Il decennio scorso è stato accompagnato dalla più grande scia di movimenti di piazza che la storia abbia mai visto, coinvolgendo paesi lontanissimi come l’Egitto e il Brasile, Hong Kong e il Cile. Eppure, a così pochi anni di distanza, non sembra rimasto essere nulla di questa fase – e anzi, alcuni di questi paesi sono messi molto peggio adesso che non prima delle rivolte. Cosa è successo? Ne abbiamo parlato con Vincent Bevins, giornalista americano e autore di Se noi bruciamo, uscito il 24 settembre per Einaudi.
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Nel tuo libro sostieni che gli anni Dieci del XXI secolo abbiano visto un’esplosione senza precedenti di manifestazioni di piazza, tanto che si è parlato di “decennio delle proteste”. Quali sono state le caratteristiche principali di questi eventi e in cosa differivano dai movimenti antisistema dei periodi precedenti?
Questi calcoli sono complessi da fare ma, per quello che ne sappiamo, più persone hanno partecipato a delle proteste di piazza fra il 2010 e il 2020 che in qualunque altro momento della storia umana, in un ciclo di rivolte a varie ondate che ha surclassato il precedente record degli anni ’60 del secolo scorso. Nel libro mi sono concentrato sui movimenti di piazza abbastanza grandi da ribaltare governi in carica o comunque da destabilizzare concretamente le società in cui hanno avuto luogo, e queste condividono – chi più, chi meno – tutta una serie di caratteristiche storicamente determinate e infatti osservate per la prima volta in questo frangente. Nella fattispecie, questo “pacchetto sovversivo” è fatto di proteste di massa apparentemente spontanee, senza leader, coordinate digitalmente, strutturate orizzontalmente e che hanno luogo negli spazi pubblici. Alcuni di questi elementi sono più nuovi di altri – è chiaro, ad esempio, che il coordinamento e l’organizzazione attraverso i social media non potevano essere possibili prima del XXI secolo – e in effetti la stessa modalità di ribellione espressa nelle proteste di piazza è un fatto relativamente recente nella storia umana.
Al contrario, i movimenti antisistema sono una realtà che nasce già agli inizi del XX secolo. Il concetto è stato introdotto da Arrighi e Wallerstein che ne avevano individuato sei diverse forme, distinte a seconda dello spazio (primo, secondo o terzo mondo) e del periodo (prima o dopo il 1968) in cui hanno avuto luogo. È interessante notare come una gran parte degli elementi caratteristici delle proteste degli anni Dieci si possono ritrovare già nei movimenti antisistema emersi nel mondo occidentale dopo il ’68, tutto sommato rinunciando invece alle peculiarità delle altre forme di contestazione emerse nel corso del Novecento – come i partiti leninisti, i movimenti di liberazione nazionale o quelli di ispirazione religiosa. Nella definizione dei due autori, infatti, queste iniziative differivano profondamente dalla precedente tradizione di partiti laburisti e socialdemocratici, e si caratterizzavano in primo luogo come meno strutturate e più nebulose nelle proprie rivendicazioni – proprio come visto negli anni Dieci. Eppure le proteste di piazza del XXI secolo non possono essere ridotte ad una semplice riproposizione, lievemente modificata, di questo modello; si tratta infatti di una combinazione assolutamente nuova, fatta dell’incontro fra elementi del passato e le nuove tecnologie nate negli anni 2000. Questa definizione dei movimenti di piazza è diventata egemonica al punto da apparire come il modo naturale di manifestare nel corso degli anni Dieci, risultando particolarmente efficace in certi aspetti ma molto meno in altri.
Il tuo libro adotta un approccio globale che, partendo da casi specifici, porta a definire una storia più vasta del decennio. È possibile individuare uno o più fili conduttori che leghino queste proteste in una narrativa unitaria?
Si, assolutamente. Nella fattispecie se ne possono individuare tre principali che legano tra di loro ognuno dei casi che ho analizzato, pur tenendo chiaro che questi fattori non spiegano da soli l’esplosione delle singole proteste. Perché abbia inizio un movimento tale da mettere in crisi la tenuta di uno Stato è infatti necessaria la compresenza di una pluralità di cause che si mescolano fra di loro; alcune sono strettamente locali (in Egitto, ad esempio, il conflitto per la successione fra l’esercito e la famiglia Mubarak), mentre queste tre sono bene o male sempre riscontrabili.
