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Si è concluso ieri ad Avignone con 51 condanne il più grande processo per stupro della storia francese: il caso di Gisèle Pelicot, vittima di decine di violenze sessuali organizzate, filmate e pubblicizzate su internet dal marito nell’arco di nove anni. Pelicot ha deciso fin da subito di rendere pubblico il processo, trasformandolo in un enorme caso politico che ha sconvolto la Francia e che potrebbe diventare uno spartiacque nel dibattito sulle questioni di genere. Ne abbiamo parlato con le militanti femministe francesi Auriane Dupuy, Fatima Benomar, Valérie Rey-Robert e Laure Salmona.

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I fatti di Mazan rappresentano uno dei casi più gravi di abusi sessuali seriali mai registrati nella memoria collettiva. Oltre alla brutalità evidente di questa vicenda, cosa ha fatto sì che questo processo acquisisse un’importanza così rilevante sul piano politico e sociale?

Benomar: L’impatto mediatico del processo deriva innanzitutto dalla sua natura particolarmente inabituale: abbiamo uno schema abituale dello stupratore come qualcuno mosso da “pulsioni maschili”, finendo un po’ per scusare gli uomini come se fossero a loro volta vittime di sé stessi – e quindi sono le donne che prendono rischi e si mettono in pericolo da sole. Con Mazan questo discorso è impossibile vista la premeditazione degli stupri, organizzati dallo stesso marito della donna vittima che semplicemente si trovava a casa sua, nella propria stanza. Erano gli uomini che venivano appositamente per violentarla e che non si sono mai nemmeno posti la questione del suo consenso. Sono questi elementi tutti insieme che hanno ribaltato le tradizionali opinioni del pubblico sugli stupratori, oltre al fatto che le femministe si sono inserite nel dibattito per contestare la narrazione degli accusati come dei mostri e provare l’esistenza di una diffusa idea delle donne come proprietà degli uomini.

Salmona: La volontà di Gisèle Pelicot di rendere pubbliche le udienze è un gesto forte che permette di fare di questo processo un momento importante nel panorama sociale e politico. Mettendo in luce la banalità del male, la causa rappresenta una grande svolta nella comprensione stessa dello stupro e permette di focalizzarsi sulla cultura che lo rende possibile. La maggior parte degli stupri viene commessa da persone vicine alla vittima, soprattutto nell’ambito familiare e spesso da partner quando la vittima è adulta. Eppure, queste statistiche restano astratte per l’opinione pubblica: lo stupro tra coniugi, riconosciuto dalla legge francese solo nel 1990, viene regolarmente minimizzato, considerato come uno stupro che in realtà non lo sarebbe davvero. In questo caso, il fatto che Dominique Pelicot abbia chiamato altri uomini per stuprare sua moglie rende l’orrore e la realtà dello stupro coniugale più tangibili: non si tratta di desiderio o di sessualità, ma del fatto di considerare le donne – e ancor di più la propria moglie – come una cosa di proprietà, un oggetto di cui si può fare ciò che si vuole, persino drogarla per “offrirla” ad altri uomini. Si tratta di un caso particolarmente sordido e infatti il principale sentimento provato dal pubblico francese parlando di questa vicenda è il disgusto. Tuttavia, c’è stato molto diniego, un riflesso comune quando si parla di violenze sessuali, portando a distogliere lo sguardo, negare il loro carattere sistemico e brandire la formula not all men (non tutti gli uomini) come uno scudo. Del resto, per più della metà dei francesi, gli uomini coinvolti nel caso Mazan sono dei “casi particolari che non vanno confusi con la stragrande maggioranza degli uomini”.

 

Il processo di Mazan, insomma, ha reso evidente come mai la normalizzazione degli abusi sessuali. Tuttavia, sebbene questo fatto abbia prodotto una reazione abbastanza importante da parte del pubblico francese, non si può dire altrettanto del mondo politico. Quali sono state le reazioni e cosa ci sarebbe bisogno di fare per il contrasto alle violenze sessuali?

