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Negli ultimi giorni, il dibattito italiano si è incentrato su una curiosa vicenda giudiziaria: quella della “famiglia del bosco”. Di solito, su Tempolinea, cerchiamo di tenerci il più possibile lontani dai casi di cronaca italiana, ma, in questa vicenda, si nasconde ben più di un semplice caso giudiziario. Anzi, come spiega Sebastian Bendinelli – editor di Iconografie – è lo stesso approccio alla civiltà che viene messo apertamente in discussione, rendendo necessaria una riflessione complessa che vada al di là dei torti e delle ragioni degli individui coinvolti.

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Il film-culto di Ruggero Deodato del 1980 Cannibal Holocaust racconta la storia di quattro reporter bianchi che, incaricati di girare un documentario sul cannibalismo in Amazzonia, si macchiano di ogni sorta di atrocità nei confronti degli indigeni pur di girare immagini “forti” – soltanto per poi essere a loro volta massacrati e uccisi. I video che hanno girato prima di morire vengono ritrovati e visionati dal professor Harold Monroe, incaricato di fare luce sulla loro scomparsa. Nella scena finale, dopo aver assistito a un crescendo di stupri, decapitazioni, impalamenti e smembramenti, l’esperto esce dalla sede dell’emittente televisiva che avrebbe dovuto trasmettere il documentario, si accende flemmaticamente la pipa e pensa: “Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali”.

Ho pensato subito a questa iconica battuta finale quando, consumando bulimicamente qualsiasi contenuto mediatico riguardante la cosiddetta “famiglia nel bosco”, mi sono imbattuto in questo commento su Instagram: “Da questi commenti si capisce chiaramente che i veri malati mentali siamo noi….i bambini di oggi sembrano tutti dei mentecatti disadattati, ora capisco il motivo”. Quello del rovesciamento polemico dei rapporti tra la salute e la malattia è un luogo comune che tocca un nervo scoperto della società occidentale da almeno un secolo e mezzo. In effetti, si può dire che proprio questo è il motivo principale per cui la storia della famiglia incriminata, i Trevallion-Birmingham, ha avuto una risonanza mediatica così enorme.

Dentro questa storia c’è di tutto: in primis il conflitto tra individuo e società, tra famiglia e stato, che ha fornito alla destra italiana un facile pretesto per trasformare la vicenda in una battaglia da cavalcare. I due sposi che rifiutano le comodità mondane per vivere insieme ai tre figli in una personale utopia pre-industriale rappresentano gli eroi perfetti per una destra reazionaria che ha il rifiuto della modernità nel proprio DNA culturale – senz’altro ha aiutato in questo senso che gli stessi fossero biondi e bianchissimi: non si poteva chiedere di più. Le loro scelte di vita contengono un distillato di cultura di destra, riassumibile nel complessivo rifiuto di tutto ciò che è pubblico – scuola, sanità, utenze energetiche, tasse – in nome di una purezza primigenia. Perfino il branding mediatico della “famiglia nel bosco” risuona benissimo con le idee di chi si è formato politicamente nei “Campi Hobbit” della gioventù missina.

Dall’altra parte, invece, ci sono i super cattivi: giudici-burocrati insensibili al trauma infantile e assistenti sociali che non si fanno scrupoli a spezzare le famiglie. Sotto questo aspetto, il caso di Palmoli è una riedizione del caso Bibbiano: come allora, la verità fattuale e processuale conta poco o niente, se raffrontata all’impatto registrato sulla psiche collettiva. Non solo le inchieste su Bibbiano – o, ancora prima, il successo del podcast di Pablo Trincia Veleno – hanno contribuito a inquinare la reputazione dei servizi sociali, ma hanno anche permesso di sdoganare per la prima volta in Italia la paranoia per il “rapimento” dei bambini da parte di apparati statali o para-statali, già da tempo fortemente influente su una vena sotterranea della destra statunitense. A dirla tutta, questa retorica ormai è praticamente diventata parte del discorso politico mainstream, anche fra i democratici improvvisamente ossessionati dal caso Epstein in una contorsione facilmente criticabile dai loro avversari. È una significativa novità rispetto alle paranoie “tradizionali”, per così dire, sul rapimento dei bambini da parte di minoranze etniche e religiose, che portavano a puntare il dito prima contro gli ebrei e poi soprattutto nei confronti dei rom; questa volta dalla parte dei rapitori ci sono oscure cabale di uomini potenti – come nell’universo cospiratorio di QAnon – o, più umilmente, funzionari pubblici, assistenti sociali e giudici minorili che sottraggono i bambini alle famiglie naturali per gettarli nelle grinfie dell’indottrinamento dell’ideologia gender. 

Ma sarebbe miope non riconoscere il fascino che l’utopia pre-moderna della “famiglia nel bosco” esercita anche su un certo filone culturale di sinistra. Senza tirare in ballo Ivan Illich, Foucault e le critiche alla scuola come “istituzione totale” (ci ha già pensato Christian Raimo), basterebbe notare che i Trevallion-Birmingham sono innegabilmente una coppia di fricchettoni. Oltretutto, dei fricchettoni da manuale, che abbandonano i propri mestieri tradizionali per riconnettersi alla natura in mezzo all’Appennino e decidono di guadagnarsi da vivere con “letture energetiche” o servizi da sensitivi. Una storia comune, quantomeno per tutti quelli che hanno seguito la pipeline che porta dalla sinistra radicale alle filosofie new age e quindi al complottismo più sfrenato e paranoide. Per questo la decisione del tribunale dei minorenni dell’Aquila è stata criticata anche a sinistra, da chi fa pendere la bilancia dell’ideologia più dal lato dell’anticapitalismo ecologista e libertario (rifiutare le istituzioni e andare a vivere nei boschi non è forse di sinistra?) che da quello dello statalismo, sentendosi un po’ in imbarazzo a difendere la decisione dei giudici – dopotutto, sempre di giustizia borghese stiamo parlando, no? È una contrapposizione che si è già vista durante la pandemia di Covid, con la convergenza del libertarianesimo di destra e di sinistra sulle istanze dell’antivaccinismo e della lotta alla “dittatura sanitaria”.

