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Domenica scorsa si sono tenute le elezioni in Georgia, largamente intrepretate dai media occidentali come una prosecuzione con altri mezzi (più o meno pacifici) del conflitto latente fra Europa e Russia. Alla fine, ha vinto con ampio margine il partito di governo Sogno Georgiano e l’opposizione ha rifiutato il risultato elettorale. Matilde Moro – giornalista freelance – racconta il clima nel paese nei giorni del voto.

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Il mio primo viaggio in Georgia risaliva al 2021, tra frontiere blindate per la pandemia e le strade semivuote, turisti pochissimi. Tre anni dopo il volo è ancora lo stesso: Malpensa-Kutaisi, con arrivo alle due del mattino. Il mondo però, dopo la ripresa dal Covid, con una guerra in più nel continente e lo sguardo puntato sul Medio Oriente, è un altro. Le cose sono cambiate anche qui. Anche se il buio fuori dalle ampie vetrate è ugualmente denso, arrivare al piccolo aeroporto, a duecento chilometri dalla capitale, è un’esperienza completamente diversa. L’accoglienza, prima in una fredda e vuota stanza corrispondente a un immaginario tutto sovietico, oggi è delegata a decine di gigantesche, nuovissime bandiere georgiane ed europee che si alternano appese al soffitto e sui banconi della dogana. Sui pilastri invece sono appiccicati cartelloni di informazioni in varie lingue costellati di QR code e loghi di Frontex. 

Nemmeno le quattro ore di corriera per raggiungere Tbilisi sono cambiate, così come gli ampi tratti di strada nell’oscurità completa, senza lampioni. Si arriva alle prime luci dell’alba in Piazza della Libertà – Tavisuplebis moedani in georgiano, dove il significato letterale della parola tavisuplebis è letteralmente “Dio di sé stessi”. Anche la città è come la ricordavo, viva e un po’ scrostata, sempre in movimento. Sono i suoi muri ad attirare subito la mia attenzione: raccontano una storia, una divisione diversa e nuova. La bandiera dell’Unione Europea è ovunque, sotto forma di graffiti, insieme a quella ucraina e alle innumerevoli scritte contro la Russia. Ma ad ogni scritta corrisponde una risposta, in una specie di dialogo infinito: così le bandiere vengono barrate da grande X rosse, i FUCK RUSSIA diventano FUCK EU. Sets the mood

Questo contrasto, in effetti, riemerge in ogni aspetto della vita georgiana. La tensione tra eredità europee da un lato e russe (o meglio, sovietiche) dall’altro, tra pressioni e ingerenze dell’una e dell’altra parte, è costante. Quasi fosse parte integrante dell’identità georgiana. D’altronde, come sostiene l’antropologo sociale Fredrik Barth, l’identità del gruppo si costruisce per contrapposizione con l’altro e, come nota l’autrice Erika Fatland nel suo La Frontiera, “è sul confine e nell’incontro con ciò che è estraneo che prendono forma l’identità e le differenze culturali”. La Georgia ne è un esempio perfetto.

Le contraddizioni del paese si mettono in mostra con rinnovato vigore in occasione delle elezioni. Ancora una volta, a parlare è prima di tutto lo spazio pubblico: ovunque in città si vedono i giganteschi manifesti elettorali del partito di governo Kartuli Otsneba, Sogno Georgiano, fondato dall’oligarca Bidzina Ivanishvili e che prende il nome da una canzone trap di suo figlio. Ivanishvili, il cui patrimonio personale ammonta a circa il 20 percento del PIL del paese, è stato capace di mettere in campo risorse economiche sproporzionate rispetto a tutte le coalizioni di opposizione. Sogno Georgiano ha condotto una campagna elettorale piuttosto omogenea, fondata su un concetto semplice: votaci per mantenere la pace nel paese. I manifesti non cercano di vendere ai cittadini un nome o una personalità politica da votare, ma piuttosto un’idea. I manifesti, per la maggior parte, sono divisi a metà: sulla sinistra una scena della guerra in Ucraina in bianco e nero e sulla destra un’immagine a colori della Georgia in pace. In effetti il parallelismo con l’Ucraina è utilizzatissimo nel paese, invaso dalla Russia nel 2008 con un pretesto simile a quello con cui è stato invaso il Donbass, con due delle sue regioni, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, che sono sotto occupazione da allora. E, proprio come l’Ucraina, anche la Georgia ha da tempo aspirazioni europee.

Per contrastare l’apparente nuova linea filorussa di Sogno georgiano, come sembrano suggerire le recenti leggi sugli agenti stranieri e quella contro la propaganda LGBT, si sono costituite quattro coalizioni: United National Movement, il partito dell’ex-presidente Saakashvili che ora è detenuto in una clinica penitenziaria, Strong Georgia, Coalition for Changes e Gakharia for Georgia. Le opposizioni sono unite tra loro dalla cosiddetta “Carta Georgiana”, patrocinata dalla Presidente Salome Zourabichvili: un patto in cui i partiti si sono impegnati, se eletti, a portare avanti come priorità la riforma del voto e l’integrazione europea, per poi indire nuove elezioni. Con questa mossa, Zourabichvili si è messa di fatto alla guida delle opposizioni – un fatto quantomeno insolito per un capo di Stato.

Il messaggio del governo verte invece sulla pericolosità di votare le coalizioni, sulla base del fatto che un avvicinamento troppo brusco all’Unione o peggio ancora alla NATO, porterebbe a una nuova invasione. Un’idea non completamente infondata. “A livello di soft power,” mi spiega Amiran Kavadze, professore di relazioni internazionali ed ex-ambasciatore delle Georgia in sei diversi paesi europei, “le pressioni più forti le subiamo dall’Unione Europea, ma d’altra parte i russi non ne hanno alcun bisogno: hanno una base militare a venti chilometri dalla città. Se vogliono, in mezz’ora sono a Tbilisi”. Siamo seduti in un caffè del centro, una pasticceria in stile francese, e Kavadze mi sta parlando delle ingerenze esterne nella politica georgiana: “in tanti pensano di venire qui e spiegarci come condurre la nostra politica interna, come sviluppare le nostre policy o che riforme fare, ma paesi come la Svizzera o la Germania non sanno che cosa significa avere un vicino come la Russia”. “Guardati attorno,” continua, bevendo l’ultimo sorso del suo latte, “è chiaro che la Georgia appartiene all’Europa, noi ci sentiamo profondamente europei, ma non sono sicuro che l’Europa che vogliamo sia quella che ci propone Borrell”. 

In ogni caso, l’alternativa, ossia mantenere questo governo, non sembra essere un’opzione migliore. A parte le due leggi di ispirazione russa, nell’ultimo anno, Sogno Georgiano non ha partecipato a nemmeno un dibattito con esponenti dell’opposizione e l’attuale primo ministro Irakli Kobakhidze ha dichiarato pubblicamente, a due settimane dalle elezioni, che in caso di vittoria avrebbe “reso l’opposizione incostituzionale”. Uno dei punti più forti per SG è l’economia: dal 2021 il deficit della Georgia si è quasi dimezzato, con tasso di crescita atteso per il 2024 del 7,5% e la disoccupazione è ai minimi storici. Bisogna ammettere che questi numeri sono un prodotto più dell’attuale situazione geopolitica che non del buongoverno, visto che dallo scoppio della guerra la Georgia è diventata una meta privilegiata per i cittadini sia ucraini che russi che non potevano o non volevano restare nei propri paesi. Decidendo di non applicare sanzioni economiche contro la Russia, la Georgia si è guadagnata anche un ruolo di rilievo negli scambi economici tra l’Occidente e la Russia: “dal 2022,” mi spiega sempre Kavadze, “si sono registrate in Georgia più di 30mila nuove aziende russe”.

Qualche giorno dopo, sono in macchina verso Gori, la città natale di Stalin. È il 26 ottobre, i seggi hanno aperto da un paio d’ore e la tensione è altissima. Le strade di Tbilisi, che mi sto lasciando alle spalle, erano semideserte. I pronostici distribuiti da Sogno Georgiano lo danno al 60%, ma anche l’opposizione è sicura di essere in vantaggio: “se le elezioni saranno giuste ed eque,” mi ha detto qualche giorno fa Giorgi Arziani del Think Tank Tbilisi Institute for Social Research, “l’opposizione non potrà che vincere”. Gori, come Tbilisi, è tranquilla e ordinata. Diligenti, le responsabili dei seggi in cui entro, tutte donne, mi mostrano le cabine elettorali, mi spiegano con pazienza come funzionano voto e identificazione. Le code fuori da scuole e asili sono ordinate, alle 10 del mattino, in un seggio di Gori, l’affluenza ha già superato il 30%, quando si vota dalle 8. Molta gentilezza, molti sorrisi. Apparentemente, niente da segnalare: non fosse per delle piccole, rettangolari, discrete telecamere presenti in tutti i seggi sopra un piedistallo. Mi spiegano che sono di Sogno Georgiano. “Mostrano la scena in live?”, chiedo. “Sì,” risponde una giovane osservatrice indipendente; “no,” la corregge la collega del partito di governo. 