Dupuy: È vero che ci sono poche risposte politiche a quanto sta accadendo, ma questo non significa che non siano state fatte richieste chiare: da tempo le femministe contestano lo scarso budget che il governo francese investe nella lotta contro le violenze di genere, ben lontano dai 2,6 miliardi di euro all’anno che secondo le stime della Fondation des Femmes sarebbero necessari. Questo implica che i tribunali non abbiano risorse sufficienti per seguire adeguatamente i singoli casi, che le sedute di supporto psicologico per le vittime non siano rimborsate e che le associazioni a loro sostegno non abbiano i fondi per farlo. Un altro problema è la scarsa applicazione della legge del 2001 sull’educazione alla vita affettiva, relazionale e sessuale nelle scuole, che dovrebbe essere utilizzata per fare prevenzione, insegnando il rispetto e il consenso ma che in realtà, nei pochi casi in cui le lezioni vengono effettivamente svolte, affrontano raramente il tema delle relazioni interpersonali. Attualmente, ci sono varie proposte in discussione. Si è richiesta l’adozione di una “legge integrale” per combattere le violenze e aiutare le vittime, mentre due parlamentari (Marie-Charlotte Garin del Nuovo Fronte Popolare e la macronista Véronique Ryodan) stanno lavorando alla ridefinizione legale dello stupro, perché questa includa la nozione di consenso – laddove ad oggi è descritto solo come un atto sessuale violento – in linea con le direttive europee. Tutto ciò avviene nonostante Macron avesse dichiarato che la lotta contro la violenza sarebbe stata la grande causa del suo mandato presidenziale; certo, ci sono stati progressi dal suo arrivo all’Eliseo ma siamo ancora molto lontani in termini di risorse e supporto alle vittime.

Benomar: Gli accusati appartengono a qualunque età ed estrazione sociale e per questo non hanno un profilo tipicamente sfruttabile da nessuna parte politica. In Francia stiamo vivendo una deriva verso l’estrema destra e questo normalmente ha implicato un grande recupero politico di alcuni casi di femminicidi – come quelli di Lola Daviet o di Philippine Le Noir de Carlan, entrambi commessi da cittadini stranieri – operato tanto dal Rassemblement National quanto dalle forze attualmente al potere. In questo caso cosa avrebbero potuto dire? Emmanuel Macron si è limitato a commentare la possibilità di aggiungere la nozione di consenso alla legge sullo stupro ma nient’altro. Si riconferma il fatto che i diritti delle donne non sono a priori una questione progressista, dipende tutto da come si affronta il tema: Macron ha sempre scelto la risposta securitaria (più telecamere di sorveglianza, maggiore formazione della polizia…) ma, dal momento che questa sarebbe una reazione inutile in un caso come quello di Mazan, alla fine si limita a restare in silenzio. Lo spazio privato in Francia è ancora considerato sicuro per le donne laddove statisticamente è quello più pericoloso.

Salmona: È vero che, rispetto alla portata mediatica del processo degli stupri di Mazan, i politici si sono dimostrati particolarmente avari di commenti e proposte. A giudicare dal loro silenzio, sembrano considerare la vicenda come un evento raro ed eccezionale, piuttosto che come l’illustrazione della banalità dello stupro. Questa lettura, impregnata di prismi patriarcali, riduce il caso a una singolarità isolata, ad atti devianti di un marito, cancellandone così la portata sociale. Lo scorso 25 novembre, l’allora primo ministro Michel Barnier ha comunque annunciato l’ampliamento del dispositivo che permette alle donne vittime di violenza di sporgere denuncia in ospedale, nonché il rimborso da parte dell’Assicurazione Malattia dei kit per la rilevazione della sottomissione chimica, oltre a una campagna di sensibilizzazione sulla questione. Tuttavia, il budget annuale stanziato per l’uguaglianza tra donne e uomini e per la lotta contro le violenze subite dalle donne e dalle ragazze resta ridicolo: appena 85,1 milioni di euro. Questi timidi annunci sono chiaramente inadeguati rispetto alla gravità della situazione: ogni anno, 217.000 donne di età compresa tra i 18 e i 74 anni subiscono stupri e aggressioni sessuali in Francia, si tratta di un’emergenza di salute pubblica. Il processo degli stupri di Mazan avrebbe potuto rappresentare un momento cruciale per attuare una politica ambiziosa contro le violenze sessuali, ma i nostri dirigenti non hanno colto questa occasione, probabilmente troppo impegnati a smantellare le nostre conquiste sociali o a portare avanti politiche razziste…