La prima è la reazione alla crisi finanziaria del 2008: come si è sempre visto nella storia del capitalismo, la politica vi ha risposto cercando di salvaguardare la posizione delle élites economiche piuttosto che porsi l’obiettivo di tutelare le parti più in difficoltà della popolazione, e proprio per questo l’evento si è configurato come una sorta di prequel di tutte le piazze del decennio successivo. In secondo luogo, abbiamo il ruolo di primo piano (e tendenzialmente nocivo) giocato dai social media, tendenzialmente esagerato dalla narrazione mediatica mainstream che specialmente fra 2011 e 2012 ne ha fatto un elemento centrale arrivando a ridurre eventi complessi le primavere arabe a delle “rivoluzioni di Twitter”. Infine, la generalizzata crisi di rappresentazione della politica in diverse parti del mondo, data dalla sempre più diffusa convinzione che le élite politiche non rappresentassero la gente comune come dovrebbero – un fatto oltretutto confermato dalla scienza politica, bendisposta a riconoscere che nel sistema capitalistico globalizzato il potere tenda a rispondere alle pressioni del mondo dell’economia piuttosto che a quelle esercitate dal basso. In questo contesto rientra la rivolta populista e che, nella sua forma di destra ed anti-politica, si configura come una cattiva risposta ad un problema reale; le élite smettono di essere rappresentative e quindi qualunque cosa gli sia esterno è percepita positivamente, finendo per eleggere comici o star dei reality show.
Alla fine di ogni ciclo di proteste si traccia un bilancio che negli anni Dieci è quasi sempre stato interamente negativo – quasi ogni movimento di piazza ha mancato i propri obiettivi, specie quelli della Primavera araba. Quali ritieni siano stati gli errori principali commessi in quegli anni e da dove arrivano? Ma soprattutto: credi che le piazze abbiano imparato qualcosa da questi?
Nel libro analizzo una decina di casi e, in effetti, i risultati migliori che si riscontrano non sono che delle vittorie parziali, mentre in molti altri casi abbiamo dei rovesciamenti particolarmente devastanti che aprono a scenari anche peggiori della situazione di partenza. Per comprendere questo fatto non parlerei tanto di errori delle piazze ma più in generale di inadeguatezza di una certa forma di organizzazione delle proteste e di tutta una serie di tattiche rispetto alle possibilità che sembravano essersi aperte nel corso del decennio. In certi casi, è facile dire a posteriori che si sarebbe dovuto agire altrimenti – come dopotutto hanno fatto anche molte delle persone che ho intervistato per il libro – ma bisogna capire che le scelte fatte erano spesso le uniche che potevano essere messe in atto, rivelando come in effetti le condizioni sociali e politiche di partenza del XXI secolo fossero meno favorevoli per i movimenti di piazza di quanto non si credesse.
Magari in Egitto qualcuno potrebbe rammaricarsi per la mancata creazione di una coalizione elettorale delle opposizioni ma restiamo sempre in un ambito a mio avviso marginale o comunque poco utile a spiegare quanto accaduto; l’origine del problema va cercata nelle forme organizzative e nelle tattiche adottate in modo sempre più automatico come se fossero semplicemente pronte all’uso indipendentemente dai contesti, godendo oltretutto di una sorta di legittimazione ideologica. Non c’è dubbio che queste pratiche si siano rivelate incredibilmente efficaci quando c’era da attirare la gente nelle strade e destabilizzare i governi, ma poi? Una volta che il dittatore di turno se n’era scappato sul proprio aereo e le élites riconoscevano l’impossibilità di proseguire con la riproduzione della società, si rendeva necessario fare concessioni alle piazze che si ritrovavano puntualmente incapaci di cogliere tali opportunità. Non si tratta soltanto di riuscire a riempire un vuoto politico ma anche solo di approfittare delle concessioni fatte dal potere: non si può nemmeno dire che si fossero fatte le domande sbagliate perché tanto era comunque impossibile per una massa di individui scesi a manifestare per le ragioni più diverse anche solo immaginare una serie di richieste coerenti. Insomma, già in partenza non c’è mai stato un meccanismo che permettesse di cogliere possibilità che tanto rapidamente si presentavano e poi sparivano – anche banalmente perché qualcun altro ne approfittava, raccogliendo così i frutti delle lotte di base con conseguenze tragiche. Un altro elemento che ho riscontrato nelle mie interviste è che questo tipo di movimenti si è ritrovato particolarmente vulnerabile alla manipolazione mediatica e in generale alla narrazione giornalista fatta dai grandi media – specialmente quelli in lingua inglese. Di fatto, le classi intellettuali anglosassoni hanno imposto alle piazze una propria lettura dall’esterno che non ne rispecchiava necessariamente la realtà ma semplicemente le proprie aspettative.
