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Con l’omicidio a Milano del diciannovenne Ramy Elgaml sembra essersi aperta in Italia una inedita offensiva politica e culturale contro le comunità immigrate, pretestuosamente riproposta dalla destra negli ultimi giorni per alcuni disordini avvenuti nella notte di Capodanno. Questa tendenza è da anni la normalità in Francia e per comprenderla meglio pubblichiamo questo estratto dal libro Maranza di tutto il mondo, unitevi! della saggista e militante decoloniale franco-algerina Houria Bouteldja, uscito in ottobre per DeriveApprodi.

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Il reale appare quando ci si sbatte contro. Il reale dei piccoli bianchi è che sono disprezzati. Sono dei beaufs, dei coatti. Vivo il loro declassamento come un’ingiustizia, un’anomalia, un affronto personale, quasi una ferita. Metto questo sul conto delle mie nevrosi da colonizzata e anche un po’ sul conto di un residuo di servilismo che si nasconde dentro di me. È lo stesso sentimento che proviamo verso i piccoli bianchi rimasti nei nostri quartieri, costretti a vivere con noi, come una punizione. Un sentimento condiviso da molti indigeni nelle banlieue: la pietà per questi bianchi che non possono andarsene, legati alla loro case popolari come la capra al suo palo. Costretti anche a sopportare le nostre usanze o a imitarci, a diventare come noi, per colmare una differenza – bianca – ingombrante. È lo stesso per i gilet gialli. 

L’istinto del proletario indigeno non mente. Il tracollo dei bianchi fa pena, ma è sulla «qualità» di questo sentimento che vorrei soffermarmi. Una «qualità» in netto contrasto con quella dei piccoli bianchi. Potremmo quasi vedere una differenza di natura tra la reazione dei piccoli bianchi, quando scoppiarono le rivolte nelle banlieue nel 2005, e la reazione degli indigeni durante l’insurrezione dei gilet gialli. Questa differenza l’ha esplicitata nel modo più chiaro possibile il rapper Maadou Killtran in un post su Facebook del 2018:

I gilet gialli che chiedono ai neri e agli arabi di andare in loro aiuto sono la battuta migliore del 2018!! Amico, nei quartieri non c’è lavoro, non c’è futuro, cresciamo gli uni sugli altri tutto l’anno, prendiamo pene più pesanti dei pedofili per reati di piccolo calibro, le scuole sono degli zoo, si può morire o essere fottuti durante un semplice controllo di identità… E A NESSUNO GLIENE FREGA NIENTE!!!!!! Senza contare che nei vostri gilet gialli c’è sicuramente un bel mucchio di bastardi che vorrebbero solo vederci «tornare a casa»… Ci sputate addosso, amico, parlate di noi come la feccia, iscrivete i vostri figli alle lezioni di equitazione così non ci incontrano agli allenamenti di calcio e ora dovremmo muoverci per voi???? NOI vi sosteniamo ma siamo consapevoli che davanti al giudice il gilet giallo che lavora a Tourcoing e il tipo del 935 avranno un mandato di custodia cautelare con un anno di differenza. Andate a bloccare la Borsa, distruggete la torre Eiffel, saccheggiate Place Vendôme, fate quello che volete ma non pensate nemmeno per un istante che saremo carne da macello. 

La prosa di Maadou Killtran colpisce nel segno e descrive piuttosto bene la differenza di condizione. Ma ciò che importa qui è questa miracolosa parola: “sosteniamo”.

Durante gli scontri del 2005 nelle banlieue, i piccoli bianchi erano nel migliore dei casi indifferenti e nel peggiore desiderosi che la polizia facesse fuori rapidamente la feccia, i teppisti, il disordine. Al contrario, nel rapporto con i gilet gialli, le banlieue sono state attraversate da sentimenti di tutt’altra natura, sentimenti diffusi che comprendevano di tutto tranne che ostilità. C’era comprensione e persino una solidarietà complicata, mescolate a un senso di rivincita e forse di piacere perverso (“che si prova a essere umiliati dagli sbirri?”) e infine un rifiuto di farne parte (“saremo ancora noi a essere accusati di fare casino”). Ma mai ostilità.

