Donald Trump non ha iniziato il suo cammino verso la vittoria elettorale di mercoledì quando si è rialzato urlando “Fight! Fight! Fight!”, appena dopo essere scampato per miracolo all’attentato di Butler. Certo, è stata una scena iconica e le immagini del momento hanno cementato la base – specialmente quella evangelica – attorno al mito del martire graziato da Dio per salvare l’America. Ma per l’appunto, Trump non ha iniziato a vincere quando si è rialzato; l’ha fatto quando si è seduto davanti a dei microfoni Shure SM7B nei confortevoli salotti dei podcaster su YouTube. E nella fase finale della campagna si è seduto decine e decine di volte, parlando amabilmente di UFO, football, sport di combattimento, wrestling, dipendenze, aneddoti personali e (solo occasionalmente) di politica con una schiera di creator – tutti rigorosamente maschi e bianchi – seguiti da milioni di persone. I numeri delle apparizioni di Trump in questi podcast sono a dir poco impressionanti. Giusto per citarne alcuni: l’intervista a IMPAULSIVE di Logan Paul ha raggiunto 6,7 milioni di visualizzazioni; la conversazione con lo stand up comedian Theo Von è arrivata a 14 milioni; e quella di tre ore con Joe Rogan, il podcaster più famoso e seguito al mondo, veleggia su 46 milioni. Se poi a tutto questo si sommano le registrazioni audio su Spotify, le clip disseminate tra TikTok e Instagram e gli shorts di YouTube, il calcolo diventa ancora più astronomico. Solo a guardare queste cifre si capisce bene perché, rispetto al 2016 e anche il 2020, Trump abbia un po’ snobbato la televisione: semplicemente non ne aveva più così tanto bisogno.
L’assidua frequentazione dei podcast da parte di Trump è senz’ombra di dubbio una delle novità mediatiche più rilevanti di questo ciclo elettorale, e rientra in una precisa strategia elettorale della campagna del candidato repubblicano. L’hanno riconosciuto esplicitamente i suoi stessi consulenti, ammettendo che “avere a che fare con podcaster, comici e influencer permette di far emergere il lato umano del presidente Trump, una cosa che non si può fare con i media mainstream” – come ha detto a Forbes Alex Bruesewitz. E soprattutto, aggiungo io, elimina ogni forma di mediazione giornalistica: i podcaster pendono dalle labbra di una celebrità come Trump, e non hanno le capacità, né la voglia o tantomeno l’intenzione di metterlo in difficoltà su questioni politiche.
Come ha spiegato alla Columbia Journalism Review un altro consulente trumpiano, “quando sei in televisione c’è un limite a quello che puoi dire, devi comunque smussare le tuep dichiarazioni. Ma sui podcast sei in un ambiente più rilassato, dove puoi parlare della tua pizza preferita e apparire molto meno distante e ingessato del solito”. Chiaramente, Trump è stato mandato dalla sua squadra (e in particolare dal figlio Barron, un diciottenne) in quegli spazi con un obiettivo ben preciso: massimizzare l’impatto presso la fascia giovanile maschile, la stessa che secondo vari sondaggi è sempre più conservatrice – mentre quella femminile è sempre più progressista – ma al contempo particolarmente difficile da mobilitare per il voto. “Ci sono tuoi potenziali elettori che non guardano la tv, e nemmeno Fox News, ma seguono questi podcast”, ha spiegato il consulente di cui sopra; e in effetti il pubblico dei vari Rogan e Theo Von è formato quasi esclusivamente da giovani maschi in prevalenza bianchi – ma non solo – completamente immersi nella cosiddetta bro culture (dove “bro” è il diminutivo di “brother”, “fratello”).
Si tratta di una subcultura associata al mondo dei college e delle confraternite studentesche, e più in generale a qualsiasi ambiente sociale maschile caratterizzato da una forma di complicità tossica che sfocia in atteggiamenti ipermaschilisti, reazionari e transmisogini. Negli ultimi anni la categoria si è declinata in tanti modi diversi, venendo progressivamente utilizzata per descrivere comunità di giovani maschi in fissa con la palestra e gli steroidi (i gym bro), la tecnologia e l’informatica (i tech bro), oppure le criptovalute (i crypto bro). E in questo senso bisogna ricordare che, già da prima delle elezioni, Trump era visto di buon occhio da tutte le comunità che si muovono principalmente nella cosiddetta “manosfera”, la galassia di internet fatta di gruppi sessisti ed antifemministi in cui rientrano tra gli altri incel, attivisti per i diritti degli uomini e dating coach.
Secondo una rilevazione di FDU Poll, ad esempio, il candidato repubblicano aveva un vantaggio di dodici punti percentuali su Harris (50 a 38) presso gli investitori in criptovalute; e nel campione, il 43% di questi era under 30. Per quanto questo fatto possa apparire sconnesso, ancora una volta la connessione con il mondo dei bro è in realtà evidente: secondo Dan Cassino, politologo e professore della Fairleigh Dickinson University, le criptovalute sono uno dei mezzi con cui i giovani statunitensi cercano di raggiungere gli standard esigentissimi – e in larga parte irrealizzabili – imposti dal sistema patriarcale.
