Il 26 maggio Israele ha commesso uno dei più gravi crimini di guerra degli ultimi anni, bombardando un campo profughi nei pressi di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, all’interno di un’area da Israele stesso precedentemente definita come “zona sicura”. L’attacco ha sconvolto l’opinione pubblica mondiale e resta di difficile comprensione, avendo definitivamente compromesso l’idea di quello israeliano come “l’esercito più morale del mondo”. Romana Rubeo – giornalista e caporedattrice di The Palestine Chronicle – sulla strage di Rafah.
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Rafah è un minuscolo fazzoletto di terra, non solo per modo di dire. Per avere un’idea delle dimensioni e della densità di popolazione, prima che iniziasse il genocidio attualmente in atto, circa 70.000 persone vivevano in poco più di 65 chilometri quadrati; la stessa popolazione di L’Aquila, che si estende su circa 474 chilometri quadrati. Dopo l’inizio dei bombardamenti a tappeto su Gaza, le autorità israeliane hanno chiesto una cosa precisa alla popolazione sconvolta e atterrita: lasciare il nord e il centro della Striscia per spingersi a sud, verso Rafah. Circa un milione e mezzo di persone sono confluite in quei miseri 65 chilometri quadrati: quel fazzoletto di terra, schiacciato tra Gaza e l’Egitto si è fatto piccolo, sempre più piccolo, man mano che lo spazio si restringeva. Ma il simbolo che rappresentava si è fatto sempre più grande, enorme, imponendosi agli occhi di tutto il mondo.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio, l’esercito israeliano ha lanciato otto missili su un accampamento di tende nella zona di Tel Al-Sultan, a ovest di Rafah, scatenando un incendio che ha ucciso almeno 50 palestinesi e ne ha feriti più di 200. Le scene terrificanti che si sono diffuse sui social media non hanno bisogno di commento, e hanno suscitato una reazione globale che, per la prima volta nel corso di questi otto mesi, è stata forte, vibrante, emotiva. Tutti si sono chiesti “come mai”. Come mai uno degli eserciti più potenti al mondo – almeno sulla carta – avesse deciso di bombardare selvaggiamente un campo profughi in una zona precedentemente indicata come “sicura”, accanendosi contro persone che avevano già perso tutto. La risposta va ricercata nell’affannoso tentativo israeliano di mettere in bella vista una vittoria, almeno simbolica, in questa guerra disperata; nel tentativo di rovesciare le sorti di un fallimento che sembra ormai inevitabile, nonostante la brutale violenza di cui ha dato sfoggio in questi mesi.
Rafah è diventata, a un certo punto di questa guerra, quella che lo scrittore palestinese Jamal Kanj ha definito “l’ultima foglia di fico di Netanyahu”. Ormai da settimane, infatti, la narrazione ufficiale sostiene la necessità di condurre un’operazione militare nella cittadina, dipinta come l’ultima roccaforte di Hamas, quella in cui sono rintanati i suoi leader. Pertanto solo con un’invasione Israele potrà vincere la guerra, sconfiggere il “terrorismo” e tornare a essere l’invincibile superpotenza della regione. Questa versione è, chiaramente, smentita dai fatti. Basta passare velocemente in rassegna le precedenti offensive e dichiarazioni da parte della leadership israeliana, sia politica sia militare, a partire dal 7 Ottobre, per capire che la giustificazione della “roccaforte” da abbattere è vacua quanto abusata. Prima di Rafah, Israele aveva usato la stessa terminologia per descrivere l’Ospedale di Al-Shifa, nel nord della Striscia; poi le aree centrali di Gaza, tra Deir Al-Balah e Nuseirat; e poi ancora l’ospedale Nasser, a Khan Yunis. Solo alla fine è arrivata Rafah, ultima foglia di fico, appunto, per un premier e un paese che non sanno più come rimescolare le carte a loro disposizione.
“Non c’è potere sulla faccia della Terra che possa fermarci,” così il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva commentato, ad aprile scorso, le pressioni che, da più parti, arrivavano per prevenire l’invasione di Rafah. Questa affermazione non è nuova al linguaggio di Netanyahu. Nel novembre del 2012, ad esempio, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva votato per garantire alla Palestina lo status di “non membro osservatore”, lui aveva ribattuto: “Non c’è potere al mondo che possa distaccare il popolo ebraico dalla terra di Israele”. La retorica è la solita alle fondamenta stesse del sionismo: Israele deve difendersi e per farlo deve porsi contro tutti i “poteri al mondo”. A poco vale, in questa ricostruzione falsata della verità, che in realtà i poteri del mondo siano tutti schierati con Israele, anche nella più folle e criminale delle sue imprese, e che quei poteri sostengano che Israele “non ha superato i limiti” nemmeno quando ha bruciato vivi dei bambini in delle tende di plastica. Quella retorica viene adesso riesumata per trovare un nemico da domare e schiacciare, nell’illusione di poter tornare a esercitare quella deterrenza che, indebolitasi già da molti anni, si è schiantata contro un muro di realtà dapprima il 7 Ottobre e poi di nuovo ogni giorno dall’inizio delle operazioni di terra che hanno visto un numero inedito di soldati uccisi e feriti ad opera della ben organizzata resistenza palestinese.
