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La parola “policrisi”, resuscitata dallo storico britannico Adam Tooze e da allora comparsa sempre più di frequente nei documenti delle maggiori istituzioni e organizzazioni globali, è ampiamente dibattuta dalle élite e spinge a domandarsi se la crisi generale a cui stiamo assistendo sia una policrisi superabile, oppure qualcosa di mai visto prima. A diversi esperti sono tornate alla mente le turbolenze a cavallo fra gli anni ’70 e ’80, quando la fine dell’egemonia economica keynesiana si era incrociata con la guerra del Vietnam, la rivoluzione in Iran e l’inizio dell’ascesa cinese sotto la guida di Deng Xiaoping. Una policrisi anche quella, che aveva innescato il passaggio verso la nuova fase neoliberista e il rilancio della globalizzazione senza limiti dopo la caduta del sistema sovietico. Altri invece temono il ripetersi di uno scenario più simile alla prima metà del ‘900, dove le due guerre mondiali con decine di milioni di morti portarono ad un drastico cambiamento geopolitico, economico e sociale su scala planetaria.

Partendo dalle lezioni di queste due fasi storiche precedenti, oggi molti leader globali sperano in una transizione soft, gestibile con una serie di politiche coordinate a livello multilaterale, cercando di contenere le crisi sistemiche entro precisi limiti, per evitare a tutti i costi lo scivolamento verso una policrisi estremamente grave – una nuova guerra mondiale o il crollo definitivo dell’economia planetaria. Lo fanno in nome di visioni politiche eterogenee ma accomunate da un principio comune: la salvaguardia della civiltà tecnologica-industriale. In questa linea di pensiero le crisi odierne non vengono interpretate unicamente come una minaccia esistenziale, ma più comunemente come un naturale processo di trasformazione di cui si nutre da sempre il capitalismo moderno, che muta e si adatta al variare delle condizioni delle società umane. Le crisi diventano quindi un male momentaneo, da gestire e superare, rimanendo ancorati saldamente ai dogmi della modernità – come vuole il luogo comune (falso ma diffuso) secondo cui il carattere cinese per “crisi” significherebbe anche “opportunità”. Il futuro green-tech, con un ritorno verso la socialdemocrazia e l’intervento attivo dello Stato, costituisce una delle tante risposte inserite nel solco di questa logica moderna, ma soprattutto una speranza per risolverla senza grossi traumi. Per ottenere questo risultato la via perseguita verte inesorabilmente sul soluzionismo tecnologico e su nuove pratiche politiche per gestire la transizione verso un diverso ordine capitalista.

La fine del neoliberismo diventa quindi una transizione verso un nuovo modello economico misto, gestito politicamente. Il possibile ridimensionamento o caduta del potere egemonico americano ed occidentale diventa un passaggio di consegne verso il nascente baricentro asiatico o l’affermazione di un mondo multipolare pacifico. Le problematiche climatiche-ambientali poste dall’industria fossile diventano solo delle esternalità negative da sconfiggere con le tecnologie “verdi”. 

Con queste “soluzioni” a disposizione i possibili cambiamenti vengono sempre interpretati e incanalati secondo le prospettive fornite dal paradigma moderno, talmente seducenti da restringere l’orizzonte delle alternative e precludere la possibilità di sfidarne i dogmi plurisecolari. Il potere costringente del sistema industriale-tecnologico sovrasta qualsiasi discorso accademico o pubblico e alimenta la convinzione che questa policrisi sia superabile senza estreme conseguenze o visioni radicalmente innovative. Ma mentre si ribadisce l’ottimismo nel “progresso”, analisi più realistiche ed élite meno compiacenti riflettono sui rischi mai visti prima.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi la popolazione mondiale è più che triplicata, passando da 2 a 8 miliardi di individui. Questo aumento esponenziale, coniugato con l’industrializzazione senza limiti, sta generando una pressione insostenibile sull’ecosistema e un’alterazione profonda delle condizioni climatiche globali. Ma soprattutto ha completamente cambiato gli scenari in cui le comunità agiscono, dato che per la prima volta nella storia moderna delle variabili impazzite minacciano di annientare la civiltà umana.  

