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Il centro di Milano è transennato, i tram deviati, ma quando arrivo in Duomo la piazza è ancora semivuota – ci sono solo i fan più accaniti, venuti di corsa da altre città d’Italia e arrivati all’alba, schiacciati contro le transenne con le bandiere di Forza Italia e gli striscioni (“L’Italia è il paese che amo”). Intorno a loro un’organizzazione imponente che racconta di un evento percepito come simbolico: maxischermi ai due lati del Duomo e altri schermi più piccoli collocati in altri punti della piazza trasmetteranno la diretta, seguendo l’arrivo delle autorità e tutto il percorso della salma da Villa San Martino ad Arcore al sagrato, con le corone di fiori e il picchetto d’onore di carabinieri; per ora mostrano una ripresa della piazza stessa, semivuota. Sulla parete posteriore del Duomo, un terzo maxischermo è sintonizzato fin dalla mattina su Canale 5.

Dopo pranzo la piazza comincia a riempirsi, anche se non sarà mai piena, nonostante ne siano state transennate ampie porzioni. Pochi cartelli e bandiere, pochi freak, un singolo contestatore che sarà presto allontanato, una delegazione della Curva Sud che sbandiera e fa partire cori – “Un presidente, c’è solo un presidente”, “Chi non salta comunista è”. Nel complesso, gli elementi più visibili tra la folla suggeriscono una triste rievocazione storica degli anni del berlusconismo, ma è una sensazione marginale, una messa in scena che rimanda agli anni migliori del morto e che ha la sua parte nella coreografia dell’evento. Il senso del funerale di Silvio Berlusconi non è rievocare il berlusconismo degli anni Duemila – come spiegare altrimenti gli applausi scroscianti della piazza a Mario Draghi, la firma in calce alla famosa letterina dell’Europa che nel 2011 ha allontanato definitivamente Berlusconi dal potere? Il senso è un altro.

Per chi è venuto in piazza Berlusconi ha smesso da tempo di essere un soggetto, una persona in carne ed ossa o un leader politico; non è qui per celebrare Berlusconi ma per assistere alla costruzione di un simbolo. Già da vivo, nei suoi ultimi anni, Silvio Berlusconi stava passando da soggetto a simbolo; da morto questo passaggio può concludersi. Dietro la celebrazione c’è in realtà l’autocelebrazione di chi sta celebrando, a questo stiamo assistendo. La piazza lo sa, e lo dimostra accogliendo con applausi e grida l’apparizione sul maxischermo di Giorgia Meloni. Dopotutto, l’offerta politica di Berlusconi consisteva – nelle parole del giornalista tedesco Michael Braun – in un populismo “da bel tempo”, da barzelletta piuttosto che da urla rabbiose. Insomma da fine della storia, se preferite. Tutto questo diventa oggi irricevibile e tutto sommato irrilevante, ma può tornarne utile il ricordo per le forze attualmente al potere, la cui rabbia verso il presente ha il suo naturale riflesso nella nostalgia per un passato ricondotto all’età dell’oro. 

Sono nato nella Milano di Berlusconi, negli anni di Berlusconi, ho sempre tifato la squadra di Berlusconi; faccio mio malgrado parte di una generazione specificamente italiana, quella dei figli del berlusconismo. Una generazione scissa, divisa fin dalla propria infanzia e adolescenza dalla costrizione a definire la propria identità in termini di adesione coatta o esplicito rifiuto, affermazione involontaria o negazione di tutto ciò per cui Berlusconi stava. C’è chi è cresciuto nella temperie culturale da lui costruita, guardando i suoi programmi tv e aderendo al suo immaginario, anche senza per forza votarlo, e che in questi giorni l’ha pianto o ne ha celebrato la grandezza, in toto oppure “nel bene come nel male”, “come imprenditore” e via dicendo. E c’è chi l’ha sempre considerato un nemico, chi cantava “Mi sono fatto da solo” dei La Famiglia Rossi alle manifestazioni, continuando a considerarlo una sciagura o cambiando progressivamente idea fino magari a cedere alla sua rivalutazione ironica fatta di animaletti e dell’immagine da nonno burlone, e che alla sua morte ha festeggiato o è stato preda dell’horror vacui, o entrambe. Tutta la mia generazione è stata in uno di questi due campi, a un certo punto: “siete sempre dei poveri comunisti” da un lato; “I’m Italian and Silvio Berlusconi is not speaking in my name” come banner sul blog dall’altro. Il tempo ha dimostrato come fossero speculari.