Per provare a risolvere questa contraddizione, qualcuno ha formulato una distinzione categorica tra i “fricchettoni senza soldi” – di sinistra – e i “fricchettoni con i soldi” – di destra. Forse, però, è più utile riconoscere che i due filoni culturali sono accomunati dallo stesso trait d’union , che si ritrova in un altro personaggio che è andato a vivere nei boschi, anche se senza figli al seguito: il terrorista americano Ted Kaczynski, noto come Unabomber. Eroe per eccellenza della ribellione anarco-primitivista alla società industriale, culturalmente di destra – basta leggere il suo manifesto, in cui se la prende lungamente con la “psicologia della sinistra” – ma la cui influenza si riverbera anche in certi ambienti della sinistra radicale, dove la sua lotta contro il capitalismo è stata, se non mitizzata, quantomeno ammirata.

E questo ci riporta a Cannibal Holocaust e alla paranoia sotterranea che agita la coscienza occidentale. Una doppia paranoia, a dire il vero: quella per la malattia e quella per il collasso della società. Il pensiero espresso nel finale del film dal professor Monroe, dopotutto, non è altro che questo: forse ad essere cannibale (cioè malata) è la società figlia della modernità tecnologica, mentre la società degli indigeni è sana, pura, incontaminata. È una riproposizione del mito del “buon selvaggio”, in un contesto però in cui qualsiasi spinta propulsiva del progressismo illuminista e poi positivista è andata esaurendosi – e che, non a caso, oggi sopravvive soltanto in qualche ambito residuale del tecno-ottimismo. L’uomo contemporaneo vive in un mondo dominato da forze che non è in grado di comprendere e da iperfenomeni che non può controllare: microplastiche, cloro nell’acqua, polveri sottili nell’aria, scie chimiche, vaccini, sorveglianza di massa. Ci vuole un grande sforzo razionale – che talvolta sconfina nell’atto di fede – per distinguere le “vere” minacce alla salute da quelle immaginarie o per fare un attento calcolo tra costi e benefici dello sviluppo tecnologico, come quando si soppesano gli effetti collaterali di un farmaco. 

Le strade, a questo punto, diventano due: ipernormalizzare una realtà sempre più angosciosa e vivere come se nulla fosse, continuando a usare le padelle in teflon e le bustine del tè nonostante il bombardamento di reel che ci spiegano che il nostro cervello contiene già l’equivalente di un cucchiaino in microplastiche; oppure impazzire, rifiutare l’intera società come equivalente della malattia e andare a vivere nel bosco. Anche la lotta di Ted Kaczynski era una lotta innanzitutto contro la malattia, conseguenza principale della società industriale. I giudici del tribunale minorile dell’Aquila hanno sospeso la potestà genitoriale dei Trevallion-Birmingham citando il pericolo di “lesione del diritto alla vita di relazione” dei tre bambini, privati del confronto tra pari; non sorprende, al contrario, che Kaczynski abbia dedicato un intero capitolo del suo manifesto proprio alla “sovrasocializzazione”, denunciando l’obbligo alla socialità come uno strumento di controllo, tramite il quale “i bambini sono allenati a pensare e agire come la società richiede” e che produce “bassa autostima, senso d’impotenza, disfattismo e senso di colpa”.

Vivere nel bosco non significa soltanto rifiutare la tecnologia e vivere “come una volta”, ma prepararsi al collasso della società stessa – un collasso che, nel caso di Kaczynski, si cercava anche di accelerare con l’aiuto di qualche pacco bomba. La paura per la disgregazione della società è onnipresente nella nostra cultura, in maniera più o meno conscia, a tutti i livelli: dai miliardari che si costruiscono i bunker, ai singoli appassionati di prepping e survivalismo che guardano su YouTube i video sulla tecnologia preistorica. Per questo gran parte dei commentatori sul caso di Palmoli manifesta stima e ammirazione per i coniugi del bosco: ammiriamo la scelta estrema che nessuno di noi sarebbe capace di fare, ma che, magari intimamente, sentiamo come l’unica scelta giusta e coerente di fronte all’imminente collasso eco-climatico e sociale.

Questo collasso ci fa paura, ma allo stesso tempo ci affascina. Come nella dialettica memetica “nothing ever happens / it’s happening”, tutte le volte che non scoppia una guerra nucleare siamo allo stesso tempo sollevati e delusi. Una sorta di cupio dissolvi, che ha il suo miglior esempio letterario nella conclusione di un romanzo scritto un secolo fa, La coscienza di Zeno – non a caso, tutto incentrato sull’ossessione per la salute e la malattia. Qui Zeno Cosini, dopo aver sentenziato che “la vita attuale è inquinata alle radici”, si abbandona alla fantasia di una “catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni” che potrebbe riportare l’umanità alla salute: “Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. È il paradosso prodotto dallo sviluppo tecnologico svincolato da qualsiasi controllo democratico: o accettiamo la malattia, o rifiutiamo la società – e quindi la vita stessa.


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