Se poi i militanti abbiano imparato da tali esperienze o se certi fallimenti siano destinati a ripetersi, mi sento dire che dovremmo aspettarci un misto delle due cose. Se da un lato credo che le persone stiano acquisendo maggiore consapevolezza ideologica nel promuovere un cambiamento politico, dall’altro ad oggi rimane molto più facile mettere in piedi un movimento spontaneo e senza leader piuttosto che costruire organizzazioni ideologicamente coerenti e concretamente democratiche che siano capaci di operare sul lungo termine. Lo vediamo ancora oggi nelle manifestazioni a sostegno della Palestina, tendenzialmente simili a quelle del decennio scorso, tanto nella propria orizzontalità quanto nell’agire solo in senso reattivo contro quelli che sono percepiti come abusi di potere.
Anche quando i movimenti di piazza sono arrivati effettivamente al potere, come in Grecia nel 2015 e in Cile nel 2021, non sono poi stati in grado di dare seguito alle rivendicazioni che ce li avevano portati e si sono ritrovati a perpetuare le vecchie dinamiche di potere. Hanno avuto comunque ragione quanti ritenevano necessaria l’entrata della piazza nelle istituzioni o quanto ottenuto dovrebbe lasciare insoddisfatto chi aveva in precedenza lottato nelle strade?
Entrare nelle istituzioni significa ritrovarsi davanti a tutta una nuova serie di sfide, davanti alle quali è possibile fallire e scoprire che è molto difficile governare – specialmente in contesti come un paese dell’Europa meridionale o per un movimento socialdemocratico del Sud del mondo. Sicuramente, i governi di Tsipras e di Boric sono stati un insuccesso, ma è anche vero che, storicamente, ogni volta che i movimenti di protesta o più in generale la sinistra sono arrivati al potere in paesi capitalisti hanno poi deluso le aspettative – e, in effetti, è stato proprio il riconoscimento della difficoltà a trasformare uno Stato che nel XX secolo ha portato una parte della sinistra a privilegiare le forme di organizzazione dei movimenti sociali di cui abbiamo parlato prima. Entrando nella contesa elettorale, si accetta di essere sottoposti a regole e vincoli anche quando si vince e che sono destinati a permanere fino a quando non si hanno il completo collasso delle istituzioni e un gruppo rivoluzionario capace di ricostruirle – come non è mai accaduto negli anni Dieci.
L’esempio di Boric, eletto come diretta conseguenza delle proteste, funziona particolarmente bene proprio perché il suo operato è largamente impopolare anche fra quanti l’hanno votato o che comunque erano stati parte delle proteste. Eppure non ci si può limitare a questa visione estremamente minimalistica: malgrado l’insoddisfazione, il governo di Boric resta, anche secondo molti cileni di sinistra, comunque meglio di quanto si è visto in Egitto o in Brasile all’indomani dei movimenti di piazza e resta notevole che qualcuno venuto fuori dal movimento studentesco adesso sia alla guida dello stato. Al contempo questa esperienza mostra, ancora una volta, i limiti di questo tipo di rivolte in termini di risultati ottenibili: almeno nei tredici casi che ho trattato, il meglio che si è ottenuto è stato l’arrivo al potere di qualcuno che provenisse da ambienti politicamente vicini alle piazze e rivelatosi capace di imporre le proprie ricette, ma le piazze non sono state in nessun caso capaci di determinare da sole il risultato finale del movimento di protesta.
Insomma, il semplice fatto di dedicarsi alla trasformazione dello stato non ne implica necessariamente la riuscita, ma al contempo è chiaro che, fino a quando esisterà un sistema globale fondato sugli stati nazionali, non si potrà entrare nel gioco della politica senza occuparsi anche della forma concreta che questi assumono. In sintesi ci troviamo davanti ad un falso dilemma, se si considerano tanto i movimenti di cui parliamo quanto le forze a cui questi si contrapponevano. È necessario confrontarsi con la realtà istituzionale per come è ma anche ascoltare le pressioni dal basso, come sembrano aver capito anche molti di quelli che ho intervistato: non bisogna essere totalmente ossessionati dalla presa del potere, ma nemmeno spingerne così in avanti il rifiuto da smettere di preoccuparsi delle persone che fanno le leggi e decidono chi finisce in prigione. Le due cose non si escludono a vicenda; occorre proseguire con il lavoro di sindacati, movimenti sociali e proteste di piazza, ma non è che si cancella l’intera capacità organizzativa della sinistra solo perché una sua parte è entrata nelle istituzioni.
