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Dopo gli attacchi del 7 ottobre e la reazione israeliana, la storia del conflitto israelo-palestinese e forse dell’intera regione sembra essere arrivata ad un punto di svolta. Ne abbiamo parlato con Ramzy Baroud, giornalista e scrittore palestinese, nato a Gaza.

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Negli ultimi anni è sembrato che la questione palestinese fosse diventata una specie di rumore di fondo, che accompagnava la progressiva marginalizzazione dei palestinesi mentre Israele normalizzava i rapporti con gli stati arabi della regione. Gli attacchi del 7 ottobre sono stati una reazione a tutto questo – un ultimo tentativo di resistenza prima che fosse troppo tardi?

Esattamente: un rumore di fondo sempre meno importante all’orecchio di un Medio Oriente disinteressato se non addirittura disposto a normalizzare l’occupazione israeliana. Non è sempre stato così. Sono state le sorprendenti vittorie conseguite da Israele contro gli eserciti arabi a stravolgere l’auto-percezione israeliana, al punto che il Israele ha smesso di percepirsi come potenza regionale e ha iniziato a pesare da potenza globale. È lo stesso stato ebraico ad essersi definito “invincibile” – una terminologia che non si spiega come semplice tattica per demoralizzare i palestinesi, Israele ci crede davvero. La “miracolosa vittoria israeliana” del 1967 è stata lo spartiacque: l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Abba Eban, ha potuto proclamare all’assemblea generale dei Ministri degli Esteri “il glorioso trionfo dell’IDF e la redenzione di Gerusalemme”.

Da allora, per quanto riguarda parole e azioni, è stata tutta una parabola discendente: i palestinesi hanno perso tutto il loro territorio, e anche le terre private sono state confiscate per gli insediamenti israeliani illegali, nel contesto di una generale marginalizzazione della causa palestinese. La stessa dizione “conflitto arabo-israeliano” è caduta in disuso, sostituita prima da “conflitto israelo-palestinese” e oggi da “conflitto Israele-Hamas” o “conflitto Israele-Jihad Islamico”. Si è imposta questa forma di riduzionismo e il discorso pubblico è stato stravolto, complicando la comprensione di quanto sta accadendo a Gaza e in generale nella Palestina.

A prescindere dalla strategia adottata da Hamas o dagli altri movimenti palestinesi, gli attacchi del 7 ottobre condotti ben dentro i confini israeliani sono stati possibili semplicemente perché i palestinesi sono stufi. Diciassette anni fa Israele ha chiuso ermeticamente la Striscia di Gaza. Quello che si tende a dimenticare, però, è che 17 anni sono abbastanza perché un’intera generazione cresca sotto assedio e si dia alla lotta armata per porvi fine.

 

Per quanto sia ancora presto per parlarne con sicurezza, sembra che l’offensiva abbia determinato un profondo cambiamento nel conflitto israelo-palestinese. Per la prima volta Hamas conquista territorio israeliano e il numero delle vittime è più proporzionato che mai. 972 Magazine ha scritto che è stata rotta una “barriera psicologica”. Come si riflette tutto questo nelle società coinvolte?

L’impatto psicologico di questa guerra supererà certamente quello dell’ottobre 1973, quando gli eserciti arabi conseguirono varie rapide vittorie contro Israele sempre sfruttando il fattore sorpresa. Questa volta, però, lo shock potrebbe risultare un fattore tale da ribaltare il tavolo, dal momento che la “guerra” in corso è combattuta contro un singolo gruppo armato palestinese, non contro uno o più eserciti stranieri come in passato. Eppure c’è un legame diretto fra l’attacco a sorpresa dell’ottobre 2023 con la guerra arabo-israeliana del 1973. Scegliendo di agire nel cinquantesimo anniversario di quello che gli arabi percepiscono come un grande trionfo contro Israele, la resistenza palestinese ha voluto mandare un messaggio molto chiaro: la causa della Palestina resta quella di tutti gli arabi.

In effetti, tutte le dichiarazioni rilasciate dai comandanti militari e dai leader politici di Hamas erano profondamente permeate di simbolismo e di continui riferimenti al resto del mondo arabo. Il discorso panarabo non nasce quindi per caso, ma si è delineato nelle varie dichiarazioni rilasciate da Mohammed Deif e Saleh al-Arouri, rispettivamente comandante e fondatore delle brigate al-Qassam,oltre che dal capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e da Abu Obeida, il celebre portavoce mascherato della sua ala militare. Ognuno di loro ha invocato l’unità del mondo arabo ed ha insistito sul fatto che la causa palestinese non fosse che una parte di una più vasta lotta per la giustizia, la dignità e l’onore degli arabi. Il gruppo ha chiamato la propria campagna “Alluvione su Al-Aqsa”, ribadendo già dal nome la necessaria unità di palestinesi, arabi e musulmani intorno alla difesa di Gerusalemme e dei suoi luoghi sacri.

