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Il 13 luglio un uomo ha sparato contro Donald Trump mentre teneva un comizio, colpendolo di striscio a un orecchio – e andando molto vicino a gettare gli Stati Uniti nel caos. Jacopo Di Miceli – curatore dell’Osservatorio sul complottismo – sull’attentato a Trump e le minacce autoritarie che ne derivano.

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Immaginiamo che sabato scorso sul palco di Butler, in Pennsylvania, ci fosse Joe Biden invece di Donald Trump. Nessuno potrebbe ragionevolmente scommettere che, sfiorato da un proiettile a un orecchio, Biden avrebbe avuto la prontezza di abbassarsi, la lucidità di chiedere di recuperare le scarpe scivolate dai piedi e il vigore adrenalinico di serrare in alto il pugno e incitare a combattere, mentre gli agenti del Secret Service lo trascinavano, riluttante, al sicuro. 

È uno scenario alternativo che ha per un attimo attraversato la mente di tutti in quel momento, ma è forse la chiave interpretativa con cui potremmo meglio attribuire un significato preciso al già memorabile scatto del fotografo di Associated Press Evan Vucci: una composizione perfetta, artisticamente impeccabile, la cui implicazione profonda sembra essere stata equivocata nella teatrale concitazione di consegnarla ai libri di testo – non trasmette ai posteri l’istantanea di un punto di svolta nella storia, ma si limita a riverberare involontariamente l’estetica del mediocre dibattito mediatico dei nostri tempi. 

Non c’è, in effetti, nulla di nuovo nella violenza della politica americana: in poco più di due secoli, sono stati uccisi quattro presidenti e tre hanno subito un tentativo di assassinio durante o dopo la il loro mandato. Come non c’è nulla di nuovo nelle oscure motivazioni che spingono un giovane solitario a sparare: appena poche ore dopo l’attentato a Trump gli Stati Uniti sono ritornati alla normalità delle sparatorie di massa, e quattro persone sono state uccise in una discoteca di Birmingham, in Alabama. E non c’è, soprattutto, nulla di nuovo nel vittimismo del Partito repubblicano, che difficilmente potrà capitalizzare elettoralmente l’attentato a Trump più di quanto non abbia fatto finora con le teorie del complotto sul voto rubato del 2020, la narrazione pseudo-berlusconiana sulle persecuzioni giudiziarie e le guerre culturali sul fantasma del comunismo in America. Quei pochi millimetri che hanno risparmiato a Trump la vita e al mondo l’incognita della sua morte in diretta finiranno probabilmente per lasciare immutato il corso delle cose.

La prima reazione dei massimi esponenti trumpiani è stata rabbiosa. J.D. Vance, indicato come vicepresidente nel ticket elettorale repubblicano, si è rifiutato di inquadrare il tentato omicidio come un “incidente isolato”, ma l’ha dichiarato una conseguenza della retorica di Joe Biden. L’ex candidato nelle primarie Vivek Ramaswamy non si è detto sorpreso, perché l’America sarebbe immersa in un “clima tossico”, paragonabile a un “regno delle streghe”. E la deputata qanonista Marjorie Taylor Greene ha dichiarato che “i democratici sono il partito dei pedofili, degli assassini di bambini non nati, della violenza e di guerre sanguinose, senza senso e senza fine”. Sono frasi incendiarie, ma che  non differiscono granché dall’abituale retorica del trumpismo, che già da tempo comprende la celebrazione del tentato colpo di stato del 6 gennaio 2021, l’esaltazione del modello illiberale orbaniano, le fantasie su una dittatura e le minacce di imprigionare gli avversari politici e di ricorrere all’esercito per sedare le proteste.

