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Da mesi il conflitto a Gaza è l’argomento numero uno sui media e nel dibattito pubblico di tutto il mondo – e adesso il conflitto sembra sul punto di allargarsi al Libano e al resto della regione. In tutto questo, è rimasta in secondo piano la situazione in Cisgiordania, il territorio palestinese da più tempo sottoposto all’occupazione diretta israeliana. Matilde Moro – giornalista freelance – racconta il suo viaggio oltre il muro di separazione.

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C’è un pezzo di terra sul mare, c’è un confine, poi una frontiera e una città antica, Gerusalemme, forte e fragile nella sua pietra millenaria. Poi c’è un muro lungo 670 chilometri: lo attraverso a piedi, passando dal checkpoint 300. Visto da dentro, il muro è quasi più solido e spoglio che da fuori, facilmente valicabile con un passaporto europeo come il mio. Dall’altra parte, il tassista Ayoub accoglie chi può passare con un sorriso: “benvenuti dal lato triste del muro” dice a chi arriva, con un sorriso aperto e un pizzico di malinconia nello sguardo. Lui, palestinese originario del campo di Aida, per attraversare il passaggio da cui gli stranieri entrano ed escono senza problemi ha bisogno di un permesso speciale delle autorità israeliane, quasi mai concesso – e così sono anni che non mette piede dall’altra parte.

Il lato palestinese del muro, appena si entra a Betlemme, offre uno scenario decisamente diverso, fatto di scritte e graffiti colorati. Dietro la prima curva, un ritratto alto venti metri di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa nel 2022 dalle forze di sicurezza israeliane, annuncia per l’ultima volta “live news, still alive”. Ayoub si rivela essere una guida esperta dei graffiti: “prima della guerra vivevamo di turismo, ora di qua non viene più nessuno e non abbiamo più lavoro”. Il turismo ha lasciato Betlemme e le conseguenze si avvertono ovunque in città: dai bar vuoti oppure chiusi alle navate della Cattedrale della Natività completamente deserte, alle parole di negozianti e ristoratori, fino agli inutilmente numerosi taxi che girano costantemente a vuoto per le strade. 

Gerusalemme e Betlemme, lontane appena una decina di minuti di auto l’una dall’altra, non sono mai state così distanti. Una distanza che fra Alberto Joan Pari, Segretario dei Custodi della Terra Santa, che da 800 anni hanno una sede in entrambe le città, conosce e monitora da vicino: “se prima trovare un equilibrio era più facile, dopo il 7 ottobre abbiamo dovuto ripensare tutto, abbiamo avuto un momento di crisi in cui chi lavorava nel dialogo interreligioso ha visto crollare decenni di lavoro”. La polarizzazione, il distacco tra le religioni e culture che animano Gerusalemme, secondo fra Alberto, sono prima di tutto frutto della poca conoscenza e della tendenza a dare giudizi affrettati: “la facilità con cui si emettono giudizi su quello che sta avvenendo è incredibile, noi come chiesa locale abbiamo cercato di avere un silenzio che cercasse di comprendere e di accogliere. Sarebbe bene prima di emettere qualsiasi giudizio avere un minimo di bagaglio culturale e storico su come si è arrivati al 7 ottobre. L’ignoranza riguarda anche la popolazione locale, purtroppo molti tra nuove generazioni non sanno cosa è stato prima del ‘48, cosa è stato tra il ‘48 e il ‘67, gli anni del grande terrorismo all’inizio 2000, le intifade”. 

A Betlemme, sono anche le cose più semplici a rivelare una distanza incolmabile, un sistema di oppressione radicato e studiato al minimo dettaglio, perfino gli scaffali del supermercato. Tre le fasce di prezzo, la differenza si impara in fretta: i prodotti più costosi sono quelli palestinesi, a causa dei dazi imposti da Israele; di contro, grazie alle agevolazioni sulle importazioni, i prodotti israeliani sono sensibilmente più convenienti, ma i più economici – nonché gli unici che la gente può permettersi – sono quelli prodotti nelle colonie dei Territori Occupati, che non pagano acqua ed elettricità e non hanno quindi sostanzialmente spese. In questo modo i consumatori, dal lato palestinese, non hanno altra scelta che nutrire il sistema che li opprime, sottraendo loro spazio fisico e politico. 

Proprio l’espropriazione della terra palestinese a favore delle colonie è forse la modalità più concreta attraverso cui si articola il regime di apartheid israeliano, la più evidente e brutale. “Mentre gli occhi dell’Occidente guardano e denunciano le azioni genocide di Israele a Gaza,” commenta Michele, attivista dell’ong italiana Mediterranea Saving Humans, “nei Territori Occupati della Cisgiordania le forze di Occupazione stanno accelerando la loro azione di costante pulizia etnica, portando avanti il regime di apartheid costruito e perfezionato nel tempo ai danni della popolazione palestinese”. Mi parla seduto su una panchina improvvisata, fatta di materiali edili di scarto, nel piccolo villaggio di At-Tuwani, sulle colline a sud di Hebron e quindi in zona C, quella sotto completo controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo. È arrivato da pochi giorni, ma porta già sulla pelle la manifestazione più violenta dell’occupazione israeliana: solo poche ore fa, nel villaggio di Um Fagarah, in cui si trovava insieme ad altri attivisti internazionali e palestinesi, è stato vittima di un attacco dei coloni durante un pogrom. Ha un occhio gonfio, un taglio sulla guancia destra. 