Sebbene sia uno strumento finanziario estremamente instabile e volatile, buttarsi nel mondo delle criptovalute è visto come un’alternativa preferibile ad altri percorsi più tradizionali, ma soprattutto come un modo di affermarsi all’interno di un’economia segnata da lavoro precario, inflazione, perdita del potere d’acquisto, salari bassi e crisi ricorrenti. Per i crypto bro, in sostanza, le criptovalute sono una via d’accesso preferenziale al successo finanziario e sociale – e quindi all’affermazione libera e definitiva della propria virilità. E a tal proposito, non stupisce che spesso e volentieri i crypto bro siano anche dei gym bro, cioè dei palestrati: esattamente come gli investimenti in cripto, anche i muscoli diventano una corazza per difendere una mascolinità fragile minacciata dai femminismi, dall’“ideologia gender” e dalla cultura woke.
Questa necessità di protezione si traduce inevitabilmente nell’adesione a rigidi stereotipi di genere, che a loro volta portano a schierarsi politicamente a sostegno di quantipromettono di mantenere i privilegi acquisiti e lo status quo. Trump – che è a tutti gli effetti l’incarnazione stessa della mascolinità tossica – ha intercettato questa richiesta e, come ha scritto Cassino, “ha lanciato un salvagente” ai giovani maschi e alle varie comunità bro. Le quali, da parte loro, hanno raccolto l’offerta con grande trasporto. Secondo una rilevazione post-voto di Associated Press, più della metà dei maschi tra i 18 e i 29 anni ha optato per Trump. Rispetto alle presidenziali del 2020, parliamo di uno spostamento a destra di quasi trenta punti percentuali. In un certo senso la cultura bro e il suo apparato social-mediatico hanno ricoperto il ruolo che nel 2016 avevano avuto l’alt-right e 4chan, ovvero ponendosi come la chiave universale per aprire il forziere del voto maschile giovanile, che alla fine è risultato cruciale in tutti gli stati in bilico. L’ha riconosciuto anche Dana White – presidente dell’UFC (il campionato statunitense di arti marziali miste) e amico di lungo corso di Trump, che la sera delle elezioni ha ringraziato dal palco del Palm Beach Convention Center proprio i podcaster e gli influencer che hanno ospitato nei loro canali il candidato repubblicano.
Ma a ben vedere, la rilevanza dei bro è andata ben oltre la conquista di una precisa fascia demografica. Trump ha infatti potuto contare sull’appoggio della comunità più importante e potente di tutte – i broligarchi della Silicon Valley. Se nel 2016 Peter Thiel – fondatore di PayPal e tra i primi investitori di Facebook – era praticamente l’unico magnate di alto profilo del settore ad aver appoggiato Trump, nel 2024 l’hanno seguito diversi membri della cosiddetta “Paypal Mafia”. Naturalmente, l’esempio più clamoroso in tal senso è Elon Musk – il bro più ricco del mondo, nonché l’ideale di mascolinità verso cui tendono moltissimi giovani. In passato elettore democratico e profondamente critico del negazionismo climatico di Trump, l’imprenditore sudafricano è recentemente andato incontro ad un rapidissimo processo di radicalizzazione politica, che lo ha infine portato a sostenere il candidato repubblicano e a pompare centinaia di milioni di dollari nella sua campagna, ma non solo. Musk si è esposto in prima persona, ad esempio prendendo parte a diversi comizi, dove oltre a saltellare e fare facce strane ha promosso oscuri meme estremisti; partecipando a diversi podcast (tra cui quello di Joe Rogan, pubblicato il giorno stesso del voto); e trasformando X in una macchina di propaganda trumpiana.
Da un punto di vista squisitamente personale, la scommessa di puntare su Trump è già stata ripagata: dopo le elezioni Musk è diventato più ricco di 20 miliardi di dollari. Ma dal punto di vista politico-economico le vere soddisfazioni arriveranno nel futuro prossimo, quando la nuova amministrazione implementerà un piano di tagli fiscali e deregolamentazione talmente tanto spinto da far impallidire Ronald Reagan. Chiaramente, queste misure andranno tutte a vantaggio dei broligarchi che non solo diventeranno ancora più oscenamente ricchi e potenti, ma avranno la possibilità di accaparrarsi pezzi dello stato e di sostituirli integralmente con i loro servizi. Un po’ come già fa Musk con Starlink e SpaceX; e un po’ paradossalmente, ma nemmeno troppo, come avevano già fatto – in scala maggiore – gli oligarchi russi negli anni Novanta.
Insomma: se i bro che ascoltano i podcast hanno scelto Trump per proteggere la loro mascolinità in pericolo, Musk e i broligarchi hanno fatto lo stesso per proteggere i loro interessi, che sono comunque inconciliabili con quelli del resto della popolazione e – in definitiva – con il regolare funzionamento di uno stato democratico. Non a caso, Trump è salito al potere con una piattaforma che punta a trasformare gli Stati Uniti in uno stato autoritario per i nemici e ultra-lassista per i suoi amici. Ma del resto, come diceva Peter Thiel, la libertà – la loro libertà – non è per forza di cose compatibile con la democrazia.