La frequenza delle dimostrazioni nel corso del decennio ha portato a fare confronti con precedenti ondate di proteste di massa. Nello specifico, è diventata percezione comune l’idea che le piazze di tutto il mondo rimandino ad un unico movimento globale e che le riforme democratiche fossero la sola soluzione possibile – da cui i frequenti rimandi alla “primavera dei popoli” del 1848. Pensi che questi confronti abbiano un senso o creano soltanto confusione?
Ritornando al testo di Arrighi e Wallerstein, la lezione che i due studiosi colgono dall’esperienza del 1848 è particolarmente frustrante ed è soprattutto molto simile a quello che molte persone mi hanno detto in riferimento alle proteste degli anni Dieci: un’esplosione di piazza spontanea non è abbastanza in assenza di un movimento organizzato e strutturato, non se si vogliono portare avanti riforme concrete. Credo che questa sia l’analogia più solida che si possa fare tra i due contesti, perché sennò è difficile trovarne altre: i movimenti del 1848 avevano varie richieste ma tutte bene o male riconducibili alla creazione di repubbliche o di istituzioni liberali, mentre i movimenti degli anni Dieci hanno portato avanti una molteplicità tale di rivendicazioni che non gli si può nemmeno attribuire una qualche connotazione ideologica comune. Le proteste in Ucraina o a Hong Kong non potrebbero essere definite di sinistra e in generale le piazze si sono limitate a richieste basilari di democrazia – per quanto una gran parte dei manifestanti in Egitto o in Bahrain avesse una visione che andava ben oltre la creazione di strutture liberali o l’organizzazione di semplici elezioni; in Brasile, d’altra parte, c’era già un sistema democratico e anche un presidente eletto di sinistra, e in effetti non è mai stato chiaro quale fosse l’obiettivo della rivolta. Inoltre, lo spazio geografico coinvolto dalle proteste negli anni Dieci è stato ben più largo, specie tra il 2011 e il 2013, ed estremamente diversificato sul piano politico ed economico, ma comunque si è sempre fatto riferimento ad un ventaglio ristretto di approcci tattici, riprodotto in qualunque contesto e adattato a tutti i tipi di richieste; rivendicazioni di sinistra come di destra, e persino antipolitiche o fasciste, sono state tutte accolte più o meno ovunque le persone scendessero in piazza. Questo è ciò che penso sia davvero unico rispetto ai precedenti momenti di rivolta nella storia, quello che ci si deve augurare invece è che le persone reagiscano ai risultati deludenti ottenuti rendendosi conto che è necessaria la creazione di una vera organizzazione, come nel XIX secolo fu la Prima Internazionale.
In chiusura del decennio, quale credi sarà la tendenza degli anni Venti? Qualche anno fa la pandemia di Covid è stata interpretata come il momento di arresto delle proteste, ma è possibile sostenere che siano piuttosto venute a mancare determinate condizioni politico-sociali? Tornando al 1848: siamo arrivati alla nostra fase di reazione bonapartista post-rivoluzionaria?
Visto che stiamo giocando sui paragoni storici, ne propongo uno anch’io: come nella rivoluzione francese e in quella russa, quanti hanno preso parte alle proteste degli anni Dieci hanno imparato a loro spese che una rivoluzione genera inevitabilmente una controrivoluzione alla quale una piazza non organizzata non ha modo di resistere. A dirla tutta, perché vi sia una controrivoluzione non è nemmeno necessario che si sia effettivamente tentato di fare una rivoluzione, è già di per sé sufficiente che le élites si sentano minacciate. Esattamente come accadeva in passato, anche negli anni Dieci si nota di frequente che la controrivoluzione è geopoliticizzata e che sono gli alleati del vecchio regime a fare la guerra al nuovo governo.
Detto questo, bisogna ricordare che storicamente un fallimento iniziale può portare sul lungo termine ad una vittoria. Anzi, possiamo dire che i cambiamenti politici più profondi nella storia siano arrivati proprio da rivoluzioni abortite e sconfitte che dopo, anni se non decenni, sono state riorganizzate in nuovi movimenti più forti una volta presentatesi condizioni più favorevoli. Molte delle persone con cui ho parlato si auguravano proprio che potesse accadere questo – come avvenuto alla rivoluzione cinese fra 1927 e 1949, a quella russa fra 1905 e 1917 e al 1848 europeo, da cui avrebbero poi avuto origine i movimenti sociali capaci di trasformare l’Europa nei settant’anni successivi. Sono molte le analogie che si possono fare con le rivoluzioni del passato e questa è anche una condizione tipica del genere umano che, come ricorda Marx in apertura al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, si dirige verso il futuro prendendo in prestito immagini e strumenti del passato.