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Da quando ha preso il potere con il colpo di stato del 30 settembre 2022, il capitano Ibrahim Traoré, nuovo leader militare del Burkina Faso, è diventato un simbolo per certi settori della sinistra, quelli più nostalgici e, appunto, particolarmente propensi a perdere la testa per i simboli: sui social è facile trovare la sua immagine, tuta mimetica e basco rosso, accostata a quella di Thomas Sankara, leader militare progressista del Burkina Faso, come se Traoré ne fosse in qualche modo la reincarnazione, determinato a finire il lavoro iniziato dal suo predecessore. Quando, qualche giorno prima dell’anniversario della sua presa del potere, Traoré ha annunciato di aver sventato un colpo di stato contro di lui, quegli stessi settori della sinistra vi hanno visto una replica del colpo di stato che ha rovesciato Sankara nel 1987.

L’associazione Traoré-Sankara non è un’allucinazione ma piuttosto una precisa strategia politica del leader burkinabè. Traoré si veste apposta come Sankara, ne adotta la retorica sull’autosufficienza e la sovranità, fa professione di antimperialismo terminando accordi con la Francia, nomina primo ministro l’intellettuale sankarista Apollinaire Joachim Kyélem de Tambela. Ma le circostanze di questo revival sankarista sono molto diverse: non l’Unione Sovietica quale faro e ispirazione per il movimento anti-coloniale ma una competizione interimperialista sempre più selvaggia; non la mobilitazione delle masse nei Comitati per la difesa della rivoluzione ma un colpo di stato militare calato dall’alto. Traoré non è Sankara, non può esserlo nemmeno se lo volesse, ed è proprio perché non lo è che cerca di somigliargli, per attingere legittimazione.

I settori della sinistra che cascano a pie’ pari in questa strategia sono gli stessi che nel 2014 (alcuni lo fanno tuttora, anche se non esistono più) hanno sventolato le bandiere delle “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk; gli stessi che nel febbraio 2022, quando l’esercito russo ha invaso l’Ucraina, hanno condiviso emozionati le foto dei soldati e dei mezzi militari russi che sventolavano la bandiera dell’URSS o la bandiera della Vittoria. Nessuno di loro ti direbbe mai che Putin è comunista; parlerebbe piuttosto di “supporto critico” o “ruolo storico progressivo”. Né confonderebbe la Russia odierna con l’URSS, confusione che, voluta, è se mai un luogo comune dei conservatori. Eppure i video delle bandiere rosse innalzate sui villaggi ucraini conquistati sono stati condivisi con celebrazione in questi ambienti.

Si è scritto tanto sulla propaganda russa nell’ultimo decennio, ma in genere si è ignorata la sua caratteristica più interessante: la capacità di sussumere i punti di vista più diversi. Inizialmente ciò serviva a creare caos nello spazio informativo per rendere inaudibili le voci scomode. Oggi, nell’epoca delle realtà personalizzate sulla base di feed algoritmici, c’è qualcosa di più: si creano diverse realtà, diverse verità, targettizzate sugli utenti a seconda delle loro preferenze. Per la sinistra ci sono i soldati russi che entrano in Ucraina sventolando bandiere sovietiche e restaurano le statue di Lenin nei villaggi conquistati. Per i nazionalisti c’è Dmitry Medvedev, l’ex vice di Putin, che quanto ad immagine personale sta diventando una specie di sosia di Nicola II, l’ultimo zar. Putin, che non crede in niente, se la ride mentre presenzia a cerimonie in cui vengono innalzate insieme la bandiera russa, quella sovietica e quella dell’impero zarista. Ce n’è per tutti i target.

Ai russi semplicemente riesce meglio che a chiunque altro, ma siamo davanti a una fenomeno che riguarda tutta la politica internazionale contemporanea, sempre più ridotta in un modo o nell’altro a una specie di cosplay in cui il passato viene mobilitato come simbolo per acquisire legittimità e supporto popolare. Xi Jinping che nel 2021, alle celebrazioni per il centenario del Partito comunista cinese, pronuncia il suo discorso dal balcone di Tiananmen, appena sopra il grande ritratto di Mao, indossando una giacca grigia uguale a quella del Grande Timoniere. Joe Biden che imposta tutta la retorica della sua presidenza come un remake di quella di Franklin Delano Roosevelt, annunciando grandi piani di investimenti infrastrutturali e visitando lavoratori in sciopero. “In tali epoche di crisi rivoluzionaria”, scrive Marx nel 18 Brumaio, gli uomini “evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio” per “rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia”.

