Il livello di violenza raggiunto ad oggi dal conflitto in Medio oriente è tra i più alti visti da decenni a questa parte. Eppure, malgrado si sia parlato tantissimo del tema, sembra comunque che la reazione dominante sia il silenzio: quello delle istituzioni occidentali, disinteressate a porre fine al massacro. Ma anche il nostro, perché siamo ormai privi delle parole per descrivere quanto accade. Ad un anno dallo scoppio della guerra a Gaza, pubblichiamo questa riflessione di Marina Calculli, esperta di politica internazionale e assistant professor all’Università di Leiden.
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Malak Mattar, artista palestinese nata a Gaza, ha dipinto all’inizio del 2024 uno straordinario olio su tela dal titolo ‘Senza parole’. Nel dipinto, Mattar cattura l’orrore del genocidio che Israele sta commettendo a Gaza in una serie di immagini dell’orrore concatenate l’una con l’altra e assai reminiscenti di Guernica di Picasso. La parlamentare svedese Abir Al-Sahlani ha tenuto lo scorso febbraio un discorso al Parlamento Europeo, restando in silenzio, con la mano sulla bocca, limitandosi a dire, negli ultimi minuti a sua disposizione, che “non ci sono più parole da pronunciare”. Anche Volker Türk, l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che “non ci sono parole per catturare gli orrori che si stanno dispiegando di fronte ai nostri occhi a Gaza”. Questi sono solo alcuni esempi. La lista di coloro che hanno perso le parole è assai più lunga. Io stessa, nel mio piccolo, ho provato per diversi mesi a scrivere questo articolo senza riuscire a trovarle.
C’è però qualcosa di peculiarmente sinistro in questa perdita generalizzata delle parole di fronte all’orrore di Gaza (ormai in piena estensione verso la Cisgiordania e il Libano). È qualcosa che va ben al di là del paradosso che l’espressione gergale ‘perdere le parole’ o ‘non avere più parole’ contiene in sé. (L’espressione fa in realtà un uso molto sofisticato delle parole: le sospende per non verbalizzare, e dunque non normalizzare, ciò che è troppo atroce per essere accettato nella realtà). L’impressione è che, in questo frangente storico, le parole con cui cerchiamo di rendere intelligibile la realtà vengano continuamente risemantizzate da buona parte dell’élite politica e della stampa liberale per normalizzare una distopia. Il loro significato è costantemente sovvertito al punto da farci perdere fiducia nella capacità delle parole di comunicare la realtà.
“Israele non ha ucciso nemmeno un civile a Gaza”, ha dichiarato il 24 luglio 2024 il premier israeliano Benjamin Netanyahu di fronte al Congresso americano, che gli ha risposto con una standing ovation. Di fronte a queste parole e all’eccitamento che esse provocano ai vertici imperiali del cosiddetto “Occidente”, che significato hanno le 42.000 vittime ufficiali dell’offensiva israeliana a Gaza, che secondo il Lancet sarebbero più di 186.000 (una cifra ormai da aggiornare)? Il sovvertimento della realtà è un’operazione che comincia nella dimensione immateriale delle parole, ma finisce per avere delle materialissime conseguenze nella realtà. I civili palestinesi non sono civili, in quanto ridotti – se non apertamente ad “animali umani” o “animali disumani” – a “scudi umani”: un cliché da conversazione che ha inondato il dibattito pubblico e mediatico occidentale, non supportato dai fatti, ma ripetuto così tante volte ad nauseam da essere diventato ormai la misura della banalità dell’istinto liberale di conciliare il sostegno attivo al massacro di popolazioni civili (non occidentali) con la pretesa di difendere lo stato di diritto.
Così il massacro sistematico di neonati, bambini, donne e uomini diventa un atto di autodifesa. La distruzione di tutte le scuole, università, moschee, chiese, ospedali di Gaza è un atto di autodifesa. L’estensione dell’offensiva israeliana alla Cisgiordania e al Libano è una “guerra preventiva” in nome – ancora una volta – dell’autodifesa. L’occupazione coloniale e la sua galoppante espansione sono meri atti di autodifesa. Il perseguimento di una guerra totale estesa a tutto il Medio Oriente – quella che l’ex premier israeliano Naftali Bennett ha definito “la più grande opportunità per Israele di rifare il Medio Oriente” – non è che un atto di autodifesa.
Tuttavia, al di là delle parole, le immagini restano e – per fortuna – comunicano al loro posto. Un archivio immenso fatto di immagini e video è stato composto tanto dagli abitanti di Gaza e dai coraggiosi giornalisti che lì operano, quanto – ironicamente – da alcuni soldati israeliani che si sono filmati mentre commettevano crimini di guerra. Una bambina, le cui membra sono rimaste attaccate ad un muro nell’urto della bomba che l’ha fatta saltare per aria. Un padre che stringe i resti dei suoi figli in sacchetti di plastica: non ha più neanche un viso da baciare per l’ultima volta e “più nessuno che possa chiamarlo ancora papà”. Un anziano che ha perso tutta la sua famiglia. Una mamma che stringe forte a sé il feretro del suo bambino avvolto in un sacco bianco. Un ragazzino affetto da sindrome di Down, morto per le lacerazioni inflitte da un cane scatenato contro di lui dai soldati israeliani che avevano fatto irruzione nella sua casa per portare via tutti i membri della sua famiglia, lasciandolo solo ad estinguersi nella sua agonia. Corpicini smembrati, senza più la testa, le gambe, le braccia, con le viscere in vista diventate tutt’uno con il volto rimasto per sempre cristallizzato nella paura. Le immagini sono tanto atroci quanto disponibili a chiunque voglia andarle a cercare: il web è per fortuna ben più vasto dei confini asfittici della sediziosa propaganda dei media liberali.
Le storie individuali si dissolvono nel trauma collettivo del popolo palestinese, che a sua volta si dissolve nel trauma di chi vede in Gaza un momento decisivo nell’espansione di un progetto politico globale volto a smantellare l’ordine normativo internazionale per rimuovere ogni ostacolo all’espansione dell’industria bellica, della tecnologia al servizio della sorveglianza dei cittadini e dell’espansione capitalistica globale, dell’estrazione e del commercio di idrocarburi, tutti settori in cui Israele è progressivamente diventata un nodo centrale e che rappresentano il cuore dell’agenda politica globale del XXI secolo. Questi sono, infatti, i punti principali del programma politico per la corsa presidenziale di Kamala Harris quanto di Donald Trump, come entrambi i candidati hanno ribadito nel dibattito televisivo del 10 settembre 2024. Ma questi sono in fondo i punti fondamentali del programma di tutti i leader occidentali e orientali, dalla Russia alla Cina alla maggior parte degli stati arabi che con Israele hanno una serie di accordi commerciali e strategici.
La dicotomia ‘Occidente-Oriente’ si trova oggi all’ennesima iterazione della sua funzione storica: uno specchio per le allodole, lo stanco riflesso di “due illusioni” – come le definisce Hamid Dabashi – maneggiato dai soliti sospetti in preda a cicliche ansie spengeliane di ‘declino dell’Occidente’, funzionale a gestire la battaglia per la supremazia globale in questa nuova fase di crisi del capitalismo globale. Il militarismo in piena espansione, che Israele incarna peculiarmente come stato che pratica il colonialismo d’insediamento nel 2024, non è dettato da una fantomatica ‘guerra tra civiltà’, né tantomeno da una battaglia tra visioni di mondo, come durante la guerra fredda. A sostenerne la furia distruttrice è piuttosto la lotta tra gruppi di capitale che non vengono definiti da – ma che semmai definiscono – i confini geografici, rifugiandosi dietro narrazioni identitarie, settarie o suprematiste, in esplicito ripudio dell’universalità dei diritti. È esattamente quello che, oltre un secolo fa, Rosa Luxemburg aveva individuato come l’essenza del militarismo in età tardo-imperiale e che oggi prelude ad una nuova competizione tra grandi potenze.
I palestinesi oggi sono le vittime principali e più visibili della corsa militaristica di questo XXI secolo. Dietro le parole dell’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, che nel suo ultimo discorso di fronte ai membri del Consiglio di Sicurezza ha dipinto Israele come “l’avanguardia della civiltà”, prima di augurarsi che le Nazioni Unite venissero “smantellate e eliminate dalla faccia della terra”, c’è una visione della società globale in cui i diritti non siano – neppure sulla carta – di tutti, ma distribuiti dal potere e ancillari rispetto alle esigenze del potere che, forte solo della sua forza, si autoassegna l’autorità morale per farlo.
Tuttavia, quello che Gilad Erdan dice ad alta voce è quello che viene già praticato da diverse cancellerie nel mondo – dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Europa alla Cina e oltre: il tentativo sistematico di distruggere l’ordine normativo emerso dalla Seconda guerra mondiale e dalla dialettica del lungo XX secolo tra imperi in declino e movimenti di liberazione anticoloniale. La risemantizzazione o il semplice decadimento di categorie, concetti e norme che davamo per scontati – a partire dal principio di autodeterminazione, che da quella dialettica si era affermato – è forse il segno più tangibile di una nuova “età dei mostri”, ciò che Antonio Gramsci definiva come l’interstizio tra un vecchio ordine in agonia e un nuovo ordine non ancora nato e che, di fronte al genocidio meglio documentato della storia eppure impossibile da fermare, non riusciamo nemmeno a immaginare.
Gaza è, come già in passato, il laboratorio per testare la rimozione ulteriore dei limiti del potere arbitrario non solo dello stato di Israele ma della rete globale che ne sorregge il progetto etno-nazionalista. Ma quanti limiti devono essere rimossi, quante frontiere devono essere abbattute, per arrivare a normalizzare un genocidio, nonostante (o forse dovremmo dire ‘attraverso’?) la sua inedita documentabilità e perfino spettacolarizzazione?
La distopia che vediamo dispiegarsi a Gaza in tutti i suoi orrori è una desemantizzazione del concetto di ‘umanità’ – nell’accezione normativa e politica che questa parola ha assunto nel XX secolo – e che per questo ci lascia senza parole. È un processo per cui la deumanizzazione dei palestinesi deumanizza tutti noi – i suoi attivi sostenitori come i suoi critici, relegati alla funzione di spettatori inermi, privati dei mezzi per esercitare una reale opposizione o almeno una dialettica efficace, e per questo forzati a contemplare “l’ultima frontiera”, per citare il verso di una potentissima poesia di Mahmoud Darwish, oltre la quale diventa impossibile anche solo immaginare un futuro collettivo che possa nascere dal ripudio dei mostri del presente.