Gli audaci obiettivi che Israele si era posto all’inizio della guerra si sono andati sgretolando col proseguire delle operazioni militari. Certo, il numero dei civili palestinesi massacrati dall’esercito israeliano continua a salire vertiginosamente per via dell’evidente squilibrio militare tra le due forze in campo e la completa mancanza di difese antiaeree a Gaza. Tuttavia, una guerra non si vince uccidendo più civili, ma conquistando stabilmente porzioni di territorio o raggiungendo degli obiettivi prefissati. Il primo di questi, lo smantellamento della resistenza palestinese, sembra ad oggi ben lontano dall’essere raggiunto: le tattiche di guerriglia messe in atto dai gruppi armati palestinesi a Gaza impediscono a Israele di mantenere le sue posizioni, e il lancio di razzi, che avviene tuttora da ogni area della Striscia, fa pensare che neanche le infrastrutture militari della resistenza siano state danneggiate in modo irreparabile. Il massacro delle tende, quindi, arriva per sbandierare al mondo e alla propria opinione pubblica interna un’immagine di forza nel momento di massima debolezza. Certo, più che la forza, a trapelare è stata l’efferata atrocità. Ma nella sua furia cieca, Israele sembra aver perso anche la bussola che lo aveva guidato in decenni di autopromozione e propaganda.
Per giustificare il prosieguo della sua azione militare Israele continua a proclamare di voler aumentare la “pressione militare” sulla resistenza per recuperare gli ostaggi. A poco vale, in tal senso, la banale considerazione che gli unici di questi a tornare a casa vivi siano stati quelli che erano stati inseriti nella lista del primo accordo per un cessate il fuoco lo scorso novembre. Il giorno prima della strage di Rafah, Abu Obeida – portavoce delle Brigate di Al-Qassam, braccio armato di Hamas – ha annunciato la cattura di altri soldati israeliani nel nord della Striscia: l’impatto dell’annuncio deve aver aumentato la frustrazione israeliana, nonostante i goffi tentativi di negarne la veridicità. Nel veder svanire anche questo obiettivo, Israele ha risposto con lo stesso irrazionale modus operandi che ha contraddistinto questi ultimi mesi: una furia genocidaria che punisce i cittadini inermi della Striscia in modo vigliacco ed efferato. Anziché guardare a se stesso e ai suoi limiti per porvi riparo, dal 7 Ottobre in poi, Israele, belva ferita, ha tentato di dimostrare agli Stati Uniti, ai possibili mediatori, al mondo e alla sua opinione pubblica interna di avere ancora il controllo della situazione. La brutalità delle sue azioni è direttamente proporzionale al fallimento dei suoi obiettivi.
Tra questi, quello della pulizia etnica è tuttora in piedi. A impedirne la realizzazione vi sono vari fattori che, inizialmente, Israele aveva quanto meno sottovalutato: in primis la determinazione della popolazione di Gaza a non abbandonare la propria terra. Il popolo palestinese sa, per esperienza diretta, che non conviene lasciare la propria casa e mantenerne la chiave nella speranza di farvi ritorno. Il secondo fattore è il diniego da parte dell’Egitto di prestarsi a un piano di evacuazione forzata della popolazione della Striscia per ricollocarla nel deserto del Sinai, sul territorio egiziano. C’è poi un terzo fattore, che impedisce a Israele e ai suoi rappresentanti di dichiarare, con toni altisonanti, che la Striscia sarà completamente svuotata: si tratta delle pressioni esterne, di quel diritto internazionale di cui Israele si è sempre fatto beffa grazie alla protezione statunitense e occidentale, ma di cui in qualche modo deve pur tenere conto se non vuole diventare del tutto un paria agli occhi della comunità internazionale.
Non è un caso, infatti, che la strage di Rafah arrivi a due giorni da un’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia che intimava a Israele di interrompere “immediatamente” la sua offensiva contro la città a sud di Gaza. Come ha sostenuto l’intellettuale palestinese Ramzy Baroud, il messaggio alla comunità internazionale doveva arrivare forte e chiaro: ancora una volta, la retorica del “soli contro tutti” doveva prevalere.
foto via Twitter @UNLazzarini