Blog

Iscriviti a Tempolinea




Seleziona la casella qui sotto per autorizzarci a inviarti le mail (niente spam)

Puoi annullare l’iscrizione in qualsiasi momento cliccando sul link che troverai in fondo a tutte le nostre mail. Per informazioni sulla privacy, visita il sito.

Usiamo Mailchimp come piattaforma per inviare le mail della newsletter. Premendo “iscriviti”, accetti che le tue informazioni saranno inviate a Mailchimp. Scopri di più sulla tua privacy su Mailchimp.

“I comunisti sono quelli più ricchi e laureati, invece i fascisti sono quelli più poveri e ignoranti. Quelli di destra sono quelli più normali, più gente che lavora. Invece i comunisti sono tutti tipo direttori, dottori, registi, tutta gente che non ha bisogno di lavorare”, dice uno studente di terza media durante un dibattito in classe nel film di Paolo Virzì Caterina va in città, rivolgendosi ai compagni zecche, kefiah al collo, magliette di Che Guevara. Era il 2003, eppure vent’anni dopo la scena è ancora piuttosto attuale. La retorica della sinistra ZTL, lontana dal paese reale, arroccata nella sua torre d’avorio non è passata di moda – né la sinistra istituzionale ha fatto qualcosa per dimostrare il contrario – così come l’immagine dell’attivista è rimasta attaccata a un’idea di anticonformismo non solo ideologico ma anche estetico, linguistico. 

C’è qualcosa di incredibile nella storia della sinistra italiana e nel modo in cui è precipitata in una fase storica di autoflagellazione da cui non riesce a uscire se non per brevi istanti che servono solo a ripiombarci ancora più violentemente. Dal crollo della prima repubblica, le due culture politiche italiane che per cinquant’anni avevano dominato il Paese, quella comunista e quella cattolica, hanno lasciato il posto alla diffidenza per le istituzioni, all’individualismo, ai partiti azienda, e, ovviamente, a Silvio Berlusconi. “La fiducia popolare in Berlusconi non era politica nel senso tradizionale. Non era una realtà basata sull’appartenenza ideologica o sulla pratica di determinati valori politici” spiegano gli autori di La fine della fine della storia, “Si trattava piuttosto di un’anti-politica del quotidiano”. L’anti-politica, il personalismo, lo spettacolo, l’egemonia culturale veicolata dalla televisione commerciale, i vecchi comunisti pentiti che si facevano strada nelle fila di Forza Italia, i comizi-cabaret in cui si urlava al pubblico adorante che loro, i contestatori cattivi, tristi, incapaci di godersi la vita, vecchi, novecenteschi, erano e sono ancora oggi dei poveri comunisti.

Dai poveri comunisti ai comunisti col Rolex di J-Ax e Fedez, dai maglioncini di cachemire di Fausto Bertinotti alle barche di Massimo D’Alema, fino all’identikit pubblicato in marzo da Libero de “l’insopportabile maschio di sinistra”, tutto Zerocalcare e Birkenstock, nei trent’anni successivi alla fine del Pci la sinistra istituzionale ha solo accentuato la sua distanza dalle classi subalterne, inseguendo il centro liberal-progressista. Dall’altro lato, per reazione, la sinistra radicale si è ritirata in una dimensione distaccata e circoscritta di militanza ombelicale. Qualsiasi discorso ambisca a rappresentare le istanze di quelle classi, dalla difesa del welfare alla tutela delle istituzioni pubbliche come la sanità e l’istruzione o la redistribuzione della ricchezza, è stato bollato come estremista, infantile, ideologico; allo stesso tempo lo spettacolo misero offerto dalla formazione di sottogruppi sempre più piccoli e in lotta tra loro per questioni particolariste sembrava offrirne la conferma.