Mediterranea è attiva qui da meno di due mesi, mi spiega Michele, a supporto di Operazione Colomba, che da più di vent’anni porta avanti attività di interposizione nonviolenta al fianco al movimento palestinese Youth Of Sumud. La situazione in Cisgiordania, conferma anche lui, ha subito un’escalation negli ultimi mesi: “dopo il 7 ottobre, la violenza è aumentata esponenzialmente con numerosi arresti e aggressioni fisiche contro la popolazione palestinese e gli attivisti che vengono qui da tutto il mondo. Noi scegliamo di essere qui con una presenza continuativa anche per agire come osservatori internazionali, per far conoscere nel nostro paese le quotidiane violazioni dei diritti umani che avvengono in queste terre”. Appoggiare la resistenza nonviolenta, nata proprio a Tuwani negli anni ’90, soprattutto in questo momento, per loro significa lottare per quello che resta di umano e che ci riguarda tutti, come il diritto di restare sulla propria terra, l’accesso all’acqua e ai beni più basilari, ma anche la libertà di movimento: “Nella natura di Mediterranea la lotta per la libertà di movimento di tutti è un valore centrale. Come nel Mediterraneo, anche in Palestina lottiamo perché la possibilità di muoversi liberamente non sia un privilegio per pochi, ma un diritto per tutti”. 

Di diritti, della differenza sproporzionata tra quelli di cui godono Israeliani e Palestinesi, parla anche Guy Butavia, mentre mi riceve nel salotto di casa sua a Gerusalemme. Guy è un attivista del movimento Taayush, nato nel 2000 e composto da israeliani che mettono il proprio privilegio a servizio della popolazione palestinese: “Per tutta la vita ho visto coloni israeliani andare in giro armati a controllare i palestinesi e ho visto i palestinesi che venivano molestati ogni giorno, bloccati ai check point, fermati, arrestati”. 

Nato proprio nel 1967, proprio a Gerusalemme, Guy conosce bene le strategie dell’occupazione perché ci è cresciuto in mezzo: “Mio nonno era un sopravvissuto all’Olocausto e un partigiano, è cresciuto in Polonia e tutta la sua famiglia tranne un fratello è stata uccisa dai nazisti. Crescendo ho capito che tutto ciò era accaduto a causa del razzismo e alla discriminazione, ho capito che per questo lui e la sua comunità erano discriminati, e con il tempo ho compreso che da vittime dei nazisti eravamo diventati oppressori di altre persone, del popolo palestinese”. 

Nessuna illusione sulla possibilità che Israele possa trasformarsi in qualcosa di diverso e più giusto: “Più del 90% del parlamento crede in uno stato ebraico e democratico, il che altro non può essere che uno scherzo. Io lo chiamo stato ebraico suprematista democratico, ma è comunque uno scherzo. Non si può credere nella supremazia ebraica e nella democrazia insieme, non si può credere nei diritti per gli ebrei e meno diritti per i non-ebrei e sostenere che questa sia una democrazia: è solo un bluff”. 

Anche Lior Fogel è israeliana, ha 18 anni ed è attiva nel movimento di obiezione di coscienza Mesvarot, oltre che nel Radical Block anti-occupazione che popola le manifestazioni contro il governo di Netanyahu ogni sabato. La incontro nella sede di Left Bank, un centro sociale a Tel Aviv. Appesi alle pareti ritratti e poster colorati che spaziano dal Subcomandante Marcos a Che Guevara, da Marx alle Donne in Nero. Lior, diversamente da Guy, ha negli occhi una speranza più nuova e fresca, fatta di lotta, determinazione, ma anche grande consapevolezza: “Questo è un posto schifoso in cui crescere, con così tanti problemi,” dice parlando di Tel Aviv, la città in cui è nata, e dello stato di Israele “ma io ho la speranza che possiamo cambiarlo. È una visione molto ottimistica, lo so, ma qualcuno deve pur rimanere qui e lavorare per cambiare le cose. Altre persone, come i palestinesi di Gaza, o i palestinesi del ’67, le persone ai margini della società o quelle che non possono andare all’estero rimarranno qui, e questo posto continuerà a essere semplicemente questo posto se le persone non cercheranno di cambiarlo”. 

In Cisgiordania muri e confini sono talmente fluidi e in continuo movimento da rivelare meglio che in qualunque altro luogo la loro artificialità, spacciata per fatto naturale. E in questo spazio si inserisce la storia, recente e meno, in tutta la sua drammaticità. Poi però succede che i pezzi più imprevedibili di questa storia inaspettatamente convergono, si incastrano. Le parole di fra Alberto, frate francescano in Terra Santa, italiano e cattolico, e quelle di Lior, giovane comunista israeliana, che non si sono mai incontrati, si specchiano, a monito, quasi perfettamente le une nelle altre: “se Israele riesce a fare un cambio radicale,” questa la conclusione di fra Alberto durante il nostro incontro, “se riesce a cambiare totalmente e a trovare un dialogo, apertura, costruzione di ponti tra tutte le società che qui convivono, allora avrà un futuro, altrimenti no e imploderà”. 


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