Mercoledì 4 giugno scorso è definitivamente diventato legge il cosiddetto “decreto sicurezza”, che introduce, tra le altre cose, 14 nuovi reati (tra cui “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”, “occupazione arbitraria di immobile”, oltre al blocco stradale e al reato di “rivolta” nei penitenziari e nei CPR) e maggiori margini di impunità per i servizi segreti e per i membri delle forze dell’ordine. Un gruppo di esperti dell’ONU e Amnesty International hanno denunciato le minacce del provvedimento alla libertà di espressione e di protesta, oltre al rischio che siano colpiti sproporzionatamente minoranze e migranti. Eppure il decreto sicurezza si inserisce in una lunga tradizione di provvedimenti repressivi che risale almeno agli anni Settanta, quando la lotta ai gruppi armati di estrema sinistra abituò l’opinione pubblica alla legislazione “speciale”. La storia di questi provvedimenti è oggetto dell’ultimo libro dello storico Elio Catania, Antiterrorismo. Conflitto sociale e “fine della Storia” in Italia (1968-1992). Ne abbiamo parlato con l’autore.
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Nel tuo libro riprendi il concetto di “fine della storia”, formulato da Francis Fukuyama, riferendoti alla rimozione del conflitto sociale in Italia, e per questo scegli il 1992 come punto di arrivo della tua narrazione storica. Oggi secondo te siamo ancora in quella fase, o anche dal punto di vista della conflittualità sociale la “fine della storia” sta finendo?
No, penso che la fase sia ancora quella. Un sottoprodotto della “fine della storia” è il fatto che il conflitto sociale venga automaticamente identificato con il fantasma della violenza politica, diventando un tabù. Per le classi dirigenti – non soltanto repubblicane, ma anche dell’Italia liberale, per non parlare di quella fascista – lo è sempre stato, e lo è sempre stato anche per lo Stato nelle sue diverse branche, dalla magistratura alle forze dell’ordine, che hanno sempre visto il conflitto sociale come un problema di ordine pubblico o, nelle sue fasi più acute, come un problema di sicurezza nazionale. Quindi come un elemento illegittimo, una minaccia di disgregazione. La grande trasformazione che avviene all’inizio degli anni Novanta è che questa interpretazione è diventata patrimonio comune anche delle sinistre post-comuniste, che hanno legittimato questa lettura anche da un punto di vista normativo. Il “decreto sicurezza” del governo Meloni non nasce dal nulla, ma si inserisce in una continuità che arriva proprio da questo elemento: l’automatica identificazione del conflitto come qualcosa di negativo, che si traduce in reati che possono anche essere a “consumazione anticipata”, cioè considerati tali senza che si siano verificati.
Ad esempio?
Questo è molto evidente nelle cosiddette “norme anti-Gandhi” dell’attuale decreto sicurezza che criminalizzano automaticamente il blocco stradale. Per non parlare della conflittualità di piazza, che viene punita in maniera estremamente rilevante, cancellando completamente l’azione della controparte, come se le forze dell’ordine si limitassero a reagire. C’è poi la criminalizzazione delle parole e delle teorie: chi non fa della violenza un tabù, anche a livello storico, viene spesso considerato colpevole di legittimare atteggiamenti violenti. Questo elemento, però, non è una novità del decreto sicurezza e infatti ci sono stati precedenti come l’inchiesta “Scripta Scelera”, che un paio di anni fa ha portato a processo quattro anarchici accusati di associazione con finalità di terrorismo solo per gli articoli che avevano scritto su una rivista (in primo grado sono stati tutti assolti).
In che modo lo studio della legislazione antiterrorismo degli anni Settanta ci aiuta a capire la fase attuale?
Ogni domanda di ricerca dovrebbe essere collegata all’attualità: la storia è un’indagine del passato, che però serve a illuminare il presente. Le domande che mi sono posto per il mio libro sono essenzialmente due. La prima è legata alla dimensione del conflitto sociale in Italia, ovvero: come mai l’Italia è passata dall’essere un paese che, dal periodo unitario in avanti, ha registrato lunghi cicli di scontro sociale, anche con un’alta propensione al conflitto e un grande coinvolgimento numerico da parte delle classi subalterne, all’essere invece un paese che nel presente ha sì delle sacche di conflittualità, che però non sono in grado di saldarsi, né di inquadrarsi in una cornice politica che possa permetterne il perdurare nel tempo? L’altra domanda è invece legata alla controparte, allo Stato. Come mai l’Italia registra un’ipertrofia dal punto di vista del controllo, rappresentata soprattutto dal codice penale? Un’ipertrofia di reati, e allo stesso tempo anche una molteplicità di corpi di sicurezza, tra forze dell’ordine, apparati di intelligence e corpi speciali, che non ha sostanzialmente uguali negli altri paesi dell’Europa occidentale. Credo che la risposta a entrambe le domande derivi dal modo in cui si è chiuso l’ultimo grande ciclo di conflitto sociale prolungato che abbiamo avuto in Italia, e che, a seconda della periodizzazione, possiamo collocare tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta.