Di chi è la colpa? Dei dirigenti con cui “non vinceremo mai” di cui parlava Nanni Moretti vent’anni fa nel famoso comizio contro Rutelli e Fassino in Piazza Navona? Sicuramente – ma non solo loro. Come scrive Jason Myles su Sublation Magazine, la domanda da porsi è: la sinistra contemporanea è diventata un brand di lifestyle?. Il discorso di Myles è riferito al contesto statunitense: parla dell’ascesa di Donald Trump, della delusione per le aspettative deluse dal governo Obama, di Bernie Sanders, Alexandra Ocasio-Cortez e del loro contributo al ritorno della parola “socialismo” in un discorso politico che l’aveva messa al bando da decenni. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, grazie ad alcune battaglie come quella per un sistema sanitario nazionale accessibile a tutti, o per l’accesso all’istruzione. Lo hanno fatto da outsider, quasi da nemici interni della grande coalizione del Partito Democratico statunitense, fino a diventarne parte, istituzionalizzandosi. O imborghesendosi, come potremmo dire se volessimo usare un’espressione tipica della sinistra italiana che misura le diverse gradazioni di appartenenza a una sfera politica.

La domanda allora è: si può costruire una sinistra degna di essere definita tale, in grado di uscire dallo status di emarginazione in cui si trova da decenni, senza tradursi in una forma di liberalismo progressista che ha poco a che vedere con istanze di classe e fa solo battaglie civili? “Senza una base nella classe lavoratrice, le preoccupazioni della nuova sinistra si sono semplicemente trasformate in liberalismo borghese e politiche identitarie”, scrive Myles e anche su questo punto, il confronto con l’Italia – un Paese molto meno anti-comunista degli Stati Uniti – suona familiare. In poche parole, c’è da chiedersi se per liberarci una volta per tutte di quell’orrido abito elitario ed escludente che per decenni ha vestito una sinistra di posa, sia da come viene vista sia da come si pone internamente attraverso una serie di patenti di appartenenza e purezza, non sia necessario accettare che le figure di rottura passino proprio all’interno di quei “palazzi”, che in altre parole si istituzionalizzino.

“Non possiamo cadere nella ‘cultura del no’,” scrive ancora Myles. È una tentazione forte, specie specie per la generazione della “fine della storia”, reduce da decenni di sfiducia e disillusione. Ma ciò vorrebbe dire ridurre la sinistra a una sottocultura che predica la purezza individuale, qualcosa di più vicino a una setta religiosa che a un partito politico. Una sinistra che, dalla svolta della Bolognina in poi, ha viaggiato su due binari paralleli e inconciliabili: quello della distanza elitaria, ZTL e barche a vela, quella dei centri sociali e dell’attivismo contemporaneo, compatti e spesso artefici di un processo di gatekeeping. Pensiamo al caso di Ambra Angiolini sul palco del Primo maggio: nel 1994 faceva propaganda per il centrodestra (“Il Padre Eterno tiene per Berlusconi, Satana per Occhetto”, diceva a Non è la Rai) oggi presenta il Concertone e diventa oggetto di polemiche interne alla sinistra per aver svalutato il valore del linguaggio inclusivo nel difendere i diritti delle lavoratrici su un palco sponsorizzato da Just Eat. Non è strano sentirsi confusi a questo punto.

C’è poi un altro aspetto di cui tenere conto se si vuole portare avanti un’idea di sinistra che prescinda dai leader politici e dalla contingenza storica in cui ci si trova, che sia soprattutto un modo di interpretare il mondo. Scriveva Rossana Rossanda nel 1974:

“Io non sono di quelli (e qualche compagno me lo rimprovera) che sente l’incoercibile bisogno di una visione marxista della formazione delle galassie, del funzionamento del pancreas, di tutta la mia vita e di tutta la mia morte. Ma che Marx insegni qualcosa sui meccanismi della società, mi dia una chiave della storia meno ‘schematica’ e ‘formulistica’ che non ‘i poveri sempre poveri saranno, i potenti sempre potenti’, di questo sono sommessamente certa. Né sento il bisogno di misurare tutto e tutti sul termometro della rivoluzione; ma che l’ideologia del ‘niente cambia e non ci resta che il pianto’ non sia propriamente moderna e progressista, anche di questo sono sommessamente certa”.

La strategia del ritiro, della distanza e dell’esclusione non ha funzionato, ma ciò non vuol dire che niente funzioni. Questo non significa accettare a prescindere qualsiasi cosa si distacchi dalla tradizione recente e prometta una ventata di novità, ma che per fare sì che qualcosa cambi bisogna interrogarsi anche sul come questo possa avvenire attraverso qualsiasi mezzo, perché la coazione a ripetere è una patologia anche in politica.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *