L’intelligenza artificiale è sempre più una parte integrante delle nostre vite ed è ormai pienamente inserita in una dimensione intermedia tra un oggetto di uso comune e un gioco. Ci lavoriamo, ci chiediamo come la si possa usare nelle scuole e ci facciamo propaganda, ma una buona parte della sinistra non sembra accettarlo e ne parla come una cosa intrinsecamente di destra. Francesco D’Isa – artista e filosofo – spiega le ragioni di questo rifiuto e perché dovremmo superarlo.
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Negli ultimi tempi, sempre più osservatori hanno scritto sui social che le immagini generate dall’intelligenza artificiale stanno dando forma a un’estetica peculiare dell’estrema destra: animali carini che esibiscono messaggi ferocemente sionisti, immagini plasticose-revisioniste dell’AfD, meme razzisti in stile Ghibli pubblicati dall’account X della stessa Casa Bianca, fino al nostrano Salvini, che l’ha utilizzata nella scorsa campagna elettorale. Alcuni di questi hanno parlato addirittura di “oleografia hitleriana” per definire le immagini fatte con AI, mentre, secondo altre voci, il nuovo volto digitale dell’estrema destra sembra rifiutare il mondo materiale per inventarne uno parallelo, plasmato secondo i propri bisogni ideologici. Ancora una volta, insomma, la destra rifiuta la realtà dei fatti e si butta nella fantasia, a differenza di una sinistra che si vede più genuinamente ancorata al reale e sospettosa dei pericolosi svolazzi della fantasia. Nel momento stesso in cui la questione veniva posta, ho pensato: eccoci di nuovo, la sinistra che rifiuta il mito perché è certa di conoscere “la realtà”.
L’ipotesi di una deriva estetica AI tipicamente destrorsa è a mio parere priva di senso. Più mi soffermo a studiare questi deepfake, i meme pieni di slogan razzisti e le illustrazioni fasciste tra la foto e il dipinto digitale, più mi ricordano l’effetto boomer – quest’aura kitsch e sgraziata, vistosamente finta per chi è alfabetizzato digitalmente. Questa non è una peculiarità politica, ma tecnica ed estetica. Esattamente come accadeva con i primi software di grafica, l’analfabetismo visivo al servizio del messaggio è il segno distintivo di chi accede alla tecnologia senza curarne i dettagli, ritrovandosi in mano risultati abbaglianti e pacchiani, ma a loro modo efficaci. Che queste immagini finiscano tra le maglie della propaganda di destra radicale non significa neanche che la sinistra abbia più “buon gusto”, cosa che si rivela palesemente falsa se studiamo la cura grafica di alcune riviste ed edizioni di estrema destra e la compariamo al materiale di matrice opposta. Se proprio dobbiamo rintracciare una radice politica, potremmo dire che l’estrema destra sembra meno afflitta da remore tecnologiche mentre la sinistra – soprattutto quella più legata al retaggio teorico della Scuola di Francoforte – finisca spesso per demonizzare la tecnica, invece di reclamarne l’uso, di imparare a gestirne i limiti, di personalizzarla e, per quanto possibile, epurarla dai bias di cui inevitabilmente soffre.
Alla fine, quella che molti chiamano “estetica AI di destra” somiglia più a una forma transitoria di uso naïf della tecnologia, destinata a perdere la sua aura posticcia non appena chi progetta e crea imparerà a raffinare i propri prompt, a personalizzare l’interfaccia e a intervenire in post-produzione. Ci sono vari test, molti dei quali disponibili online, che mostrano come molte persone, messe davanti a immagini ibride, non riconoscono più la differenza tra un’illustrazione generata al computer e una tradizionale: sebbene ci siano dei tratti distintivi che un occhio educato sa (per ora) riconoscere, non esiste alcun marchio di fabbrica dell’IA in sé. Insomma, vi lamentate dell’AI Slop – le immagini sintetiche di bassa qualità che circolano in grande quantità su Facebook, con Gesù fatti di gamberetti e anziani in lacrime che chiedono ‘mi piace’ per il loro compleanno – perché si individua con facilità, ma è pieno di immagini fatte con AI che vi piacciono e che non riconoscete nemmeno come tali. Non serve neanche appellarsi al kitsch, perché di materiale simile prodotto senza AI è pieno il web. La maggior parte delle immagini prodotte con AI è senza dubbio brutta, ma anche la maggior parte delle fotografie è di cattiva qualità, e lo stesso vale per i disegni. La mediocrità è una caratteristica distintiva dell’uomo, non della tecnica, e le AI hanno imparato da noi.
Lo slittamento per cui un’immagine AI è più adatta alla destra per la sua connaturata irrealtà tradisce una visione parziale del fatto artistico, come se il fantastico, l’assurdo o il mitologico fossero prerogative esclusive di un algoritmo un po’ fascista. Sono secoli che la pittura e la letteratura narrano mondi fantastici e passati epici, inventando storie di cavalieri e draghi, di terre scomparse e di civiltà mai esistite, senza che nessuno si sognasse di dire: “non è arte, perché non è vera”. Come ricorda Edoardo Rialti, anche la Divina Commedia in fondo è un fantasy. Inquadrare tutta la produzione visiva frutto dell’intelligenza artificiale come destrorsa perché distaccata dalla realtà significa, in sostanza, ignorare il fatto che la stessa resa si può ottenere con mezzi tradizionali più tradizionali dell’AI.