Per pensare a un’alleanza tra beaufs e barbares, per quanto romantica possa essere, bisogna innanzitutto smettere di raccontarsi storie e prendere seriamente in considerazione l’asimmetria delle emozioni. Cosa possiamo aspettarci dai piccoli bianchi, questi strani stranieri, vagamente familiari ma non proprio cugini? Come considerarli in una strategia decoloniale globale, quando nella loro sensibilità vi è davvero poco che possa prestarsi a questo avvicinamento? In questo modo, i gilet gialli e, più in generale, i piccoli bianchi, costituiscono un vero e proprio rompicapo per chiunque consideri l’unità delle classi popolari come un orizzonte strategico. Ma poiché la politica non può accontentarsi dell’empatia o della generosità di un gruppo verso un altro, riservo questa discordanza a un momento successivo.

La Rivoluzione francese stava per produrre un’umanità che ama tutti i bambini. Ha prodotto invece un’umanità che ama solo i suoi bambini. Tuttavia, nel suo libro La démence coloniale sous Napoléon, Yves Benot, rievocando il momento precedente al ripristino della schiavitù, racconta che i rapporti di polizia dell’epoca mostravano che l’opinione pubblica francese non era affatto favorevole alla politica dell’imperatore. Si trattava principalmente di un affare di proprietari. Dopo il colpo di Stato del 18 brumaio, la prima decisione pubblica in materia coloniale è molto prudente. Riguarda la proclamazione dei consoli indirizzata ai “bravi neri di Santo Domingo” il 25 dicembre 1799, che prometteva il mantenimento del decreto del 1794 con cui la Convenzione aboliva la schiavitù. Se Bonaparte procede con cautela, è un effetto della Rivoluzione haitiana e dell’influenza sul piano politico e soggettivo della Rivoluzione (e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo) sull’opinione pubblica francese. Nonostante ciò, nel 1802 la schiavitù verrà restaurata. Era però prima necessario preparare un’opinione pubblica piuttosto ostile e conciliare il principio dell’abolizione con la sua negazione nella pratica. Benot si interroga: “Chi è realmente il destinatario di questa proclamazione? Forse l’obiettivo era di rassicurare immediatamente l’opinione pubblica francese, ancora orgogliosa del decreto del 16 piovoso?”.

Sarebbe ingenuo credere che l’opinione pubblica francese fosse in modo compatto radicalmente anticolonialista, ma si sa che il sentimento popolare era piuttosto ostile alla schiavitù e che gli ideali della Rivoluzione, per quanto incompiuti, alimentavano l’umanesimo fraterno delle classi popolari. Questo sentimento ha continuato ad attraversare, anche se non completamente, la Comune di Parigi. La convinzione di appartenere a un’unica umanità non era ancora pienamente acquisita; tuttavia, in questo contesto si evidenzia la base ideologica che sarebbe stata utilizzata dalla Terza Internazionale e in seguito dall’estrema sinistra. Parallelamente però, l’istituzione dello Stato-nazione ha fatto il suo corso. Il “nativo francese” ha sostituito sia il contadino tradizionalmente legato alla sua terra, sia il proletario. La storia dell’abbandono degli ideali internazionalisti non è né lineare né univoca ma le tendenze pesanti dello sciovinismo sono, esse sì, inequivocabili. Oggi, il consenso imperialista è generalizzato – giustificato prima dalla missione civilizzatrice e negli ultimi vent’anni dalla lotta al terrorismo – e ha prodotto l’indifferenza dell’opinione pubblica di fronte ai devastanti effetti delle guerre.