Guardare Berlusconi da un punto di vista generazionale porta alla luce questa scissione che, a sua volta, ne indica un’ancora più ampia nel complesso della società italiana, che Berlusconi non ha prodotto ma solo rivelato e la cui rivelazione è, a mio parere, la sua eredità politica più grande – più della degenerazione delle forme, più dell’aver aperto la breccia attraverso la quale la post-democrazia, quel bonapartismo spettacolarizzato che è la forma politica dei nostri tempi, ha fatto irruzione spazzando via la democrazia moderna del Novecento. Solo la storia potrà confermare, ma la sensazione oggi è che il vero ruolo storico di Berlusconi sia stato quello di aver spezzato la finzione di unità che ha tenuto insieme il paese dalla fine della seconda guerra mondiale, dal momento in cui la guerra civile latente che covava alla fine della Seconda guerra mondiale era stata repressa e nascosta sotto il tappeto di un compromesso articolato in elementi costituzionali, politici, sociali e morali che servivano a mantenere l’equilibrio tra le due parti e mantenere il conflitto latente. Berlusconi come simbolo – ovvero le contrapposizioni che ha generato e le battaglie che si sono combattute intorno a lui, ovvero la sua epoca – è il simbolo del venir meno di questo equilibrio.

 A non averlo capito sono gli altri, quelli che da quando è esistito il berlusconismo si sono rivendicati una superiorità politica, morale e intellettuale. Già poco rumorosi e affatto influenti in passato, anche in questo frangente i nostri hanno mancato l’appuntamento con la storia, lamentando la proclamazione di quel lutto nazionale non concesso a Falcone e Borsellino e adesso riservato ad uno che è stato amico di Gelli, Craxi, Dell’Utri e Putin. Ma l’intero evento non è la canonizzazione di Berlusconi, è molto di più, perché in Italia preferiamo i battesimi ai funerali. 

Lo scontro tra berlusconismo e anti-berlusconismo non è stato allora altro che un modo bizzarro, di cattivo gusto, farsesco di mostrarci che dietro quella che chiamavamo Italia ce n’erano in realtà due: un’Italia che si vergognava del Bunga Bunga e delle cene eleganti e un’Italia che sognava un giorno di esservi invitata. L’Italia che l’ha pianto e l’Italia che ha aperto il proverbiale spumante che a metà anni Duemila tutti tenevano in fresco per l’occasione. Due Italie che riusciamo a ricondurre all’unità solo all’ombra di Silvio Berlusconi – per cui potremmo dire che siamo tutti figli di Silvio, a dividerci è solo il rapporto con il padre. Un’ipotesi confermata dal fatto che la mattina della morte di Silvio Berlusconi, pochi minuti dopo la diffusione della notizia, sia diventato virale un post Instagram con una sua foto trasformata nel meme “The world you were raised to survive in no longer exists” – il mondo nel quale sei stato educato a sopravvivere non esiste più – mentre nelle tendenze di Twitter c’erano sì gli ovvi “Berlusconi” e “Silvio” ma anche “È SUCCESSO” e “NON CI CREDO”. Un paese che rimaneva attonito, una parafrasi collettiva della famosa citazione di Mark Fisher: è più facile immaginare la fine dell’Italia che un’Italia senza Berlusconi.

È forse per questo che al funerale di Silvio Berlusconi in piazza del Duomo l’impressione non era di star assistendo alla fine di qualcosa – di un’epoca di storia italiana, di un periodo della vita; già conclusi da tempo, ovviamente, ma che trovavano negli applausi della piazza alle riprese del carro funebre che passa davanti al tribunale su cui sventola il tricolore a mezz’asta una simbolica closure. Al contrario, la sensazione era quella di star assistendo a un inizio: la trasformazione di Silvio in simbolo è il primo tassello di un progetto politico con cui i suoi eredi, la destra che lui ha costruito e che oggi ci governa, puntano a costruire una nuova tradizione nazionale con cui sostituire quella attuale, figlia della Resistenza e della loro sconfitta, per cui non hanno fatto mai mistero di provare disagio. Da vivo, Silvio ci ha rivelato la finzione alla base dell’idea nazionale italiana, ci ha mostrato che il compromesso raggiunto nei Trenta gloriosi per tenerla insieme non funzionava né serviva più; da morto, si fa simbolo per ricondurre di nuovo a unità quell’idea, sulla base però non di un nuovo compromesso ma della vittoria totale di una parte. Siamo tutti figli di Silvio, anche se siamo ancora come sempre dei poveri comunisti.


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