Il ciclo conflittuale è finito, ma le norme repressive sono rimaste e colpiscono oggi soggetti diversi come le organizzazioni ambientaliste o il movimento NoTav. Come si è evoluta la repressione in questo passaggio?
Il caso del movimento NoTav è emblematico, perché contro alcuni attivisti la procura di Torino ha cercato di contestare effettivamente una condotta con “finalità di terrorismo” – accusa poi caduta nei tre gradi di giudizio. Anche nei confronti di Extinction Rebellion, di recente, ci sono state diverse sentenze della magistratura che hanno riconosciuto la liceità della loro protesta pacifica. Quello che vediamo da parte dello Stato è comunque un atteggiamento preventivo predominante, che nei tardi anni Settanta si traduceva in un’azione costruita anche dal punto di vista del diritto e della norma, oltre che degli stessi organismi, se pensiamo che l’intelligence del Viminale, che deriva dall’OVRA fascista, è poi diventata l’Ufficio Affari Riservati, poi Ispettorato Generale Antiterrorismo, poi UCIGOS, che era quello che comprendeva tutta la DIGOS, e oggi si chiama proprio Polizia di Prevenzione.
A proposito di Polizia di Prevenzione: un’altra notizia che ha fatto scalpore di recente è quella del poliziotto infiltrato per diversi mesi dentro Potere al Popolo a Napoli. Nel libro parli ampiamente degli infiltrati che fornivano informazioni alle varie forze di polizia sui gruppi dell’estrema sinistra, spesso dando origine anche a piste fantasiose, come la famosa teoria secondo cui a dirigere le BR ci fosse Dario Fo. Il modus operandi è rimasto lo stesso?
Premesso che sugli anni Settanta abbiamo un’idea ancora minima del livello di infiltrazione, perché manca l’accesso a molti archivi dei corpi di polizia, e che allo stesso modo non sappiamo esattamente come sia la situazione oggi, faccio una riflessione generale: l’infiltrato mi sembra uno strumento obsoleto, con le possibilità tecnologiche di oggi. Intercettare e controllare a distanza è molto più facile, soprattutto per gruppi che agiscono alla luce del sole. In altri paesi, come Spagna e Regno Unito, sono emersi negli anni scorsi casi abbastanza gravi di infiltrazione di polizia in formazioni o collettivi di sinistra. In Italia non era ancora emerso niente del genere, e quindi si tratta di un precedente significativo. È in effetti un modo di agire che deriva direttamente dalla cultura investigativa degli anni Settanta e dalla stagione dell’emergenza antiterrorismo: posso anche intercettare un telefono o le comunicazioni via email, o una riunione a distanza con un’intercettazione ambientale, ma se per me è fondamentale conoscere anche le intenzioni e studiare il comportamento di chi si muove in determinati ambienti, l’infiltrato resta centrale.
Di libri sugli anni Settanta continuano a uscirne moltissimi. Il fatto che questa storia sia ancora così “viva”, secondo te, ci aiuta nella comprensione di quegli anni, o al contrario ce ne allontana?
È un periodo su cui secondo me si può fare perfettamente analisi e ricerca: si può storicizzare. La “fine della storia” sembra che abbia comportato, in alcuni casi, anche la fine della storiografia possibile, perché alcuni contesti vengono analizzati unicamente nell’ottica del tabù, del paradigma vittimario, in un’ottica generale di condanna del Novecento. Ma su quegli anni si può e si deve fare ricerca storica. Sul periodo dello stragismo neofascista esiste ormai un canone storiografico consolidato, libero da complottismi e dagli stereotipi sugli opposti estremismi. Sulla lotta armata e sulla sinistra rivoluzionaria, invece, c’è forse paradossalmente un eccesso di memoria, ma una carenza di storiografia. Questo succede sia dal lato dei “vincitori” – cioè lo Stato, che usa molto soprattutto la memoria delle vittime per raccontare quel decennio come un decennio “di piombo” – sia da parte dei “vinti”, nella memorialistica di ex militanti dei gruppi armati o dei movimenti del Sessantotto e del Settantasette. La memoria è la materia grezza dello storico, è una delle basi e delle possibili fonti della storia, ma non è storiografia.
Hai parlato di vincitori e vinti. Uno degli argomenti più utilizzati per giustificare la legislazione speciale antiterrorismo, e anche il ricorso alla tortura negli interrogatori, è che avrebbe “funzionato”: cioè lo Stato ha vinto, e i terroristi hanno perso. Sei d’accordo con questa interpretazione?