Ciò che è importante in questo breve richiamo storico è che gli antenati dei gilet gialli erano altri – e solo pochi erano bianchi, per la verità. Un tempo, Bonaparte poteva temere l’opinione popolare durante il processo di colonizzazione, al punto da dover ricorrere a sotterfugi per raggiungere i suoi obiettivi. Le azioni imperialiste di Mitterrand in Iraq, di Chirac in Afghanistan, di Sarkozy in Libia, di Hollande in Mali, di Macron nel Sahel suscitano invece solo indifferenza quando non sono del tutto approvate. Secondo Chomsky e Vltchek, “dalla fine della Seconda guerra mondiale, il colonialismo e il neocolonialismo occidentali hanno causato la morte di 50-55 milioni di persone”. A che cosa pensava nel 2013 il futuro gilet giallo, seduto davanti alla sua Tv, quando apprende che Hollande ha preso la decisione di inviare truppe in Mali? Potremmo concedergli il beneficio del dubbio e immaginare che abbia potuto sentirsi turbato da un sentimento di ingiustizia e incomprensione. Nulla nella rivolta che ha infiammato la Francia lascia oggi il minimo dubbio sull’indifferenza sedimentata di questa categoria del popolo francese. A eccezione di alcuni rari momenti di epifania, la geopolitica della Francia non è mai stata contestata e ancor meno la questione della guerra o dell’industria della morte. È questa indifferenza culturale verso il destino dei popoli martirizzati dai nostri Stati, dalle nostre armi e dalle nostre multinazionali a essere la cosa più inquietante, quella che fa più rabbia e che rende ardua la prospettiva di una rivoluzione della coscienza bianca. I decoloniali sono soliti dire che i popoli del Sud non chiedono alcun pentimento e nessuna scusa. I poteri coloniali dovrebbero chiedere scusa al popolo francese per averlo corrotto e associato al crimine coloniale. Ma i francesi esigono queste scuse dai loro rappresentanti? Domanda vana. Sono troppo innocenti per poterlo fare.

Ci dicono che i poveri, in quanto tali, avrebbero una scusa. Avrebbero altro per la testa. I poveri sarebbero troppo impantanati nei loro problemi quotidiani per preoccuparsi del destino del mondo. Ma questo argomento è stato già da tempo smontato e se questi poveri sono innocenti, è a causa di un tratto comune con i loro fratelli di nazionalità: l’indifferenza. Perché l’indifferenza è anche un tratto, una cultura. Non hanno interesse per la Francia bombardiera, la Francia interventista, la Francia decapitatrice dei regimi. Questo rapporto della Francia con il mondo è per loro normale e non è interrogabile. «La cosa peggiore è avere un’anima che finisce con l’abituarsi», diceva Charles Péguy. Tuttavia, non sarebbe un affronto considerare che essi possano e debbano porsi delle domande. Una, ad esempio, alla portata di tutti: i francesi troverebbero normale essere bombardati in nome della democrazia? Troverebbero normale che l’esercito della Repubblica Centrafricana pattugli le strade di Tolosa, Parigi o Bordeaux e imponga la sua legge? Troverebbero normale che potenze straniere scelgano i governanti al loro posto, destituiscano i loro presidenti o li uccidano? La risposta è così ovvia che la domanda non viene mai posta. L’indifferenza è un tratto dell’umanità bianca perché ogni bianco, per quanto povero possa essere, sa per istinto che questo ordine gli è favorevole. I poveri o gli emarginati – piccoli bianchi, proletari, classi medie – fanno parte di questo ordine ed è con loro che bisognerà fare i conti. Fare i conti con un’umanità che ama solo i suoi figli. È lì la disgrazia. È lì il nodo. È lì la scommessa.

Non si potrà mai sottolineare abbastanza quanto l’occultamento delle grandi contrapposizioni ideologiche e la scomparsa delle organizzazioni operaie abbiano confuso e disperso la classe proletaria. Ma questa è una storia relativamente conosciuta. Molto meno si conoscono gli effetti nefasti dell’antirazzismo di Stato o morale (sottocategoria della soft-idéologie, cifra politica del mondo post-storico) sulle popolazioni bianche più precarie e vulnerabili. Potremmo, in prima battuta, pensare che l’antirazzismo morale sia stata un’arma ideologica per contrastare qualsiasi forma di autorganizzazione politica delle comunità immigrate, che sia servito a depoliticizzare le lotte contro la polizia e le discriminazioni o che abbia deviato l’ira contro lo Stato verso il Fronte Nazionale e i piccoli bianchi. Niente è più vero. Tuttavia, sarebbe sbagliato sottovalutare gli effetti performativi di questo di scorso e i danni, sia morali che materiali, che ha causato ai beaufs, che si sono sentiti lesi da questo compromesso, mentre il patto razziale/nazionale avrebbe dovuto dar loro la priorità. L’idea che le élite preferiscano i non-bianchi è una credenza che favorisce la competizione e il risentimento a discapito della convergenza degli interessi. Tuttavia, invece di condannare questo sentimento, mi sembra più costruttivo distinguere il vero dal falso. Perché vi è qui una parte di verità.