La citazione di Marx risuona ancora di più se pensiamo al modo pigro e miope in cui il senso comune legge la politica internazionale contemporanea. Più la crisi dell’ordine globale si fa evidente e la situazione internazionale si complica, più i contenuti vengono rimpiazzati dalla forma e le analisi del presente dalle rievocazioni del passato. L’ascesa dei nazional-populismi è l’ascesa dei fascismi, la guerra in Ucraina è la Seconda guerra mondiale, l’acquiescenza occidentale di fronte all’annessione della Crimea è l’accordo di Monaco, Putin è Hitler (con tanto di portmaneau “Putler”), Xi è Stalin, la partnership sino-russa è il patto Molotov-Ribbentrop, la rivalità tra Stati Uniti e Cina è una nuova Guerra fredda, e così via. Tutte frasi prese a prestito che oscurano più di quanto chiarifichino e che si prestano bene alle propagande: la lotta per la difesa della supremazia globale americana può così essere trasfigurata in una crociata per salvare la democrazia dagli autoritarismi, mentre Putin può fare della guerra imperialista all’Ucraina il primo atto di una nuova rivoluzione anti-coloniale in nome di tutti i sud del mondo. 

La radice comune di questi cosplay è ancora una volta nel ritorno della politica senza politica, ovvero nella morte della politica di massa durante l’epoca della “fine della Storia”. Al there is no alternative neoliberale diventato senso comune a quei tempi e ancora oggi in vigore si è aggiunto un altro tassello: non solo non c’è alternativa a ciò che abbiamo, ma ciò che abbiamo non funziona più. Se il presente è inaccettabile e il futuro è stato ucciso non resta che il passato a cui guardare alla ricerca del materiale simbolico con cui mascherare la realtà. I timidi tentativi di costruire nuovi simboli nazionalisti in contesti bellici – la V e la Z sui mezzi miliari russi all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la ∀ usata dall’esercito azero durante l’occupazione del Nagorno-Karabakh – e il loro fallimento sono ulteriori testimonianze in questo senso. Il governo russo voleva fare della sua guerra in Ucraina la “guerra Z”, è finito a tirare fuori dagli armadi le bandiere rosse, proprio perché there is no alternative

Il cosplay politico – io lo chiamo cosplaylitica – è dunque una risposta alla contraddizione irrisolvibile in cui si trova oggi la politica contemporanea, bloccata in un limbo in cui c’è solo il presente, ed è insostenibile. È una risposta insoddisfacente, perché dietro quei simboli su cui si fa affidamento non c’è nulla. Ma è anche, contemporaneamente, la migliore risposta possibile al momento e la peggiore risposta che possiamo dare. L’alternativa, che già vediamo delinearsi in forme embrionali e che non è altro che l’espansione e la democratizzazione della cosplaylitica, è il rifiuto nichilista della politica in quanto tale, nella forma della sua trasformazione in una sottocultura che innerva comunità online, micro-nicchie che vi basano la propria identità.

Penso per esempio alla Lega giovanile per la libertà dell’estremo oriente, un’associazione molto attiva online che riunisce un pugno di singoli attivisti, tutti cinesi che vivono negli Stati Uniti e in Canada. I suoi membri si fanno promotori ognuno della causa dell’indipendenza nazionale di una regione diversa della Cina, regioni che talvolta non esistono se non nella loro fantasia (la Basuria, la Cantonia). Dunque cause politiche di invenzione, di cui possono autoproclamarsi scopritori, leader e portavoce. Oppure al fenomeno delle e-deologies indagato dall’artista e ricercatore statunitense Joshua Citarella: ideologie estremamente specifiche, personalizzate sull’individuo e allo stesso tempo paradossali e senza contenuto, ciascuna con il suo apparato simbolico e iconografico, create a scopo identitario per definirsi, ad esempio, ordo-socialista o anarco-conservatore. I simboli perdono così ogni dimensione collettiva, diventano marcatori di preferenze individuali, che si possono adottare e cambiare facilmente a seconda dell’immagine di sé che si vuole comunicare, come un taglio di capelli o un modo di vestire – esattamente quello che fa Traoré, in tuta mimetica e basco rosso, che copia il modo di vestire di Sankara.


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