Dopo le ultime elezioni presidenziali, che sia Maduro sia l’opposizione hanno dichiarato di aver vinto, il Venezuela è stato attraversato da proteste di massa, repressione violenta, abbattimenti di statue di Hugo Chávez. Se le proteste dell’opposizione non sono una novità, per la prima volta sembrano mettere in questione la rivoluzione bolivariana nella sua interezza. Geo Maher, politologo americano esperto di Venezuela, sulla crisi e i limiti del chavismo.
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La rivoluzione bolivariana è stata uno dei più importanti esperimenti politici di indirizzo socialista dell’epoca contemporanea. In cosa è consistita e come si è trasformata con la transizione al potere da Chávez a Maduro?
La Rivoluzione Bolivariana è stata spesso scambiata per il prodotto dell’ambizione personale di un leader populista o per una forma di riformismo socialdemocratico alimentato dal petrolio. In realtà, queste due letture non permettono di comprendere davvero un processo politico emerso già prima di Chávez, proseguito dopo di lui e destinato a continuare anche senza Maduro. L’essenza di questo processo è infatti la democrazia rivoluzionaria dal basso, espressa nella rete di comuni autogestite che esistono in tutto il Venezuela e che hanno goduto del sostegno sia di Chávez che di Maduro. Naturalmente il rapporto tra queste comuni e il governo non è sempre stato facile, esistendo una contraddizione intrinseca tra le organizzazioni rivoluzionarie popolari e lo Stato – specie in casi come quello dell’ingombrante e corrotto petrostato venezuelano. Seppure questa tensione sia stata una caratteristica permanente del processo bolivariano, sotto Chávez si è instaurata una specie di relazione simbiotica tra la leadership e le masse, radicalizzando così il processo verso il socialismo comunitario.
La situazione si è complicata con l’arrivo al potere di Maduro, per quanto non per ragioni imputabili soltanto a lui. La morte di Chávez ha infatti coinciso con una crisi economica causata dal crollo dei prezzi del petrolio a livello globale, con una crisi politica provocata dall’opposizione e dai suoi sponsor, oltre che con l’inevitabile difficoltà di sostituire una figura importante come Chávez. Una serie di elementi che, in breve, hanno costretto Maduro a dover fronteggiare allo stesso tempo l’imperialismo, l’opposizione interna, la crisi economica e l’ala destra del chavismo. L’inasprimento delle sanzioni statunitensi fino al blocco totale ha trasformato la crisi economica in una vera e propria catastrofe. Nel tentativo di nutrire la popolazione il governo ha sviluppato reti di distribuzione socialiste, ma è stato anche costretto a collaborare col capitale privato, con compagnie petrolifere straniere e con i settori più conservatori dell’esercito, il tutto a scapito della base chavista. Questo è il contesto di queste recenti elezioni.
Ogni volta che scoppiano delle proteste in Venezuela la prima reazione della sinistra è parlare di colpo di stato – e ci sono molti precedenti in questo senso, come il tentativo di Juan Guaidò nel 2019. Qual è la differenza questa volta? L’impressione è che oggi le proteste siano più autentiche e meno eterodirette, che siano molto più di massa, che non siano solo di destra (anche il Partito comunista venezuelano si è schierato con l’opposizione), e che coinvolgano anche ex roccaforti chaviste.
Tutto questo è vero, ma è importante ricordare che non si tratta di elementi totalmente nuovi – la minaccia di fomentare il dissenso all’interno dell’esercito per provocare un colpo di Stato è una strategia di lunga data dell’opposizione venezuelana e dei suoi collaboratori nel governo statunitense. Vale la pena sottolineare che ciò a cui stiamo assistendo in questo momento rientra in questa tattica: rilasciare exit poll fasulli che fanno sembrare inevitabile la vittoria dell’opposizione – almeno agli osservatori stranieri – e poi gridare alla frode quando i chavisti vincono. In questo senso, quello che sta accadendo oggi è quindi una ripetizione di quanto visto ogni volta che i chavisti vincono le elezioni.