La foto di Evan Vucci che abbiamo visto ovunque nei giorni successivi all’attentato ci mostra anche qualcos’altro. Nonostante per un breve periodo ci sia stato un generale sussulto di orgoglio civico – pensiamo agli slogan editoriali del Washington Post e del New York Times, “la democrazia muore nell’oscurità” (2017) e “adesso ogni giorno è il 6 gennaio” (2022) – la figura di Trump è stata rapidamente ri-normalizzata, in una tendenza, quasi istintiva, all’anestetizzazione e alla banalizzazione. Dopo il dibattito tv fra i due candidati alla presidenza, la giornalista Jennifer Schulze ha contato quanti articoli del New York Times parlavano del declino anagrafico di Biden (192) e quanti di Trump (92).  Questo nella settimana in cui la Corte Suprema, in seguito a un ricorso presentato proprio dagli avvocati di Trump, stabiliva che gli ex presidenti godono dell’immunità assoluta dall’azione penale negli atti ufficiali che rientrano nella loro “sfera esclusiva di autorità costituzionale” – attribuendo in sostanza un potere assoluto al presidente, che d’ora in poi avrà la facoltà di ordinare un assassinio o di organizzare un golpe cautelandosi dietro i crismi di un atto ufficiale. Ma nella moderna economia dell’attenzione, estremamente precaria e volatile, il giornalismo è strutturalmente regolato per assecondare un’agenda delle notizie imposta da altri: le gaffe di Biden, in parte dovute al declino fisico e in parte connaturate alla personalità, sono il suo pane quotidiano e tanto più sono clamorose, tanto più fanno ridere. Non esiste ormai più alcun motivo o alcuno scrupolo deontologico per cui trattenersi dal seguire il flusso della caricatura del democratico in un Leslie Nielsen decrepito e rimbambito.

Questo non significa che non sia giusto evidenziare le fragilità di Biden. È il racconto mediatico della stretta analogia fra le criticità dei due candidati il problema. La foto di Trump con il pugno alzato dopo l’attentato è stata presa a simbolo premonitore di come finiranno  elezioni di novembre proprio perché non si riesce nemmeno a contemplare una narrazione che diverga dal corpo dei capi e dal trionfo dell’immagine sulla politica. Trump è un “uomo del destino, una figura toccata dagli dèi della fortuna in un modo che trascende le normali regole della politica”, ha scritto un editorialista del New York Times, ed è difficile non rinvenire nelle sue parole la stessa, riverente ammirazione che, da sempre, una certa stampa riserva all’uomo forte. Sembra un déjà-vu di quanto successo nel giugno del 2015, quando Trump, allora celebrity televisiva e imprenditoriale, si era candidato alle primarie repubblicane. 

All’epoca, la sua rumorosa discesa in campo era stata l’ancora di salvataggio per un sistema mediatico in crisi di liquidità, di ascolti e di lettori. Senza che nessuno dei due contraenti avesse bisogno di esplicitarlo, era stato siglato un patto diabolico tra Trump e i media, con i secondi che amplificavano e si giovavano delle bugie del primo. È un patto che regge ancora oggi, ben al di fuori dei confini americani; lo vediamo dispiegarsi anche nella superficialità con cui sono trattate le teorie del complotto sul tentato assassinio. Le ipotesi su un omicidio premeditato dai servizi segreti o su un auto-attentato inscenato dalla campagna di Trump galleggiano nel dibattito come divertenti bizzarrie affiorate da quell’abisso di assurdità che è la sottocultura internettiana americana.

Eppure, da un decennio, sono il cuore dell’ideologia repubblicana – e stanno ora infettando anche gli elettori democratici che, percependo la democrazia liberale sull’orlo del collasso, paventano improbabili cospirazioni putiniane a Washington, allo stesso modo dei circoli anticomunisti negli anni Cinquanta. L’improvviso interesse mediatico per questi complotti disvela in piena luce tutto il precedente disinteresse per il complottismo in America – quello noioso, che si annida nei punti programmatici del Project 2025, il piano della Heritage Foundation per la prossima presidenza Trump, che è perfezionato alle convention delle destre internazionali in Ungheria o in Florida e che è infine testato sul campo nei comizi e nella legislazione locale.


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