In copertina: una spada realizzata con il metallo di un aereo americano abbattuto, donata dal Partito comunista del Laos al Partito comunista del Vietnam nel 1973. L’unica arma in grado di uccidere Henry Kissinger.
Gli americani sono tutti cretini. Adoriamo ripetercelo e sentirci migliori di loro, poco importa se ci hanno soffiato il dominio del mondo. Sono tutti cretini e ogni volta che i fatti smentiscono quest’idea ci sbrighiamo a ricercare l’elemento europeo nascosto nell’americano non idiota. C’è un solo caso di cittadino statunitense distintosi per la propria straordinaria intelligenza che nessuno in Europa si è mai voluto rivendicare, malgrado qui sia nato e qui abbia le sue radici culturali: Henry Alfred Kissinger.
Nato a Fürth, in Baviera, Heinz arriva negli Stati Uniti nel 1938 ormai quindicenne come profugo in fuga dal regime nazista. Per chi non lo paragona a Machiavelli, l’origine tedesca vuol dire una sostanziale identificazione con la Realpolitik di Bismarck e Morgenthau, ma il profilo intellettuale di Kissinger è alla prova dei fatti troppo complesso per essere semplicemente accostato al realismo. Con questa scuola, Kissinger condivide quasi solo il punto di partenza: l’idea dell’anarchia come condizione di partenza delle relazioni internazionali – al punto da definire la storia stessa come il continuo “tentativo di trarre ordine dal caos”. Da qui si muovono nel suo pensiero due direttrici fondamentali ed apparentemente contraddittorie: da un lato l’entusiastica fede nell’affermarsi della Ragione nella pace perpetua, dall’altro la convinzione che ogni società sia irrimediabilmente destinata al declino. L’essenza di Kissinger come teorico e politico va quindi individuata in questa peculiarissima convivenza di Kant e del Kulturpessimismus di Spengler e Toynbee, già tema della sua tesi di laurea ed in ultima istanza interpretabile come un ottimismo consapevole delle pesanti limitazioni imposte dai vincoli storici e materiali. Il realista per antonomasia si rivela come un idealista (come titola la sua biografia) per quanto pragmatico.
Da qui la celebrazione dello statista come colui che è capace di “manipolare la realtà” e ha “la forza di contemplare il caos e trovarvi materiale creativo”. Tale ideale superomistico ha il suo opposto negli apparati burocratici, incatenati al presente ed incapaci di concepire la storia nella propria unitarietà. E dunque ecco l’attitudine autoritaria dimostrata dal bavarese negli anni al potere, il suo operare spesso all’oscuro del Dipartimento di Stato e del Congresso, paragonandosi a un “cowboy che guida la carovana cavalcando da solo”. Ed ecco anche la predilezione per i ristretti concerti di potenze come migliore garanzia possibile di pace mondiale. Kissinger ama fare riferimento alla pace di Vestfalia, che nel 1648 chiuse la guerra dei trent’anni stabilendo il principio del cuius regio, eius religio – da lui interpretato come la nascita del “concetto di non interferenza negli affari interni degli altri stati” – ma il suo effettivo operato diplomatico suggerisce un modello differente, quello del congresso di Vienna, della Santa Alleanza, della Restaurazione permanente in nome dell’ordine e dell’equilibrio. Un modello che implica una fortissima responsabilizzazione degli egemoni. Per questo Kissinger criticherà duramente Gorbachev per la frettolosa ritirata sovietica dall’Europa orientale e sempre per questo nel 1969 si sentirà a suo agio nello scherzare dicendo che lo scoppio di una crisi andava rimandato perché “la mia agenda è già piena”.
