tale non vi è nulla di razzista nel criticarlo – non più di quanto lo sia criticare l’Hindutva, l’Islam politico o le assurdità sul libero mercato di Margaret Thatcher. Israele ha sempre usato accuse di antisemitismo per deviare le critiche, ma non è mai stato così osceno ed efferato come in questo momento, in cui tali rimproveri vengono lanciati da un paese che gestisce campi di tortura, lascia violentare prigionieri e bombarda Gaza con bombe al fosforo bianco. Chiamare “antisemitismo” le critiche al genocidio di Gaza ha degradato la parola fino all’insignificanza, rendendo molte persone incapaci di riconoscere il vero razzismo anti-ebraico quando lo vedono. Di contro, è fuori discussione che l’antisemitismo aumenti ogni volta che Israele compie le proprie azioni genocidarie legittimandole secondo i valori ebraici. Vorrei che non fosse così e che le persone fossero in grado di giudicarsi l’un l’altra come individui. Dopotutto, anche i massacri dello Stato Islamico non avrebbero dovuto accrescere l’islamofobia, ma così è stato. Apparentemente è nella natura umana incolpare tutti i membri di un certo gruppo etnico o religioso per le azioni commesse da altri, che ne siano i leader o una componente. Provo solo disprezzo per coloro che attaccano gli ebrei per i crimini di Israele, proprio come provo disprezzo per chi attacca i musulmani per i crimini dell’ISIS.
Un’altra questione emersa riguarda la mitologia che circonda la Shoah. Qualche mese fa, Pankaj Mishra, sulla London Review of Books, si chiedeva cosa rimarrà della Shoah dopo Gaza, con il passaggio da “mai più” a “mai più a noi”, che ha trasformato la Shoah in una giustificazione per nuovi orrori. Qual è il rapporto di Israele con questa mitologia e cosa resta della Shoah dopo Gaza?
Israele ha sempre avuto un rapporto paradossale con la Shoah. Sebbene venga spesso utilizzata come giustificazione alla propria stessa esistenza, nelle prime fasi dello Stato l’atteggiamento verso i sopravvissuti era apertamente sprezzante. Hajo Meyer, lui stesso sopravvissuto all’Olocausto, ha raccontato come i suoi compagni venissero chiamati “materiale umano inutile”, e David Ben Gurion, l’uomo che nel 1948 ha proclamato la fondazione di Israele, arrivò persino a schernire una partigiana colpevole di parlare in yiddish. Dopo la guerra, l’organizzazione paramilitare ebraica Haganah costrinse i sopravvissuti dei campi profughi europei a unirsi ai propri ranghi in Palestina e, ancora oggi, molti di loro vivono in povertà. Per quanto riguarda il dilemma proposto da Mishra,, ritengo che si possa ridurre la questione ad un conflitto tra protezione comunitaria e solidarietà universalista. Subito dopo la guerra non ci fu molta simpatia per gli ebrei, e certamente non abbastanza da spingere i Paesi occidentali ad accettarli come rifugiati. L’idea che l’Olocausto fosse il crimine supremo dell’umanità e una lezione morale emerse solo più tardi.
Ho sempre trovato ingenua l’idea per cui un popolo che è stato vittima di atrocità diventi per questo più morale o etico, un genocidio non è una scuola per la crescita personale. L’Unione Sovietica ha perso venti milioni di persone per mano dei nazisti, ma questo non ha impedito ai russi di uccidere milioni di persone in Afghanistan, radere al suolo Grozny o invadere criminalmente l’Ucraina. Il fatto che la Francia abbia ucciso un milione di algerini nel tentativo di sopprimere il loro movimento per l’indipendenza non ha impedito al governo algerino di condurre una campagna orribile contro l’insurrezione islamista degli anni ‘90. Non è scioccante che Israele stia conducendo un genocidio a Gaza, o meglio, non lo è in ragione del fatto che gli europei hanno sterminato un terzo degli ebrei del mondo durante la Shoah. È tristemente, disgustosamente umano. Per questo motivo, le azioni di un gruppo devono essere valutate secondo una chiara bussola morale che rispetti la vita umana, piuttosto che attraverso richiami all’oppressione passata o presente. Le vittime di oggi possono sempre essere i carnefici di domani. Se la Shoah deve mantenere il suo posto nella nostra coscienza morale – e dovrebbe – il mondo occidentale deve smettere di essere ipocrita e cessare di finanziare il genocidio a Gaza.
Gli ebrei che non accettano questa trappola retorica esistono, e non sono pochi: infatti, numerosi movimenti ebraici antisionisti, sia laici che religiosi, si sono diffusi in tutto il mondo. Chi compone questa galassia?