La scelta di Gisèle Pelicot di mostrare pubblicamente il proprio volto durante il processo, contrariamente alla maggior parte degli imputati, ha portato a interpretare questo momento come un’opportunità per ridefinire la narrazione delle violenze sessuali attraverso un “cambiamento di campo della vergogna”. Cosa significa questa espressione e quali sono le sue implicazioni?

Dupuy: Significa che la persona che deve provare vergogna non sono le vittime, ma gli aggressori e quanti continuano a sostenere loro e l’intero sistema patriarcale. Penso, ad esempio, a quando, nel dicembre 2023, Emmanuel Macron ha dichiarato che Gérard Depardieu rendeva orgogliosa la Francia, laddove l’attore (ripetutamente accusato di aver commesso stupri, aggressioni e molestie sessuali) dovrebbe essere causa di imbarazzo per il paese e così le parole del presidente, che hanno avuto eco mediatico anche in altri paesi. Dopotutto è proprio questo che alimenta la cultura dello stupro: la colpevolizzazione delle vittime e l’idea che siamo noi stesse le responsabili del crimine che abbiamo subito. Non esiste nessun altro crimine per cui si colpevolizzi così tanto la vittima, o in cui la si accusa di ricercare attraverso la propria denuncia soldi e notorietà. Quando una donna parla ha tutto da perdere, specie quando l’accusa è rivolta a persone potenti – ad esempio sfruttando strumenti legali come le procedures bâillons (cause bavaglio), che consistono nel presentare denunce per diffamazione contro le donne che denunciano violenze, nel tentativo di farle tacere. Ed è proprio questo che bisogna spezzare: il livello di fiducia in sé stessi e nel sistema necessario per denunciare. Si sentono talmente impuniti che cercano addirittura di far punire chi osa parlare.

Benomar: La scelta di Gisele Pelicot è stata estremamente dura e credo non si faccia abbastanza attenzione al fatto che lei ora possa essere in una situazione di forte stress post-traumatico. Tale decisione è stata presa in un momento di grande fragilità e ha comportato che tutti i media potessero assistere ai video dei suoi stupri, in un’ennesima violazione della sua umiliazione. Di fatto ha pochissimo da guadagnare da tale scelta, forse presa anche per non ritrovarsi in tribunale da sola con i suoi stupratori. Il movimento femminista è sempre stato per la politicizzazione dei processi, da quando nel 1972 l’avvocatessa Gisèle Halimi trasformò il processo contro Marie-Claire Chevalier (accusata di aver abortito dopo essere stata vittima di uno stupro) in uno scontro politico con continue manifestazioni di solidarietà e la costante presenza di intellettuali durante le udienze. L’idea era di smettere di nascondere la realtà, di mostrarla al mondo e di trasformarla in un dibattito pubblico, una scelta dura per le vittime ma politicamente forte. Oggi, tutto questo mostra ad esempio l’aggressività degli avvocati difensori rivelando come i tribunali siano uno spazio di ulteriore vittimizzazione delle donne.