Nel momento in cui irrompono sulla scena politica, i gilet gialli insorgenti, questi piccoli bianchi delle periferie e delle campagne, hanno reso meno chiara la separazione che, negli ultimi quarant’anni, ha visto soprattutto a livello mediatico l’opposizione tra il potere centrale e le banlieue indigene. I gilet gialli si sono inseriti, come intrusi, in questo scontro che schiacciava tutte le altre contraddizioni. I gilet gialli sono emersi dal nulla per reclamare la propria parte di dignità sul piano sociale e identitario, esprimendo a modo loro, con parole e azioni anarchiche e disorganizzate, qualcosa di simile allo slogan degli afroamericani: le nostre vite contano. In questo modo hanno rivendicato di essere le vere vittime del sistema, i veri negletti, i veri dimenticati, con il risultato di destabilizzare l’indigeno politico che considera il soggetto postcoloniale come la vittima ultima dell’ordinamento sociale e che vede ogni bianco come intrinsecamente superiore.

Possiamo dire che i piccoli bianchi sono vittime dell’ordinamento sociale, simbolico e politico, non solo perché lo hanno dichiarato collettivamente ma anche perché un simile dubbio equivarrebbe a dimenticare che le democrazie liberali non hanno mai cancellato la divisione di classe. L’hanno solo resa più opaca attraverso lo sviluppo delle classi medie e superiori. Ci sono i poveri, piccoli e grandi, e ci sono la borghesia e le classi dominanti. I piccoli bianchi sono quindi delle vittime. Tuttavia, prima di determinare chi tra l’indigeno e il piccolo bianco sia la vera vittima e prima di definire l’utilità strategica di tale decisione, è importante non mettere in dubbio il sentimento autentico avvertito da troppi bianchi, ovvero che sono vittime disprezzate ma anche che “tutto viene fatto per la feccia dei quartieri periferici”. Si negherebbe loro il diritto di definirsi vittime, perché il posto è già occupato. Fermiamoci qui per un istante e cominciamo a distinguere il vero dal falso.

Ciò che dicono i gilet gialli è che c’è tradimento. Sono stati privati della loro madrepatria che gli appartiene in modo carnale, ma questa gli sfugge perché le “élite cosmopolite” hanno deciso diversamente e preferiscono gli indigeni a loro. Le autorità pubbliche dei grandi centri li abbandonano a favore delle “zone difficili” e lo fanno con i soldi pubblici che sono prima di tutto loro. È il loro duro lavoro che finanzia le politiche urbane, il recupero delle città, le politiche di discriminazione positiva, mentre loro sono semplicemente invisibili, ignorati, privati di servizi pubblici, mentre la periferia riceve tutti i favori anche dal punto di vista simbolico. Perché la periferia non è solo uno spazio di miseria, violenza o criminalità, è anche sexy. La periferia affascina il radical chic, gli ambienti snob, il cinema e la moda. L’estetica della periferia plasma il buon gusto e l’essere cool. Che valore hanno i bianchi “perdenti” accanto ai fighi indigeni? “Troppo bianchi per interessare la sinistra, troppo poveri per interessare la destra”, secondo l’efficace formula di Aymeric Patricot. Quando si ribellano, mostrano la loro dignità calpestata, che, per esprimere la sua essenza più profonda, si incarna spesso con la bandiera, la patria, l’identità e il territorio.

