Nel XXI secolo il liberalismo è arrivato a occupare tutto lo spazio ideologico, cancellando o sussumendo i suoi avversari. La democrazia si è trasformata in democrazia Herrenvolk o in bonapartismo. Ne abbiamo parlato con Luciano Canfora, professore emerito all’università di Bari.
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Il liberalismo oggi si propaganda come la sola ideologia capace di garantire la giustizia sociale e la democrazia. Eppure già a metà Ottocento Marx nota come lo stesso sostenga forme politiche autoritarie qualora percepisca minaccia alla propria posizione. Come si spiega questa contraddizione?
Intanto non credo sia vero che il liberalismo voglia porsi come promotore di democrazia e giustizia sociale. Il liberalismo ha come norma fondamentale, fin dalla propria affermazione, “meno stato e più mercato”. Pensiamo a Benjamin Constant che nel suo Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni accusa i giacobini di aver voluto imporre il pouvoir social, celebrando invece Luigi XVIII per aver reintrodotto la “libertà di arricchirsi”. Significativa in tal senso la pesante frase conclusiva del Discorso: “la ricchezza si nasconde e fugge, è il governo che si deve piegare”. Il liberalismo si fonda sulla capacità individuale di vincere la gara contro gli altri, una visione in concreto profondamente egoistica. Ciò è in evidente contraddizione con il concetto stesso di democrazia, ragion per cui il liberalismo ha tradizionalmente promosso il suffragio ristretto che, come largamente ricordato da Domenico Losurdo, avrebbe garantito alle classi possidenti la prevalenza anche nei regimi rappresentativi. Dal canto suo, è stato il movimento operaio a cercare di imporre principi come il suffragio universale, in Italia arrivato su iniziativa di Togliatti, allora ministro della giustizia. L’equivalenza fra liberalismo e democrazia è appunto una leggenda sostenuta dai propagandisti del neoliberalismo.
Nel suo La democrazia dei signori lei affronta il tema facendo riferimento alla teoria della “democrazia Herrenvolk” – ossia, democrazia per il popolo dei signori – di Domenico Losurdo, tesi che presuppone l’esistenza di uno spazio sacro entro cui si concentrano dominio politico e sociale. In che modo questa si distingue dal concetto di bonapartismo?
Losurdo ha grandi meriti, fra cui l’aver spiegato una volta per tutte che quando nel XIX secolo il mondo occidentale ed europeo ha conquistato, dominato e schiavizzato il resto del mondo dividendolo in imperi coloniali, ha concesso alle popolazioni della metropoli un po’ di benessere a tutto svantaggio dei popoli coloniali. L’Herrenvolk è proprio questo popolo dei signori e dominatori nel quale rientra l’operaio inglese, tutto sommato in una posizione migliore dello schiavo indiano o cingalese, e il jingoismo americano, per cui nella metropoli si difendono i nostri interessi contro i popoli dominati. Nelle attuali realtà statuali lo si identifica nella parte più attiva della popolazione, che si autodefinisce “popolo” omettendo il sottinteso “dei signori”, essendo quanti se la passano meglio.
Per quanto concerne la riflessione marxiana sul bonapartismo, questa si compone anche di un approfondimento sul lato demagogico verso un popolo non vigile, ancora più che nel liberalismo. Napoleone III già in gioventù aveva scritto un trattatello di politica sociale in cui recepiva tutta una serie di istanze politiche filopopolari che alla mentalità liberale e perfino ai girondini non piaceva per niente, ma riuscendo proprio per questo a stravincere le elezioni. Quel successo enorme di Bonaparte sta a significare che il bonapartismo, come poi il fascismo nel XX secolo, riesce a coniugare due realtà, quella popolare di segno demagogico ed un potere forte essenzialmente poliziesco, liberticida ed ostile alle opposizioni. Marx scrive che questa esperienza prevalendo sulla seconda repubblica può essere salutata con il famoso “ben scavato, vecchia talpa”: la rivoluzione schiacciata dai repubblicani di Cavaignac può risorgere attraverso il tunnel scavato da Napoleone III. La profezia non si avvera, venendo anche la Comune di Parigi schiacciata dai repubblicani borghesi. Insomma, nessuno è profeta.
Questo ha poco a che fare con la democrazia dei signori italiani, riguardante il disamore della popolazione per il diritto di voto, complice il PD atlantista, tecnocratico ed europeista, la cui vittoria elettorale nelle ZTL è coerente con la sua natura e che credeva di stare per sempre al governo, venendo poi svegliato duramente da una nuova forme di ambiguità filopopolare e reazionaria che ha prevalso alle urne con l’aiuto involontario delle stesse leggi elettorali create dal PD. Chi è causa del suo male pianga se stesso.