Tutti sono rimasti scioccati, anche lo stesso Israele, non tanto per l’attacco di Hamas in sé quanto per la grande coordinazione e l’audacia rivelate da questa operazione senza precedenti. Invece che di notte, l’attacco è avvenuto all’alba; invece che colpire Israele attraverso gli svariati tunnel scavati sotto Gaza, hanno attraversato il confine via terra, via aerea e via mare. L’elemento sorpresa è stato ulteriormente rafforzato quando i combattenti palestinesi hanno sfidato gli stessi principi fondamentali della guerriglia, scegliendo di combattere non una guerra di manovra rapida ma una breve “guerra di posizione” di modo da controllare per varie ore i territori conquistati dentro Israele. 

Per i gruppi armati di Gaza la guerra psicologica è importante tanto quanto il combattimento fisico: per questo hanno fatto circolare sui social centinaia di foto e di video nel tentativo di ribaltare il tradizionale rapporto vittima-carnefice fra i palestinesi e Israele. Non importa quanti palestinesi siano stati uccisi da Israele o quanti altri ne moriranno: di solito non muoiono così tanti israeliani. Nessuna rappresaglia, per quanto brutale, potrà mai salvare la faccia di un esercito rivelatosi indisciplinato, di una società tanto divisa o di una leadership politica concentrata solo sulla propria sopravvivenza. È troppo presto per giungere a conclusioni definitive ma quello che è chiaro già da adesso è che, dopo il 7 ottobre, la relazione tra occupanti israeliani e Palestina occupata è destinata a mutare profondamente anche in modo permanente.

 

La lotta per la Palestina è stata storicamente capace di mobilitare l’intero mondo arabo. Eppure negli ultimi anni questa forza sembra essere scemata, complici le normalizzazioni diplomatiche fra Israele e vari Stati arabi. Il supporto arabo per i palestinesi è ancora forte?

Nel 2022 l’Arab Opinion Index mostrava la profonda diversità delle società arabe in ogni senso possibile, dalle considerazioni circa la situazione economica e le condizioni di vita alle prese di posizione su temi come l’immigrazione, le istituzioni e la democrazia. Con una sola eccezione su cui tutti erano d’accordo: la Palestina.

Per comprendere questo fatto occorre tenere a mente tre elementi: primo, gli arabi non stavano solo esprimendo una generale solidarietà con i palestinesi, ma stavano affermando che percepiscono la loro lotta contro l’occupazione israeliana come una battaglia dell’intero mondo arabo. Secondo, quest’idea è condivisa dagli appartenenti a tutte le classi sociali lungo l’intera estensione del mondo arabo, dal Golfo al Maghreb. Terzo, fatto importante, le opinioni analizzate nella ricerca vengono sia dai paesi i cui governi hanno normalizzato i rapporti con Israele sia da quelli che hanno rifiutato questa opzione.

La pressione per l’abbandono della causa palestinese come tema unitario del mondo arabo non arriva solo dall’esterno, ma deriva anche da dinamiche interne alla regione. Per esempio i canali di informazione panarabi, negli anni passati molto attenti alla Palestina, hanno inesorabilmente e volontariamente cominciato ad ignorarla a vantaggio di altri temi considerati più rilevanti su scala regionale dai singoli paesi.

Eppure, malgrado tutto questo, la Palestina resta al centro delle lotte e delle aspirazioni degli arabi. Come è possibile? Diversamente dagli occidentali, gli arabi non formano la propria visione del mondo sul discorso mediatico, né alterano i propri comportamenti sulla base di discorsi presidenziali o di dibattiti politici. Al contrario, le loro esperienze collettive li hanno resi particolarmente cinici e diffidenti nei confronti della propaganda e dei discorsi.  Formano le proprie opinioni a partire da diverse fonti “dal basso”, compresi i social e il sermone del venerdì nella propria moschea. La lotta per la Palestina è stata internalizzata negli atti quotidiani di qualunque donna e uomo arabi; dai nomi che scelgono per i propri figli alle preghiere che recitano prima di dormire, e non esiste una propaganda tanto potente da cambiare questo.


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