Non possiamo fare un processo ai gilet gialli per aver esplicitamente manifestato un sentimento razzista o apertamente di estrema destra, ma possiamo chiederci perché non abbiano ulteriormente spalancato le porte del loro spontaneo sciovinismo. Erano, infatti, ben lontani dall’essere politicamente determinati dall’estrema destra, ma comunque possedevano una conoscenza intima della Francia razzista. Sanno di essere stretti nel dispositivo ideologico del benpensante borghese. Gravano sulle loro spalle quasi quarant’anni di antirazzismo morale, eppure restano saturi di pregiudizi razzisti, sessisti e omofobi. Sono loro che compaiono insieme all’emergere dell’estrema destra, che vengono accusati di sputare sugli arabi e di avere talvolta il grilletto facile  e che bisogna educare quando esitano a far sposare la loro figlia con un nero. Sono loro che pagano il prezzo delle politiche di pacificazione “antirazziste”…perché sono i principali capri espiatori. Per dirlo semplicemente, i poteri pubblici hanno sistematicamente scaricato il peso del razzismo strutturale dello Stato sul Front National/Rassemblement National e sui piccoli bianchi, cioè rispettivamente sul baluardo del razzismo repubblicano e sugli ultimi della scala del sistema razziale. A questi ultimi è rimasto l’obbligo di ingoiare il rospo e il dovere di «tollerare» il loro vicino mentre l’indigeno li schernisce, radicato nella sua onnipotenza culturale e nella sua capacità di ribellione. Lui, l’indigeno, che osa saccheggiare gli edifici pubblici, bruciare le auto, liberato da ogni convenzione che si impone alle brave persone. Sono quelli che si alzano presto, lavorano di più ma guadagnano meno. 

Il subappalto del razzismo alle classi popolari bianche è stato accompagnato dalla riduzione al silenzio della loro frustrazione e del loro risentimento. La censura della coscienza morale non ha mai smesso di monitorare le anime devianti. I piccoli bianchi conoscono la bestia che si erge davanti a loro, hanno semplicemente messo in pratica una sorta di taqiya. Alle rotonde e nelle manifestazioni dei gilet gialli, il sentimento razzista era tacito. Non dominante, non opprimente, ma tacito. Innanzitutto, perché le principali rivendicazioni dei gilet gialli erano davvero sociali e autenticamente rivolte contro il carovita, ma anche perché il loro istinto comandava loro di non dare alcuno spazio alla coscienza morale che avrebbe finito per assediarli.  Era pronta la punchline disarmante: “arrabbiati ma non fascisti!”.

Osserviamo dunque più attentamente la lamentela “si presta troppa attenzione agli immigrati”. Come possiamo smentire questa considerazione quando il panorama mediatico è saturo di questa idea? In questo senso, la Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo del 1983 ha segnato la fine dei giorni felici. Nulla è stato più come prima con i barbari alle porte e si è resa necessaria una reazione all’altezza della sfida. Da allora non abbiamo più smesso di stilare l’inventario di tutti i programmi di riqualificazione dei quartieri cosiddetti “sensibili”, il cui obiettivo dichiarato è “ridurre le differenze di sviluppo nei grandi insediamenti urbani per ripristinare l’uguaglianza repubblicana”, versano fiumi di soldi per le politiche urbane, per il rinnovamento dei quartieri, per la sicurezza e la prevenzione della criminalità, per lo sviluppo sociale e per la lotta contro la disoccupazione. Dovremmo dunque concludere che la periferia indigena è stata favorita rispetto alle periferie bianche? Questo è ciò che dicono i sostenitori dell’idea di una “Francia periferica”, una lettura delle divisioni territoriali che oppone le metropoli, comprese le banlieue, alla Francia delle campagne. I primi sarebbero i beneficiari della mondializzazione, i secondi le vittime. Si potrebbe dare credito a questa ipotesi se non facesse delle città popolari le vere protagoniste di una globalizzazione felice e se non costruisse una complicità tanto immaginaria quanto delirante tra i banlieuesard e i bobos, i borghesi progressisti radical chic. Tuttavia, è esattamente questo ciò che fa. Ed è ciò in cui credono fermamente i piccoli bianchi, intossicati dal loro risentimento, dal circo mediatico e da altre teorie di questo genere, che si fingono sensibili alle esigenze del popolo ma sono etniciste e banalmente vendicative. Perché se è vero che la periferia ha goduto di una generosa beneficenza, è stato più per via della pericolosa vicinanza dei barbari con la civiltà che non per una preoccupazione di giustizia sociale – il cuore borghese delle grandi città è solo a poche fermate di metropolitana.