A Marneuli, città a maggioranza azera, la situazione cambia. Il voto è caotico, ben distante dal lineare e disciplinato paradiso elettorale di Gori. Nel primo seggio che visito, una signora entra e va dritta alla cabina a votare, senza registrarsi. Incontro Davit, esponente di UNM, parla non solo di brogli, ma anche di intimidazioni e di violenze. È il caso di Azad Karimov, rappresentante locale di UNM, che poche ore fa è stato attaccato da una ventina di uomini fuori da un seggio, tra cui il rappresentante locale di Sogno Georgiano e altri iscritti al partito. Lo incontro in ospedale, ha diverse fratture in viso, aspetta che lo operino: “l’attacco non è stato inaspettato,” mi racconta, “già prima delle elezioni avevo ricevuto diverse minacce, tentativi di corruzione, mi hanno persino offerto di fare un viaggio in Europa questo weekend”. Dopo il pestaggio, nonostante la polizia fosse presente sulla scena, non c’è stato nessun arresto. Gli osservatori internazionali sono impegnati a Tbilisi e così a Marneuli Azad sta in ospedale e SG raggiunge il 79% dei voti.

I seggi chiudono mentre sono di nuovo in macchina per tornare a Tbilisi. I primi exit-poll danno le coalizioni in vantaggio mentre Sogno Georgiano sarebbe a poco più del 40%. Ivanishvili festeggia dal palco della vittoria, il cui allestimento era iniziato già dal pomeriggio. Nel frattempo iniziano a girare su internet video di pullman delle forze speciali in arrivo davanti al parlamento, qualcuno twitta che la polizia sta chiudendo alcune strade. Dopo le proteste di aprile e maggio, contro la prima “legge russa”, ci si aspettano disordini da un lato, repressione dall’altro, ma in realtà al mio arrivo trovo la città deserta come l’avevo lasciata, quasi nessuno in giro. Non c’è più nessuno alla sede di Sogno Georgiano, quella di UNM, invece, è piena di giornalisti internazionali in un clima di attesa. Arrivano i risultati ufficiali che restituiscono una situazione ribaltata, col partito di governo dato oltre il 50%. Gli esponenti delle coalizioni, mi fa sapere uno dei portavoce, sono in riunione, presto rilasceranno una dichiarazione. Poco dopo arriva il verdetto, unanime: “rifiutiamo il risultato delle elezioni”. 

La sensazione è quella di aver vissuto, per tutta la giornata elettorale, in due mondi paralleli. Uno reale, fatto di file ai seggi, di ordine o caos, disciplina o violenza, e l’altro digitale, fatto di dichiarazioni altisonanti, sommi capi, botta e risposta. A dispetto della foga nei commenti online, nella realtà non succede niente. Non succede quasi nulla nemmeno lunedì sera, alla grande manifestazione convocata da Zourabichvili e dalle opposizioni. In piazza ci sono decine di migliaia di persone, ma in realtà l’evento più che a una rivolta popolare somiglia a un comizio. Dopo i discorsi di tutti gli esponenti delle opposizioni, dopo aver cantato l’inno georgiano e l’inno alla gioia, la folla si disperde ordinatamente per tornare a casa. 

Solo allora, davanti ai pochi giornalisti rimasti, spenti riflettori e altoparlanti, con un grosso megafono in mano, salgono sul palco gli studenti di Dafioni, il movimento che aveva organizzato le proteste di aprile e maggio. Gridano la loro rabbia. La loro resistenza, finita all’ombra di Zourabichvili e della scintillante politica istituzionale che piace all’Europa, continua a luci spente. Parlo con Zviad, alla testa delle proteste in tutti i mesi passati: “io non mi sento rappresentato dall’opposizione, ma questo vale per tutta la Gen Z, vediamo chiaramente che nemmeno l’opposizione sa cosa fare, non sono neanche riusciti a proteggere le elezioni, e quando nemmeno le elezioni sono democratiche, significa che la democrazia ha davvero perso”. Scesi dal palco, tamburi in mano e passamontagna sul viso, iniziano a cantare e ballare tra le cartacce abbandonate. Uno di loro ha sulla schiena un cartello con una grossa scritta: DECOLONIZE.

Mi tornano in mente le parole di Iraki, conosciuto poco prima nel mezzo della manifestazione, gli avevo chiesto perché ci fosse venuto, e la sua risposta era stata semplice: “sono venuto per stare con la gente, insieme alla mia gente, so bene che tra i politici non c’è nessuno che faccia i nostri interessi, per questo ora l’unica cosa importante è stare insieme”. La politica prosegue sui suoi binari per tutti i giorni successivi. Gli osservatori internazionali denunciano brogli in almeno il 24% dei seggi, c’è un parziale riconteggio. L’Europa congela lo stato di candidato della Georgia. Zourabichvili viene convocata nell’ufficio del procuratore generale per rilasciare una testimonianza sui brogli, ma non si presenta. Le persone si organizzano per tornare in piazza, continua l’attesa. La Georgia intanto è sempre qui, tra l’Occidente e la Russia, tra pressioni diplomatiche e carri armati, terra di confine. Forte della sua identità, definita in tutte le sue contraddizioni e sfaccettature, come ogni altra, per contrasto.


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