Un modello che lo porta anche a mal sopportare la decolonizzazione, a denunciare i movimenti antimperialisti come una minaccia alla divisione del mondo fra USA e URSS. Rientra in questo contesto l’aspetto più famoso della sua carriera, ovvero l’uccisione di decine di migliaia di attivisti di sinistra sudamericani nella famigerata Operazione Condor e l’organizzazione del colpo di Stato in Cile contro il governo Allende nel 1973. Ma non c’è solo l’America Latina: da capo della politica estera di Washington non si fece scrupoli a sostenere regimi anticomunisti in Portogallo, Grecia, Sudafrica e Zaire; a bombardare illegalmente la Cambogia, e sostenere la guerra del Pakistan contro il Bangladesh e l’invasione indonesiana di Timor Leste. Il tutto sempre nel nome della pace mondiale.
La trafila di crimini compiuti su ordine Kissinger è sorprendentemente lunga anche per gli standard del Novecento. Che ci si creda o meno, nella teoria di Kissinger tutto questo sangue si può giustificare moralmente. Nella sua visione, l’etica è inevitabilmente presente nell’operato di qualunque uomo di Stato, per quanto cinico provi a presentarsi, nella convinzione che la morale senza il potere non sia che un giustificativo per l’immobilismo politico. L’incontro di morale e potere è da lui chiamato “legittimità”, ovvero “l’accordo internazionale circa l’ammissibilità in politica estera di certi obiettivi e metodi” che garantisce la pace, condizione necessaria per l’affermarsi della giustizia. Un Mefistofele al contrario che eternamente vuole il Bene ed eternamente opera il Male, insomma.
Le novità del XXI secolo, secondo Kissinger, sono la rivoluzione informatica e la progressiva dissoluzione dello Stato-nazione, entrambi elementi figli della globalizzazione, che a sua volta è figlia (anche) di Kissinger: senza il rapprochement sino-statunitense da lui voluto la Cina dengista non sarebbe potuta diventare un interlocutore presentabile sulla scena internazionale e un partner commerciale fondamentale per gli Stati Uniti. È qui che Kissinger rivela l’aspetto più kantiano del suo profilo, la convinzione che gli scambi commerciali siano di per sé capaci di promuovere la pace. In un mondo regolato dal diritto cosmopolitico, infatti, gli Stati Uniti avrebbero finalmente modo di forgiare il mondo a propria immagine e somiglianza. Ed è qui che Kissinger compie il più grosso errore della propria carriera: individua la minaccia per questo sistema nella radicalizzazione dei perdenti della globalizzazione – mentre invece sono stati i vincenti, Cina in testa, a proporsi come gli avversari più seri all’ordine unipolare.
Il problema del mondo attuale, ha affermato nel 2016, è “l’aumento dei territori non governati”. Tradotto: il concerto di potenze è diventato troppo debole, complice il sovraccarico di responsabilità sulle spalle di un’America scopertasi meno solidamente in cima al mondo del previsto, non condivise da una Cina che, a suo dire, non ha ambizioni globali e ambisce solo al proprio riconoscimento. Una visione che omette l’elemento di lotta di classe insito nella crescita economica cinese – d’altronde niente di sorprendente per un anticomunista militante. Evitando sia di arroccarsi in scontri di civiltà sia di imbarcarsi in crociate ideologiche, Kissinger ha trasceso realismo e idealismo classici. Finendo però per cadere in un multipolarismo che è una forma di universalismo astratto, incapace di riconoscere la particolarità dei singoli contesti culturali e politici. Rimosso anche l’imperativo morale, ne risulta un operato politico che riduce tutto all’interesse delle potenze dominanti, spiccando per cinismo e crudeltà. Forse è così che ci si guadagna la nomea del nazista sia per l’estrema sinistra sia per Zelenskyi.
Kissinger non si sente un pessimista, lui è solo uno che studia la storia. Eppure, in varie occasioni nel corso della sua vita, ha citato le parole più spaventose presenti nelle pagine di Kant, che appaiono come una sintesi perfetta del suo pensiero: “la pace perpetua si realizzerà, come risultato della nostra visione o di una catastrofe indotta dalla nostra miopia”.
Editor di Iconografie.