I soldi che vengono versati e i bilanci che vengono votati non hanno lo scopo di fare giustizia, comprano la pace sociale. La loro dimensione domestica, da cui dipende economicamente la loro vita quotidiana, deve rimanere a pochi passi di distanza, come per i signori feudali nei loro domini. I servi, le cameriere, i palafrenieri, i giardinieri, le tate sono alloggiati nel sottotetto o nel seminterrato, fuori dalla vista ma nelle vicinanze.  Infatti, i quartieri d’immigrazione restano di gran lunga i più poveri della Francia e i soldi investiti sono controrivoluzionari. Con questa manna, l’indigeno è tenuto sotto controllo. Il sistema clientelare compra tutto, persino la rivolta. L’indigeno rimane tendenzialmente il più povero e non ha gli stessi diritti politici e sociali degli altri. Non ha il diritto di organizzarsi al di fuori del controllo dello Stato. Le sue credenze sono criminalizzate, i suoi luoghi di culto sotto pressione. Tutto ciò che ritiene sacro viene calpestato. Riempie le prigioni. Muore sotto i colpi della polizia e in generale non ha diritto a un processo equo. Di lui si dice qualunque cosa con totale impunità, è diffamato e accusato di tutto. È, infine, responsabile di ogni crimine commesso da uno dei suoi simili. Dal più piccolo incidente fino al Bataclan. Però continua a essere utile al rinnovamento della classe operaia lì dove è più debole, lì dove i piccoli bianchi non vogliono assolutamente essere. Ma dal 2008, i piccoli bianchi stanno scivolando verso il basso e sono centinaia di migliaia, forse milioni, a indigenizzarsi in un declino sociale e di status che può essere considerato come una minaccia politica e come un’opportunità viste la forza di attrazione dell’estrema destra, ma anche la memoria delle lotte sociali e sindacali in molti luoghi.

L’antirazzismo ufficiale e la strumentalizzazione del Front National sono state le due facce di una stessa politica di Stato, consapevole e risoluta. Si trattava di rafforzare l’egemonia del blocco al potere tenendo sotto controllo due gruppi: i piccoli bianchi che il potere liberale stava per tradire e gli indigeni che, se fossero entrati in stato di agitazione, avrebbero fatto temere una radicalizzazione delle lotte sociali. Così, l’antirazzismo morale che si è sviluppato negli anni Ottanta non è altro che un aggiornamento del patto razziale plasmato dal desiderio di uguaglianza dei discendenti degli immigrati postcoloniali e dalla necessità dello Stato (sostenuto dalla sinistra istituzionale e da una parte della sinistra radicale) di garantire e perpetuare il favore di razza senza la quale avrebbe rischiato di perdere il consenso delle masse bianche. Questa strategia ha avuto effetti paradossali. Da una parte, è stato necessario impartire lezioni di antirazzismo ai piccoli bianchi e insegnare l’integrazione repubblicana agli immigrati. Dall’altra, rassicurare il popolo bianco dando segnali all’estrema destra (“la Francia non può accogliere tutta la miseria del mondo”, o “il FN pone le giuste domande ma non dà le giuste risposte”). La costante è stata quella di adattare il patto razziale ai colpi inflitti dai postcolonizzati e da questo grande Sud che non ha mai smesso di agitarsi, cedendo, decennio dopo decennio, sempre più terreno all’estrema destra. Quindi non è esagerato affermare che il potere ha deliberatamente aumentato il livello di razzismo dei bianchi e lo ha utilizzato come variabile di adattamento, mentre ogni politica sociale in grado di risolvere il problema è stata resa impossibile dal rinnovato dinamismo del liberalismo e dalla storica resa della sinistra. Una resa che, come abbiamo visto, è stata fortemente determinata dalla sua sostanziale bianchezza.


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