C’è poi il riflesso della convinzione che questa sia “arte senza artista”, apogeo dell’inferno dell’alienazione industriale dove, oltre alla vita, le macchine ci rubano pure l’anima – un tema che in questi giorni è riemerso per criticare l’uso dell’AI per creare immagini nello stile dello Studio Ghibli ma che è stato usato anche per spiegare la tendenza a produrre immagini de-umanizzanti da parte dell’estrema destra. Ma chiunque abbia provato seriamente a lavorare con i generatori di immagini sa che non basta inserire una parola a caso per ottenere un buon risultato: occorre una scelta stilistica, uno studio del prompt, un patteggiamento costante con l’algoritmo, l’interazione con le tante opzioni e, in ultima istanza, anche un occhio per i dettagli in fase di post-produzione. È un processo creativo in cui l’artista rimane più presente che mai, anche se i ruoli si spostano e i mezzi tecnici mutano, rendendo impossibile qualunque scollamento tra produttore e prodotto finale. Pensare che un racconto mitologico, una distorsione cromatica o un gioco prospettico diventino “arte senza artista” solo perché mediati da un software significa non riconoscere il potenziale del mezzo e inibire la possibilità di apprenderlo. È, insomma, pura ignoranza.
Se ripercorriamo le vicende della fotografia e del fotomontaggio, ci accorgiamo di come la novità abbia sempre incassato reazioni analoghe a quelle che oggi colpiscono l’AI. Quando arrivarono le prime macchine fotografiche, c’era chi pensava che l’occhio umano sarebbe diventato superfluo, come se la macchina facesse tutto da sola e chiunque potesse “creare capolavori” senza un briciolo di formazione. Accadde lo stesso con i fotomontaggi: considerati un’arte minore o ingannevole, si pensava che violasse il confine tra reale e immaginario con eccessiva disinvoltura (cosa vi ricorda?) ma, col passare del tempo, sono diventati parte del nostro patrimonio culturale.
L’idea di un immaginario artificiale di destra perché irrealistico mi sembra che parli più della sinistra che dei diretti interessati, perché sottolinea la storica difficoltà che hanno i progressisti a rapportarsi al mitologico e al fantastico. Basterebbe pensare a come, per decenni, si sia ridotto Tolkien ad una lettura “di destra” alla stregua di un codice segreto dei neofascisti, senza alcun tentativo di capire come e perché certi temi epici e certi immaginari di potere possano essere riletti in chiave allegorica anche all’interno di una prospettiva progressista – e soprattutto come parlino al di là degli schieramenti. A questa diffidenza si aggiunge la paura di matrice francofortese dello strumento tecnologico: la Scuola di Francoforte, con Adorno e Horkheimer, ci ha lasciato in eredità l’idea di una cultura di massa schiava dell’industria culturale, e dunque ogni nuova macchina o mezzo, soprattutto se percepito come elemento di manipolazione, rischia di essere visto come un congegno di dominio. Se trasliamo questa prospettiva all’era digitale, ne otteniamo la conclusione frettolosa per cui l’AI, in quanto macchina capace di produzione simbolica, non può che essere uno strumento alienante che sottrae alle persone la dimensione autentica della creatività. Al netto dei vari limiti legati al contesto sociale in cui nasce, l’AI generativa è comunque una tecnologia generalista. Come Internet o l’elettricità, sono mezzi connotati politicamente dal contesto, ma questo non li esaurisce. Detto in breve: anche con questa brutta e cattiva AI capitalista puoi fare “cose di sinistra”.
Il paradosso è che, pur di restare abbarbicata a questa cornice teorica, la sinistra rinnega persino alcune sue battaglie storiche e ora pare flirtare con il copyright con una fermezza persino superiore a quella dei liberali, quasi ad elevarlo ad ultimo argine contro la supremazia delle multinazionali del software. Così facendo, scompare la tradizione hacker, libertaria, di condivisione del sapere e del codice, tradizione che un tempo ne aveva animato gli slanci più innovativi. Eppure, a ben guardare, quell’ideale di dati aperti, liberati dalle catene dei brevetti e dall’esclusività proprietaria, coincide con la possibilità di intervenire direttamente nel nucleo stesso dell’AI, correggendone i bias estetici, culturali, politici. Se la sinistra accettasse appieno questo principio, potrebbe reclamare i mezzi di produzione: non limitandosi a protestare contro l’algoritmo, ma contribuendo a plasmarlo e a migliorarlo, sottraendolo alla logica delle big company e riconducendolo a una sfera collettiva e condivisa. Si rifugia invece in un moralismo esasperato e pur di non rinnegare la sua sfiducia verso la tecnica e il mito diventa vassalla del copyright, che storicamente è uno strumento di controllo del capitale sulle opere e sulla conoscenza. Così, mentre la destra estrema si appropria – spesso abusandone – della tecnologia senza farsi troppi scrupoli, la sinistra si è chiusa in un fortino autoreferenziale, esponendosi al rischio di rimanere indietro nell’alfabetizzazione digitale e lasciando alla propaganda più spudoratamente reazionaria il compito di dominare l’immaginario. Tornare alle origini di quel retaggio anarchico-hacker significherebbe invece recuperare la visione di una rete autogestita, di una creatività condivisa, capace di smontare l’enfasi sensazionalistica sull’AI per restituirla a una dimensione realmente emancipatoria. E di rendere utile questa tecnologia, come spero di aver fatto per questo articolo, per cui come spesso accade ho fatto uso di AI – i critici potranno ora bollarlo come “di destra”.