Dobbiamo essere chiari sul fatto che l’opposizione venezuelana è brava in una cosa sola: perdere. Oscilla tra il boicottaggio delle elezioni e la partecipazione in esse al solo fine di denunciare brogli. Dopotutto, l’opposizione patisce problemi strutturali: il chavismo, soprattutto quando Chávez era in vita, è sempre stato un progetto incredibilmente popolare tanto da diventare in termini gramsciani un nuovo senso comune. L’opposizione non ha mai avuto un programma alternativo da offrire e, anche oggi, tutto ciò che propone è un ritorno al brutale neoliberismo contro il quale è emerso il chavismo. Così l’opposizione ha sempre cercato di vincere per difetto, screditando il governo, destabilizzando l’economia e cavalcando il malcontento popolare fino alla vittoria.
Questa strategia ha sempre fatto breccia nei settori popolari, soprattutto negli ultimi dieci anni di crisi economica. Quelli che oggi protestano nelle strade non sono certo tutti reazionari fascisti: molti sono semplicemente poveri e stanchi, e si sono ritrovati a svolgere un ruolo cruciale nei giochi di poteri della destra. Ancora una volta, però, dobbiamo essere chiari: l’obiettivo dichiarato delle sanzioni statunitensi e delle campagne di destabilizzazione dell’opposizione è proprio questo. Gradualmente, con il peggiorare della situazione economica, un numero sempre maggiore di venezuelani poveri è disposto ad ascoltare le accuse dell’opposizione al governo – soprattutto perché il ricordo della catastrofe neoliberista degli anni Ottanta si è affievolito.
Ciò non significa che il governo sia esente da colpe: Maduro ha combattuto una battaglia molto difficile e la sua strategia non è stata impeccabile. La corruzione, la violenza e l’inefficienza sono diffuse e il ricorso al settore privato ha solo peggiorato le cose. Ma dobbiamo anche ricordare che quasi nessun governo al mondo sarebbe sopravvissuto alle condizioni economiche dell’ultimo decennio: la maggior parte sarebbe stata sconfitta alle urne o rovesciata immediatamente.
Nel corso degli anni, il Venezuela si è costruito l’immagine di una nazione avversaria dell’imperialismo occidentale e per questo punita con pesanti sanzioni economiche. Questa narrazione garantisce un’importante legittimità propagandistica al governo Maduro: quanto c’è di vero?
Non è soltanto una narrazione, è la realtà. Secondo l’economista Jeffrey Sachs, l’ondata di sanzioni attuata da Barack Obama e inasprita sotto Donald Trump ha provocato la mortee di 40mila venezuelani solo nel 2018; oggi il numero sarebbe ben superiore ai 100mila. In sostanza queste sanzioni tagliano il Venezuela completamente fuori dall’economia globale – bloccando l’accesso alla rete di transazioni finanziarie Swift – rendendo quasi impossibile vendere petrolio e acquistare beni essenziali dall’estero. È dunque difficile se non impossibile sopravvalutare l’impatto delle sanzioni o negare che esse facciano parte di una strategia esplicita di cambio di regime sostenuta dagli Stati Uniti. Queste sanzioni, peraltro, sono illegali secondo il diritto internazionale.
Sebbene le sanzioni statunitensi confermino certamente l’immagine di Maduro come nemico dell’imperialismo, questo non è il fattore più importante. Maduro infatti non desidera altro che la revoca delle sanzioni e la stabilizzazione dell’economia, per riconquistare il sostegno popolare attraverso lo sviluppo socialista. Questo è l’obiettivo del governo. Ma gli Stati Uniti stanno punendo il governo venezuelano per aver osato costruire qualcosa di diverso, e la popolazione venezuelana ne sta pagando il prezzo. Inoltre le sanzioni, se non hanno danneggiato eccessivamente la posizione di Maduro, hanno invece provocato a importanti deformazioni all’interno della struttura di potere del chavismo, rafforzando la posizione dei militari e del capitale privato.