La lotta armata – che distinguerei dai movimenti che, per quanto insurrezionalisti, agivano alla luce del sole – si esaurisce in Italia perché si esaurisce il ciclo conflittuale in cui era nata, sia come conflitto operaio delle classi subalterne, sia come conflitto studentesco – che comunque nei ceti subalterni aveva le proprie radici. Quel ciclo a un certo punto si esaurisce, non soltanto perché vince “l’avversario”, ma anche perché ci sono stati tanti errori politici, alcuni dei quali inevitabili. Alla fine di quel ciclo conflittuale non è stato possibile costruire un ponte per l’ondata successiva che sarebbe potuta emergere, e questo ponte sono le strutture politiche di base, che crollano ovunque, certamente anche per via della repressione. La lotta armata insomma subisce il riflusso generale, ma anche le deroghe allo stato di diritto, e la tortura sistematica, hanno giocato un ruolo importante; le strategie repressive sono riuscite insomma ad allargare una crisi interna ai gruppi lottarmatisti. Pensiamo al pentitismo, che apre una vera e propria voragine, una crisi anche etica e morale oltre che politica soprattutto tra i detenuti politici brigatisti, specialmente dopo la campagna contro i pentiti promossa in particolare dalle BR Partito Guerriglia di Giovanni Senzani. Di certo il caso della lotta armata di sinistra rappresenta forse l’unico caso di formazioni guerrigliere nell’Europa occidentale che si ritirano spontaneamente dalla lotta. Questa scelta si spiega appunto con la crisi interna, che sicuramente le forme più dure della repressione riescono ad allargare e amplificare.
Le leggi repressive degli anni Settanta miravano a colpire soprattutto la conflittualità sociale espressa dai ceti subalterni; i decreti sicurezza di oggi colpiscono maggiormente le minoranze e hanno spesso una connotazione razzista. Come e quando è avvenuto questo passaggio secondo te?
Più che di cambiamento, parlerei di “accumulazione” di emergenze basate sulla definizione di nuove figure considerate “pericolose” – tra cui appunto l’immigrato. Il passaggio avviene nel 1992, quando venne approvata con i voti di tutto l’arco parlamentare la legge n.91 sulla cittadinanza, uno degli ultimi provvedimenti della Prima Repubblica. Questa nasceva proprio da una nuova “emergenza”, più dichiarata che reale, data dall’aumento dei flussi di profughi e transito in Italia non solo dal Nord Africa, ma in particolare dall’Est Europa e dai Balcani in disgregazione. A essa seguirono una serie di provvedimenti (la “Turco-Napolitano” nel 1998, la “Bossi-Fini” nel 2002, il “pacchetto Maroni” nel 2008-09, la “Minniti-Orlando” del 2017, fino ai decreti di questi ultimi anni) che, oltre a disciplinare la forza-lavoro di origine straniera, inventarono la figura del “clandestino” e definirono in modo bipartisan l’immigrazione come un problema di “sicurezza nazionale”. Ciò che appare evidente è, come per gli altri regimi emergenziali successivi alla stagione “antiterrorista”, l’applicazione di condizioni d’eccezione e la strutturazione di un “codice penale del nemico” da applicare a determinate categorie di persone; la sola differenza, allora, sta nel fatto che nel caso degli immigrati e delle seconde/terze generazioni, questa diventa condizione di discriminazione de iure e de facto, per quanto riguarda la profilazione razziale da parte di polizie e intelligence.
Pensi sia fondata la preoccupazione di chi vede nel decreto sicurezza un primo passo verso un regime illiberale, sul modello ungherese?
A dirla tutta, non credo che ci sia bisogno di guardare all’Ungheria di Orban per descrivere derive autoritarie. L’Italia, dal punto di vista della gestione delle emergenze di sicurezza nazionale, negli anni ‘70 era considerato un modello (assieme a Israele e alla Germania Federale) all’interno del cosiddetto “gruppo TREVI”, che nel 1975 costituì il primo coordinamento europeo di polizia in materia di estremismo, terrorismo e violenza politica. E nello stesso anno venne approvata dal governo Moro la cosiddetta “legge Reale”, la prima legge d’emergenza italiana in materia di ordine pubblico con la quale si prevedevano regimi detentivi speciali, nuovi reati e aggravanti e un aumento delle prerogative e dei poteri di polizia. Per parlare della legge e dei suoi effetti (che non consistettero nella riduzione della conflittualità di piazza o dei reati, ma nel sovraffollamento carcerario e nell’aumento delle morti violente per mano delle forze dell’ordine), lo storico Eros Francescangeli ha parlato di “liberalismo reale”, facendo il verso al “socialismo reale” del blocco sovietico e al cognome dell’allora ministro Oronzo Reale. Non credo che il decreto sicurezza sia “il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana”, come lo ha definito l’associazione Antigone, perché questo è iniziato già con le leggi speciali degli anni ‘70 e ‘80. Casomai, ne rappresenta un ulteriore e gravissimo peggioramento liberticida e ne ha accentuato la vocazione di repressione preventiva a tutto campo. Definirei il decreto figlio della liberaldemocrazia – italiana in particolare, ma non solo – e delle tendenze autoritarie del diritto penale che le sono proprie, di cui non ci siamo mai liberati, entrando a far parte dell’ordinarietà normativa dopo essere emerse grazie a decreti e stati di emergenza.