Salmona: “La vergogna deve cambiare campo” è uno slogan femminista vecchio di anni: nel 2010 il Collectif féministe contre le viol (CFCV) lo aveva usato in una campagna per liberare la parola delle vittime sulle violenze sessuali subite. Da allora continua a riemergere ciclicamente, in particolare durante l’ondata di testimonianze avviata da #MeToo, ma nei fatti resta ancora una scelta complicata: la difesa aggressiva, basata sull’inversione della colpevolezza e mirata a far passare la vittima per colpevole, dimostra che la vergogna non ha ancora davvero cambiato campo e che è ancora possibile incolpare le vittime senza conseguenze nei tribunali. Così è accaduto a Gisèle Pelicot che, in un perverso ribaltamento, ha visto la sua vita sessuale esaminata da ogni angolazione, al punto da dichiarare, indignata: “Ho l’impressione di essere io la colpevole, mentre dietro di me, i 50 [coimputati] sono le vittime”. Siamo purtroppo ancora lontani da un cambio di paradigma: le cose avanzano, ma avanzano lentamente. I media e i politici continuano a parlare del coraggio di Gisèle Pelicot, ma quale messaggio si invia alle vittime di stupro che non parlano, che non hanno i mezzi o il supporto necessario per sporgere denuncia? Non sono forse coraggiose anche loro, nel continuare a sopravvivere dopo aver subito tali violenze? La vergogna è ancora onnipresente per le vittime di violenza sessuale e, finché vivremo in una società patriarcale in cui, dopo essere stati accusati di stupro, attori, registi, e persino ministri vengono difesi o nominati dai nostri capi di Stato, questa vergogna non si estinguerà.

 

Nel corso degli interrogatori degli imputati, sono emerse minimizzazioni ripetute delle violenze, mentre un quarto di loro ha dichiarato di essere stato a propria volta vittima di violenze sessuali. Partendo da questa costante deresponsabilizzazione, diversi commentatori hanno parlato di un processo alla mascolinità. Condividete questa interpretazione e come la spiegate?

Dupuy: L’espressione è piuttosto appropriata, perché il processo riunisce accusati di tutte le età e di tutti i ceti sociali, costringendo tutti gli uomini a interrogarsi su come partecipano al sistema patriarcale. Rimandano a questo anche i riferimenti di molti accusati al fatto di essere stati a loro volta vittime di aggressioni sessuali, poiché ci svela come la violenza da sola non crea nuovi stupratori: se così fosse, praticamente tutte le donne sarebbero violente e stupratrici in potenza, per cui si pone la questione della mascolinità. In questo senso non bisogna sottovalutare il problema del sito internet coco.gg, su cui Dominique Pelicot pubblicava i video degli stupri. Già l’esistenza di un sito del genere è un indicatore della cultura dello stupro, ma lo è ancora di più il fatto che ci fossero uomini che, dopo aver visto l’annuncio e appreso che la donna era drogata, rifiutavano di partecipare agli abusi ma non denunciavano ciò che stava accadendo. La stampa li ha definiti “i sopravvissuti al processo”, un termine assurdo dal momento che ci troviamo davanti a un contesto in cui gli uomini si autoproteggono tra di loro, in una forma di solidarietà che diventa complicità. Se avessero denunciato, forse si sarebbero potuti risparmiare anni di sofferenze a Gisèle Pelicot.