Dopo la pandemia il governo Maduro ha subito un’evoluzione. Dopo il fallimento della strategia di massima pressione americana, è sembrato voler negoziare, cercando di ottenere un po’ di spazio di manovra economico (allentamento delle sanzioni, ripresa della produzione petrolifera) in cambio di politiche antipopolari. Significativamente, questa degenerazione è stata denunciata da alcuni suoi alleati, come il PCV. Questa interpretazione è corretta? Ed è per questo che le proteste di oggi sembrano più autentiche?
Sì e no. Maduro ha fatto il possibile per crearsi uno spazio di manovra ma, anche in questo caso, ha dovuto fare importanti concessioni, senza le quali gli Stati Uniti non ritireranno le sanzioni, i capitalisti privati non smetteranno di sabotare l’economia e i militari non garantiranno la loro completa lealtà. Questa è la realtà. E quindi qualsiasi critica alle politiche di Maduro deve essere consapevole di questi limiti.
D’altra parte, c’è come sempre la questione della possibilità di uscire da questa trappola a somma zero di concessioni all’imperialismo e al capitalismo. Che cosa significa? Per molti anni si è trattato di mettere più potere nelle mani dei settori popolari, nella produzione comunitaria, di trasformare l’economia verso la sovranità alimentare e la produzione interna e di armare il popolo come migliore difesa contro l’intervento imperialista. Non è mai stato facile, e Maduro ha fatto alcuni gesti importanti in questa direzione, come la nomina di Ángel Prado della comune di El Maizal al Ministero delle Comuni.
Ma occorre fare di più. È davvero l’unico modo per sfuggire alla crisi economica attuale e alla crisi politica che ha seminato. Il Venezuela ha trascorso più di un decennio in bilico tra socialismo e capitalismo – una posizione scomoda, perché il capitalismo globale punisce brutalmente qualsiasi deviazione dalle logiche di mercato. Ciò significa che la risposta è più socialismo, non meno: controllo diretto della produzione dal basso, posta completamente al di fuori delle forze del mercato. Solo allora i venezuelani saranno in grado di vedere che i problemi che affrontano oggi sono radicati nel capitalismo, non nel socialismo.
In questa ondata di proteste, stiamo assistendo a qualcosa di nuovo: la caduta di molte statue di Hugo Chávez. Ciò è significativo perché in passato, mentre Maduro è stato spesso criticato, Chávez è stato sempre tenuto in grande considerazione. La degenerazione burocratico-oligarchica del regime di Maduro ha rovinato una volta l’eredità del chavismo?
L’abbattimento delle statue di Chávez da parte dell’opposizione, come di quelle del cacique indigeno Coromoto, è stato rivelatore, ma le cose non sono così semplici. Per prima cosa, dimostra quanto siano reazionari e fascisti alcuni settori dell’opposizione, e fino a che punto sono disposti a spingersi per distruggere questo nuovo senso comune chavista, per far regredire la memoria di una figura così massicciamente popolare come Chávez. Dimostra anche quanto l’opposizione sia dedita a un virulento cristianesimo coloniale ed evangelico, in opposizione all’abbraccio chavista della decolonizzazione.
Ma il punto è che si tratta di azioni di frange radicali, non del mainstream della società venezuelana. Se da un lato queste azioni riflettono una profonda disaffezione e stanchezza per molti venezuelani poveri, dall’altro suggeriscono la possibilità che l’opposizione stia ancora una volta forzando troppo la sua mano. Nel 2002, durante il breve colpo di stato contro Chávez, l’arroganza e la presunzione dell’opposizione l’avevano portata a eliminare l’intera struttura di governo e persino la Costituzione, ma questo non era ciò che la gente voleva e ha portato a una ribellione di massa contro quello che è sempre stato un settore fascista dell’opposizione. La stessa cosa potrebbe accadere oggi. Molti venezuelani sono frustrati dalla situazione economica e, di conseguenza, dal governo – ma vogliono programmi sociali, vogliono che il petrolio rimanga nelle mani del popolo venezuelano; non vogliono il capitalismo neoliberale rabbioso promesso dall’opposizione.