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Fabbrica di microprocessori e portaerei statunitense in Asia, “altra” Cina democratica e non-Cina a sé stante. Taiwan non è soltanto questo, ma è uno dei punti geopolitici più caldi del mondo e proprio alla geopolitica rischia di venire sacrificata. Eleonora Zocca, giornalista RAI esperta di Asia orientale, racconta il mood delle ultime elezioni taiwanesi.

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Sono nel distretto di Da’an, a Taipei, e mancano solamente due giorni alle elezioni. Per l’esattezza mi trovo al comitato elettorale di Miao Poya, candidata alle legislative per il Partito democratico progressista (DPP). Miao sta parlando di come la Cina sia diventata sempre più aggressiva negli ultimi dieci anni e di come sia impensabile tornare al periodo precedente al 2016, ovvero a quando il Kuomintang (KMT) era al governo, quando all’improvviso iniziano a suonare i telefoni. È un messaggio di allerta urgente: “Missile flyover Taiwan airspace, be aware”. Un missile sta sorvolando Taiwan, state attenti. Il messaggio lascia Miao e tutti i presenti nella stanza di stucco. “Oh my God, is it true?” continua a dire la candidata. A quel punto Miao mi guarda: “Vedi? Questa è la vita di tutti i giorni a Taiwan. Chi vive qui si abitua presto alle intimidazioni da parte della Cina”. In seguito emergerà che il ministero della difesa ha fatto un pasticcio con la traduzione: ha usato “satellite” nella versione cinese ma “missile” in quella inglese. L’errore grossolano (e grave) della presidenza non cambia l’entità di quello che mi ha detto poco prima Miao: questa è la vita a Taiwan e siamo sotto la costante minaccia della Cina. 

Miao Poya  è una politica estremamente interessante. Alle spalle ha un lungo percorso da attivista: nel 2012, a venticinque anni, ha iniziato a militare nei movimenti che si battono per l’abolizione della pena di morte nel paese; due anni dopo, nel 2014, ha fatto parte del Movimento dei girasoli, il movimento di protesta contro l’accordo commerciale che il governo di allora voleva stringere con Pechino. Oggi è consigliera cittadina di Taipei e il 13 gennaio ha perso la scommessa delle legislative, ma è un volto politico – azzardo questa previsione – che di certo non verrà oscurato da questa sconfitta. Al suo evento ci sono due donne americane, venute a loro spese da Austin, in Texas, per sostenerla. Il giorno dopo, a un altro evento del DPP di fronte al palazzo presidenziale, una ragazza mi si avvicina in mezzo alla folla. “Ti ho vista ieri nella live su Facebook di Miao Poya, lei è la migliore. Diventerà presidente di Taiwan, almeno lo spero”. 

I giorni pre-elettorali a Taipei sono pieni di incontri, fermento e piazze piene. È impossibile non incontrare ogni giorno, in quartieri diversi, almeno un candidato distrettuale a piedi, in bicicletta o in un minivan, con un megafono in mano, intento a promuovere la sua candidatura. Il giorno delle elezioni, invece, l’ho trascorso nella libreria indipendente Tò-uat (“a sinistra”) gestita da alcune ONG con sede a Taipei. Le posizioni e le battaglie che portano avanti sono sintetizzate dagli sticker che campeggiano sulla vetrina esterna: #TaiwanMyCountry, Resist China, Freedom Now, Free Tibet, StandWithHK, Save Uyghur, StandWithUkraine. Mentre procedeva lo spoglio, diversi attivisti hanno preso parola per sottolineare l’importanza della democrazia e la necessità di respingere ogni tipo di intimidazione cinese. Dopo ogni intervento si inneggiava alla vittoria del candidato del DPP Lai Ching-te (conosciuto anche come William Lai) e della sua vice Hsiao Bi-khim, e si gridava insieme “Zhongguo, Taiwan, yi bian yi guo!”. Cina, Taiwan, per ogni sponda un paese.