Benomar: Resta nella società l’idea che lo stupro sia un fatto anormale e che lo stupratore, per devenire tale, debba aver incontrato nel corso della propria esistenza un qualche “incidente di percorso” come l’essere stato a sua volta vittima di aggressioni. In realtà basta guardare alla cultura popolare per rendersi conto di quanto sia normalizzata la cultura dello stupro: musicisti e agenti pubblicitari non sono produttori di ideologia, si limitano a fare riferimento al discorso politico egemonico che è quello patriarcale. Il punto è che in questa cultura gli uomini hanno un problema con lo stupro e bisogna rifiutare una narrazione che cerca di individuare un momento di deviazione. Nel caso di Mazan questo si traduce nel fatto che sì, alcuni degli stupratori possano essere stati delle vittime a loro volta ma questo non ha loro impedito di accettare l’offerta di Dominique Pelicot senza preoccuparsi dell’opinione di Gisèle. In questo senso parlando di “processo alla mascolinità” si supera la dimensione individuale degli accusati e si rende possibile un discorso più ampio sul patriarcato e sui comportamenti che produce. In questo senso non va sottovalutata la tendenza delle donne alla negazione dei comportamenti violenti – la stessa Gisèle Pelicot si è rivolta all’ex marito al processo dicendosi sconvolta perché era sempre stato gentile con lei. Visto il loro ruolo sottomesso di mantenimento della dimensione familiare, le donne tendono a riscrivere la storia dei propri rapporti positivizzandoli e finiscono per non vedere nemmeno i segnali di una possibile violenza coniugale. Questo è il prodotto di un’organizzazione etero-normata della società, in cui le donne si ritrovano rinchiuse con gli uomini e i figli; se immaginiamo una società in cui più famiglie condividono gli spazi allora non sarebbe possibile creare situazioni di pericolo come quella di Mazan. Il punto non sono solo i comportamenti individuali e le coscienze dei singoli, ma ripensare l’organizzazione stessa della società.

Rey-Robert: Si può considerare che menzionare le violenze sessuali subite durante l’infanzia da alcuni accusati possa essere uno dei fattori esplicativi del loro passaggio all’atto, se lo si correla al genere. Infatti, le donne, pur essendo le principali vittime di violenze nell’infanzia, sono molto più raramente responsabili di stupri o di altri atti di violenza sessuale. C’è quindi qualcosa nella costruzione della mascolinità che facilita questo passaggio all’atto, dato che in Francia il 96% degli autori di violenze sessuali sono uomini. Alcuni degli accusati, infatti, hanno ritenuto che il consenso di Dominique Pelicot fosse sufficiente; questo rappresenta un elemento tipico della cultura dello stupro: cercare giustificazioni per il proprio comportamento invocando motivazioni sessiste.

Nel suo libro Une culture du viol à la française, afferma che in Francia esiste una preoccupante coincidenza tra l’ideologia antimoralista del libertinaggio sessuale e la cultura dello stupro. Potreste spiegare questa tesi e indicare come si ricollega al caso di Mazan?

Rey-Robert: La cultura dello stupro è l’insieme delle idee preconcette sulle violenze sessuali, sugli stupratori e sulle vittime di queste violenze. Questa cultura, invariabilmente, consiste nel giustificare gli stupratori, colpevolizzare le vittime e rendere invisibili gli stupri. Si parla di “cultura” perché, come una cultura nel senso sociologico del termine, impregna tutta la società, si trasmette di generazione in generazione e si evolve nel tempo. Come tutte le culture, non è esattamente la stessa in ogni paese. Esiste quindi una cultura dello stupro “alla francese”, secondo cui si ritiene che le relazioni tra uomini e donne siano necessariamente e fortunatamente sbilanciate, e che questa asimmetria debba essere ricercata. In questo modo, molte violenze sessuali vengono invisibilizzate, considerandole semplicemente come espressioni di libertinaggio. Nel caso di Mazan, si possono già ascoltare discorsi che alimentano la cultura dello stupro, come quelli di alcuni avvocati o esperti psichiatrici, che evocano una presunta “natura maschile”. Inoltre, alcune perizie psicologiche non esitano a stabilire un legame, ad esempio, tra l’avere una sessualità non normativa e il commettere uno stupro. Tuttavia, il problema non è il libertinaggio, ma la mancanza di rispetto del consenso.

 

In Italia, in riferimento al caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin – un altro crimine che ha suscitato grande scalpore per la scarsa adesione alla narrazione tradizionale delle violenze di genere – un ministro ha negato l’esistenza del patriarcato, riducendolo a un fenomeno individuale o, al massimo, a una conseguenza dell’immigrazione. Ci sono stati equivalenti nel discorso francese, e come rispondete a tali affermazioni?