Il bonapartismo di Marx coincide sostanzialmente con il “cesarismo regressivo” di Gramsci, contrapposto a quello progressivo individuato in Cesare e Napoleone. È possibile individuare tratti cesaristi progressivi nella storia del socialismo reale?
Il discorso di cui sopra non riguarda il cesarismo. Lo stesso Gramsci oscilla nelle diverse stesure dei suoi quaderni: la prima è molto netta ma quella definitiva e più ampia, tanto che nel Quaderno 13 individua anche in Napoleone III elementi di cesarismo progressivo. L’atteggiamento del movimento comunista è stato in questo senso abbastanza complicato. Lo stesso Gramsci nell’articolo in morte di Lenin pubblicato per L’Ordine nuovo nel marzo 1924, intitolato Capo, sostiene che ogni stato è una dittatura e ogni dittatura ha bisogno di un capo. Lenin è un capo e Mussolini un capo fallito. La stessa torsione stalinista è in senso cesaristico, pur con importanti differenze naturalmente.
L’idea di un potere molto forte, riconosciuto col consenso, sta dentro l’esperienza sovietica e staliniana ed è inutile fingere che questo non sia. Ci si deve quindi interrogare sul cosiddetto “testamento di Lenin” – in realtà un messaggio per il congresso del partito – in cui lanciava l’allarme per il riproporsi di dinamiche autoritarie riprendendo terminologia di epoca zarista. Poteva essere accolto o l’esperienza di Lenin era già stata travolta? Anche l’antagonista di Stalin, Trotsky, aveva la forte tendenza ad imporre la propria personalità. L’esperienza comunista non è affatto estranea al potere personale che anzi è una delle declinazioni possibili in cui questo si è presentata.
La politica occidentale contemporanea è dominata da figure di carattere bonapartista/cesarista regressivo, trattasi dei leader di destra populista o dei tecnocrati liberali come Macron. Nel resto del mondo è possibile individuare elementi di segno progressivo?
Pensiamo a due realtà molto diverse come Cina e India. Negli anni Cinquanta e Sessanta si parlava di due realtà gigantesche agli antipodi: la Cina che tentava un comunismo egualitario, con Mao che aveva una posizione egemonica dominante e gestiva tutto dall’alto, e andava incontro ai fallimenti della rivoluzione culturale; l’India conservava le caste ereditate da tempo remotissimo e l’eredità coloniale.
Da allora è cambiato tutto: si può anche pensare che l’attuale Cina dopo Deng Xiaoping sia in una gigantesca NEP, già in Russia vista come un passo indietro spaventoso rispetto al comunismo di guerra, ma le analogie valgono fino ad un certo punto. Non è prevedibile su tempi storici che l’attuale ipercapitalismo di alcune aree della Cina attuale sia soltanto qualcosa di transitorio, indipendentemente dalla presenza del correttivo costituito dal predominio politico del Partito. “Arricchitevi”, slogan della Cina dengista, si diceva anche ai tempi del Termidoro dopo la morte di Robespierre; i capitalisti cinesi sono capitalisti al 100% e i loro dipendenti sono sfruttati dai propri padroni tanto quanto in Occidente. Ma il Partito esercita un predominio politico e militare in un regime nuovo ed inedito, un’esperienza non riscontrabile nella storia precedente.
È uno stato socialista? Concentrarsi sul fatto che il partito si chiami “comunista” lascia questa come una definizione esteriore. Proprio perché la Cina ha una storia remota di divisioni spaventose, conflitti e frammentazione dell’unità statuale, questa è garantita dall’esercito popolare che si identifica nel Partito. La spina dorsale che tiene la Cina in piedi anche con le divaricazioni fra zone poverissime di contadini che praticano un’agricoltura arretrata e zone di capitalismo ultramoderno, unite dall’Esercito popolare di liberazione di cui il Partito è la proiezione. Per questo serve un capo visibile è riscontrabile in ogni momento nella funzione pubblica che esercita. È una dittatura? La parola viene dal diritto romano e c’entra poco e niente, per quanto i nostri giornali amino utilizzarla. È una forma di potere personale che ha un fondamento molto radicato e scende a compromessi giganteschi rispetto ai proponimenti comunisti del 1949.
L’India è tutta un’altra storia, poiché sono messe insieme le antiche caste, il predominio religioso induista adesso al potere, una grande forza economica di sviluppo costruita sul modello occidentale. Anche lì si può parlare di evidente potere personale, così come nella Russia di Putin che certamente non ha niente a che fare con l’Unione Sovietica, avendo recuperato persino la tradizione zarista ortodossa, ma che al tempo stesso svolge un ruolo ostile al predominio americano sul pianeta. Sono realtà a cui le rigide categorie politiche stentano ad adattarsi.
Filologo classico e storico, è professore emerito all’Università di Bari.