In questo discorso ritengo intanto necessario mettere da parte gli antisionisti haredi (ovvero “ultra-ortodossi”) come le comunità Satmar e Neturei Karta, che rifiutano l’esistenza di Israele su basi religiose, considerandola un’entità blasfema, perché io sono atea e loro possono parlare benissimo da soli. Per quanto riguarda l’ambito secolarizzato, invece, si possono trovare svariate organizzazione che tutte insieme finiscono per costituire un vero r proprio movimento ebraico multigenerazionale diffuso in tutto il mondo, formato da persone stanche di vedere i loro amici e cari palestinesi brutalizzati da uno stato che pretende di parlare a nome loro, in loro difesa. Negli Stati Uniti ci sono gruppi come If Not Now e Jewish Voices for Peace, con cui sono stata arrestata qualche mese fa durante il blocco della borsa valori di New York. Nel Regno Unito c’è Judas, a Berlino il Jewish Bund e in Francia il collettivo decoloniale Tsedek e ho avuto modo di vedere che esistono dei gruppi attivi soprattutto su Instagram anche in Argentina e Spagna. Esistono inoltre varie organizzazioni in cui militano dei cittadini israeliani, come il movimento per la pace Omdim Beyachad o Shoresh, operante negli Stati Uniti e apertamente antisionista. Sono profondamente ispirata da tutte queste persone, soprattutto dagli anziani che hanno mantenuto viva questa fiamma morale nonostante decenni di emarginazione.
Il tuo prossimo libro parlerà della storia di un movimento ebraico antisionista che potrebbe essere considerato un precursore di quelli attuali, il Bund. Cosa possiamo imparare da quell’esperienza? Può rappresentare una via per superare la sovrapposizione tra identità ebraica e israeliana?
Bisogna essere chiari su questo punto: gli ebrei americani sono americani, gli ebrei italiani sono italiani e gli ebrei israeliani sono israeliani. Il problema quindi si concentra sul comprendere se la storia del Bund possa permettere di superare l’egemonia del sionismo sulla comunità ebraica mondiale e io sono convinta che possa svolgere un ruolo importante in questo senso. Uno dei tanti tipi di colonizzazione operati dal sionismo è stato proprio quello della nostra storia di ebrei, dipingendo gli ebrei dell’Europa orientale come persone sottomesse che “sono andate come pecore al macello”, solo per contrapporle ai coraggiosi israeliani che non si fanno scrupoli ad opprimere i palestinesi nel nome del proprio paese. L’esperienza del Bund smaschera questa menzogna per quello che è, e rende evidente come l’identità e la storia del popolo ebraico non erano necessariamente destinati a tradursi nella forma dello Stato israeliano né nei suoi crimini.
Il Bund fu una delle prime grandi formazioni politiche di carattere esplicitamente ebraico e, già nel 1901, si oppose al sionismo. Perché? Quale destino immaginava per gli ebrei europei?
Il Bund credeva in una forma di democrazia socialista multirazziale. I suoi membri sognavano un futuro in cui gli ebrei di lingua yiddish come loro potessero vivere come pari, in libertà e dignità, dei propri connazionali in quegli stessi paesi dell’Europa orientale dove avevano vissuto nell’ultimo millennio. Per loro, il sionismo non era “soltanto” un movimento imperialista che cercava di rubare la Palestina ai suoi abitanti, ma significava anche sottomissione ai valori di quegli stessi razzisti che volevano scacciare gli ebrei dall’Europa. I sionisti volevano che gli ebrei acconsentissero al loro progetto di pulizia etnica e infatti, fin dall’inizio, i bundisti avevano previsto che il sionismo avrebbe significato una guerra eterna con gli arabi – dentro e fuori la Palestina – e una campagna di cancellazione contro le numerose culture ebraiche della diaspora.
Il movimento lottò per la dignità della vita ebraica nel presente materiale dell’Europa orientale. Nei primi quattro decenni della loro esistenza, il Bund costruì una splendida costellazione di istituzioni – scuole, case editrici, sindacati, milizie di autodifesa, teatri, cori, campi estivi – e lottò contro il fascismo ovunque, dalle linee del fronte della guerra civile spagnola alle strade di Varsavia. Non erano isolazionisti né separatisti: nella Polonia interbellica si schierarono al fianco del Partito socialista, credevano nell’internazionalismo e nella solidarietà. La tragedia del Bund fu questa: l’Europa non ricambiò tale atteggiamento amichevole. L’Olocausto non fu solo un crimine tedesco, ma più in generale europeo, che venne portato a termine con il sostegno entusiasta dei popoli di tutto il continente – francesi, lituani, lettoni, estoni, romeni, austriaci, ungheresi, e così via. Come se non bastasse, i paesi del Nord e Sud America, dell’Europa occidentale e l’Australia si rifiutarono di accogliere i rifugiati ebrei fuggiti da Hitler e dopo la fine della guerra, tutti erano contenti di lasciare che questi rifugiati ebrei marcissero indefinitamente nei campi profughi, mentre nell’Europa orientale i locali uccidevano i sopravvissuti che tornavano nelle loro case. Ora che l’Europa ha ucciso ed espulso la stragrande maggioranza della sua popolazione ebraica, può permettersi di fare dei bei memoriali per noi, e fare finta che l’antisemitismo sia una malattia speciale dei musulmani, ma la verità è che il razzismo europeo ha creato il sionismo.