Dupuy: È davvero terribile, e anche in questo caso l’estrema destra ripete sempre lo stesso discorso. A settembre, dopo il femminicidio della studentessa Philippine da parte di un uomo soggetto a un ordine di espulsione dal territorio francese, l’estrema destra ha sfruttato il caso riprendendo la retorica sui pericoli dell’immigrazione e sugli stranieri che violentano “le nostre figlie”, con Jordan Bardella – presidente del Rassemblement National – che ha accusato direttamente lo stato di lassismo per le sue mancanze in materia di sicurezza. Al contrario, il processo di Mazan è stato definito semplicemente un dramma, quindi un fatto privo di implicazioni politiche o sociali che si poteva individualizzare, ignorando le dimensioni e le implicazioni del processo. È la stessa dinamica che vediamo quando accusano la legge sull’educazione sessuale di introdurre la “teoria gender” nelle scuole o durante le grandi mobilitazioni contro il matrimonio per tutti: i movimenti di estrema destra negano totalmente i fatti sociali e politici, ignorando questioni come il patriarcato, le disuguaglianze e le dinamiche di dominazione.

Benomar: In Francia i movimenti femministi si sono organizzati in questo senso per porre fine alla narrazione degli uomini violenti come figure marginali o “passionali”. La forza del patriarcato sta nel fatto che si tratta di un sistema tanto antico che non ha nemmeno bisogno di leggi sessiste perché funzioni, lo fa ormai da solo. In questo senso iniziammo a fare su Facebook il conto dei femminicidi con un ritratto sociologico dei femminicidi e delle loro vittime per poi produrre statistiche che documentassero gli aspetti anagrafici, le armi del delitto (riscontrandone l’estrema violenza) e anche gli eventuali tentativi di fuga delle vittime. Così facendo è diventato sempre più difficile per l’estrema destra ridurre la narrazione ad un prodotto dell’immigrazione – malgrado esistano ancora movimenti come il collettivo Némésis, un gruppo che maschera da femminismo rivendicazioni xenofobe che ancora tenta di fare entrismo nelle manifestazioni di piazza.

Salmona: Gisèle Pelicot ha dichiarato lei stessa che questo processo è quello di una “società maschilista e patriarcale, che banalizza lo stupro”. Un “processo della codardia”, aggiunge, riferendosi agli uomini che hanno distolto lo sguardo dalle violenze e non le hanno denunciate. In un articolo pubblicato a settembre su Le Monde, la filosofa Camille Froidevaux-Metterie condannava il patriarcato scrivendo che “tutti gli uomini sono colpevoli, colpevoli di essere rimasti degli indifferenti ordinari” e di fingere di non comprendere il continuum delle violenze sessiste e sessuali e il loro radicamento in un sistema patriarcale. Questa dinamica la si vede tanto nei commenti degli uomini sui social, quanto nelle parole del sindaco di Mazan, Louis Bonnet, noto per aver dichiarato riguardo al caso che “poteva andare peggio, in fin dei conti, nessuno è morto”, per poi rincarare la dose descrivendo la città come un luogo dove “c’è tutto quello che serve per stare tranquilli. I cittadini di Mazan non sono stupratori”. Un modo più discreto per ribadire che “not all men” sono colpevoli. Colpisce anche il silenzio dei politici, tutti pronti ad esporsi quando si tratta di chiedere un inasprimento delle leggi anti-immigrazione ma che sono rimasti muti riguardo al caso degli stupri di Mazan. La loro indignazione sembra essere a geometria variabile e non mi riferisco soltanto all’estrema destra: nemmeno il segretario del Partito comunista Fabien Roussel o il socialista Olivier Faure hanno aperto bocca per denunciare il sistema patriarcale e il carattere sistemico delle violenze sessuali.


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