Prima degli anni ’50 queste ipotesi catastrofiche erano semplicemente impossibili. Nemmeno eventi tragici come le due guerre mondiali o la peste nera hanno mai messo in pericolo l’esistenza della nostra specie. I cicli di ascesa e caduta delle civiltà hanno sempre riguardato territori limitati, non gran parte del pianeta. Questo pericolo è diventato più concreto e realistico con la Guerra fredda e le armi di distruzione di massa. Un cambiamento epocale che in quegli anni aveva scatenato una serie di discussioni sul pericolo dell’olocausto nucleare, i rischi posti dalla società moderna, e provocato i primi seri allarmi sull’insostenibilità del nostro modello di sviluppo. Allarmi praticamente svaniti nella nebbia neoliberista degli anni ’80 e ’90, messi a tacere dalla sciocca illusione sulla fine della storia e dall’ennesimo abbaglio sulle potenzialità taumaturgiche dell’information technology.

Ma crisi dopo crisi, come uno spettro oscuro che risorge dagli abissi della Storia, la possibilità di un disastro planetario è tornata al centro dell’attenzione di diverse classi dirigenti, tanto da produrre un cupo rapporto del World Economic Forum, uno dei più famosi consessi dell’élite globalizzate, al cui interno la parola “collasso” non è più un tabù impronunciabile. Comincia a emergere, anche fra le classi dominanti, la consapevolezza che il sistema è diventato talmente pervasivo, potente, instabile e oscuro in certe sue dinamiche, da non poter più escludere gli scenari più ostili. Ma è una consapevolezza che per ora non porta a rivedere le dinamiche promosse dal sistema, anzi, succube delle sue logiche, incita a persistere fino all’estremo, in un’illusoria ricerca della salvezza nello spazio o nell’ipotetica singolarità benevola. 

Il XXI secolo sarà il secolo asiatico? Il secolo del multipolarismo e del tramonto dell’Occidente? Il secolo della socialdemocrazia green e delle colonie su Marte? Sono domande che dominano i dibattiti odierni, ma che raramente tengono conto della crisi generale della modernità, di quel lungo arco plurisecolare che ha sancito il trionfo della civiltà tecnologica-capitalista su tutte le possibili alternative. Le lotte per il potere, le rivendicazioni dei segmenti sociali, i cambiamenti geopolitici, avvengono ormai all’interno di un recinto globale dove nessuno ha il reale controllo di questo meccanismo esteso su scala planetaria, ma al contrario ne subisce le conseguenze in ogni aspetto, compresa la salute mentale. 

Nessuna soluzione, nessuna teoria, nessuna alternativa, può ormai prescindere dalle ipotesi legate allo scenario più radicale: la crisi generale della modernità. Ma la prospettiva della fine di questo arco, della chiusura del suo ciclo, paralizza il pensiero degli esperti in ogni angolo del pianeta. La storia non è finita, ma nella testa di molti persiste l’illusione che la nostra civiltà sia una linea retta verso le “magnifiche sorti e progressive” senza intralci. Qualche ambito accademico, come i teorici della “decrescita”, ha provato a demistificare questo pensiero proponendo una sorta di riequilibrio globale, contestando il mito della crescita economica attraverso il modello capitalistico. Ma la Realpolitik del nostro mondo e i suoi tremendi limiti li ha relegati in piccole nicchie utopiche e ininfluenti.

La tremenda incertezza dei nostri tempi e la notevole velocità dei cambiamenti in atto – crisi comprese – impongono ormai un radicale adeguamento del pensiero umano, delle istituzioni e dei corpi sociali annessi, a fronte di una complessità che non sappiamo più definire e gestire con gli schemi attuali. La modernità è un ancien régime che sembra aver esaurito la sua spinta, mentre alcuni osservatori iniziano a porsi seriamente la questione se l’Homo sapiens, per come si è evoluto negli ultimi millenni, sia ancora adatto a un meccanismo che sovrasta tutto e tutti. Forse, più che l’essere umano, semplicemente non è più adatto il pensiero moderno, settorializzato, iper-specializzato, chiuso in bolle professionali-accademiche inefficienti, mentre emerge la necessità di una nuova visione generale che riesamini la corsa degli ultimi secoli, le conseguenze per il presente e i possibili scenari futuri. Una riflessione sul possibile salto nel buio causato da quella che chiamiamo policrisi, ma che forse dovremmo vedere come la crisi delle fondamenta della nostra civilizzazione.


 

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