La questione identitaria e l’autodefinizione di Taiwan come luogo altro rispetto alla Cina sono un fattore fondamentale nelle elezioni nazionali. Sulla stampa vengono spesso riportati i dati dei sondaggi che dimostrano come la percentuale di persone che si definiscono solo “taiwanesi”, a discapito di chi invece dice di essere “cinese” o un mix di entrambe le cose, sia cresciuta sensibilmente negli anni. Che Taiwan sia de facto autonoma dalla Repubblica Popolare Cinese è qualcosa di acquisito, e lo dimostra il fatto che lo status quo non venga messo in discussione da nessun partito politico, neanche dal Kuomintang, tendenzialmente più morbido verso Pechino. Anche gli investimenti sulla difesa sono un punto su cui nessuno arretra. Eppure, in mezzo a una situazione geopolitica così complessa e dalla retorica così contorta, viene da chiedersi: è giusto raccontare le elezioni taiwanesi esclusivamente attraverso la lente dei rapporti con la Cina e la stabilità nello stretto?

Alcuni recenti sondaggi forniscono una stima di quanto la popolazione sia preoccupata di un’invasione della Cina: un abbondante 50% dice di esserlo. È un dato che non passa inosservato, e che di certo giustifica l’attenzione internazionale, ma i risultati di queste elezioni ci dicono anche altro – la questione identitaria non è l’unico fattore a cui guardare. Taiwan è una democrazia giovane, che non ha compiuto neanche trent’anni, e chi è nato alla fine degli anni Ottanta ha studiato su testi scolastici e programmi utilizzati quando ancora c’era la legge marziale (abolita solo nel 1987). Anche questo spiega il fermento politico sull’isola, evidente dalla partecipazione che riescono a raccogliere i partiti agli eventi di piazza: fiumi di persone che si riversano nelle strade pieni di gadget e bandiere e che all’unisono gridano “dòng suàn” (“eletto”). Evidente anche dal fatto che, dopo essersi retta sempre su un sistema perfettamente bipartitico, quest’anno per la prima volta la politica taiwanese ha visto emergere un terzo partito: il Partito Popolare di Taiwan (TPP) del chirurgo ed ex sindaco di Taipei Ko Wen-je, che ha preso il 26,5% e 8 seggi allo Yuan legislativo. I suoi militanti, elettori ed elettrici, si distinguevano per un cerchietto con due foglioline illuminate di verde sulla testa, a rappresentare un germoglio appena spuntato che chiede soprattutto una cosa: il cambiamento.

Con gli stravolgimenti avvenuti negli ultimi anni – la pandemia, le interruzioni nelle catene di approvvigionamento, la guerra in Ucraina, il conseguente aumento dei prezzi dell’energia, l’inflazione crescente e la recessione – è notevole che abbia vinto il candidato del partito che è al governo già da quasi otto anni. Soprattutto quando c’è tutta una fascia consistente di elettori ed elettrici più giovani minacciati più dall’alto prezzo delle case, dai salari bassi e dalla precarietà del lavoro, che non dalla Cina. Lai Ching-te, quindi, ha vinto sia perché per gli elettori del DPP vuol dire continuità con il passato, sia perché – spiega il politologo Lev Nachman – ha approfittato del fallimento dei due partiti avversari, KMT e TPP, che non sono stati in grado di capitalizzare la stanchezza e l’insoddisfazione verso un partito che ormai da molti viene considerato parte dell’establishment. Ma rischia di essere una vittoria da nulla: difficilmente Lai riuscirà a formare un governo stabile, e non è ancora chiara quale sarà la strategia di Ko Wen-je, che in campagna elettorale si è presentato sempre come l’alternativa ai partiti tradizionali.

Sarebbe quindi riduttivo, oltre che non del tutto corretto, dire che con la vittoria di Lai i cittadini taiwanesi tout court hanno detto “no” a Pechino (come ha titolato la stampa mainstream italiana) o che la vittoria “dell’indipendentista” significherà uno scontro nello Stretto di Taiwan. Gli otto anni di presidenza di Tsai Ing-wen dimostrano che, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo è una soluzione sostenibile su entrambi i lati. Ma, come mi ha detto la psicologa sociale e attivista taiwanese Wen Liu, Taiwan rimane intrappolata nella logica delle grandi potenze: “Nel caso di Taiwan tendenzialmente ci sono due approcci che vengono adottati:  a destra quello da Guerra Fredda, che guarda a Taiwan come a un avamposto statunitense per arginare la Cina. E a sinistra quello realista: in un mondo multipolare, la perdita di egemonia statunitense e la crescita dell’influenza cinese sono inevitabili. Quello che provo a spiegare è che, in entrambi gli approcci, Taiwan viene sacrificata”.


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