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Nel 2016 il venture capitalist cinese Eric Li disse che “in America si può cambiare il partito al potere ma non le politiche del governo, in Cina non cambia il partito ma le politiche sì”. Nell’ultimo decennio, sia il partito che le politiche che la Cina sono diventati qualcosa di completamente diverso dal passato. Yoshimi – pseudonimo di un blogger straniero residente in Cina e fra i migliori interpreti della politica del paese – parla del senso e dei limiti Xi Jinping e della sua “Nuova Era”.

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Qual è il limite di una rivoluzione? Nell’ultimo decennio, in un periodo di stagnazione internazionale, e con un sistema politico descritto da tanti come “stagnante” e “sclerotizzato”, in Cina le cose hanno continuato a cambiare. Il termine “rivoluzione” nel suo senso più ampio può essere applicato a ciò che è accaduto nella Repubblica Popolare Cinese dopo Hu Jintao, le Olimpiadi di Pechino e l’ascesa di Xi. Si può essere non d’accordo sulla direzione di sviluppo, ma un movimento c’è stato. Parlano i fatti. C’è stata una campagna anti-corruzione, o forse una terribile epurazione mascherata; forse più facile andare dal medico senza dover sborsare un grosso hongbao, ma se sei un innovatore potresti essere messo a tacere per avere avuto un’idea di troppo. Non si possono più dire alcune cose, ma non è chiaro quali. L’aria è meno inquinata, la povertà assoluta di alcune aree è stata sconfitta, e ci sono molte più telecamere. Nessuno offre più da bere a un bianco solo perché sa dire ni hao

Qualcosa, da qualche parte, è cambiato. Siamo in quella che i funzionari hanno definito la “Nuova Era”, ma non è chiaro cosa ciò significhi, perché il cinese ufficiale è un misto di ottusità e ambiguità. Malgrado tutti i miei anni in Cina, la sola cosa di cui sono sicuro è che questa rivoluzione, che sembra non avere un punto focale se non la figura di Xi Jinping, ha raggiunto il suo limite. Questo non significa che sia fallita – anzi ha avuto un certo successo nell’attenuare il peso della corruzione e delle disuguaglianze che la Cina aveva ereditato dagli anni Duemila. Ma tutti i movimenti alla fine si fermano, i vasti e profondi cambiamenti degli anni Dieci si sono assestati, ed è rimasto poco spazio per altro. Ma perché?

Per rispondere dobbiamo guardare al titanico processo noto come “riforma e apertura”, che inizia con la decisione di Mao Zedong di riaffermare il controllo del Partito al culmine della Rivoluzione culturale e lasciare il potere politico a quei dirigenti, riuniti intorno a Deng Xiaoping, che vedevano il marxismo solo come uno strumento per il ringiovanimento nazionale della Cina. A tal fine, la “riforma e l’apertura” era inevitabile: bisognava creare lo spazio per la commercializzazione su larga scala della società, far sì che lo sviluppo ad ogni costo fosse il segreto per assicurare la nazione contro le minacce esterne e quindi di consolidare il socialismo. Loro e i loro protetti, i veri “riformatori” della generazione successiva – come Hu Yaobang, Xi Zhongxun e Zhao Zhiyang – erano assolutamente antidemocratici. Non erano fanatici del mercato, ma siccome le riforme capitalistiche gli sembravano il modo più semplice per realizzare il rafforzamento della Cina, avevano finito per diventarlo.

Questo è stato il senso dell’epoca delle riforme cinese, durata dalla salita al potere di Jiang Zemin nel 1992 fino all’affaire Bo Xilai del 2012. Se la “Nuova Era” è oggi definita come il predominio della decisione politica che distorce il mercato, l’era delle riforme era il predominio del mercato che distorceva la politica. Sono state le riforme a causare la corruzione che ha portato alla fine delle riforme nel 2012. Il luogo comune sul fatto che solo la riforma e apertura poteva salvare il Partito va oggi sostituito con la famosa frase di Deng: “Se apri una finestra per cambiare aria, devi aspettarti che entrino le mosche”. Negli anni Dieci la riforma aveva ormai fatto marcire sia la società che la politica cinesi e l’intera casa, non solo la finestra, andava abbattuta e ricostruita.

È qui che si intravede il limite del periodo post-2012. La “riforma e apertura” è stata in primo luogo un movimento economico che ha scatenato un cambiamento titanico nella sovrastruttura politica, sociale e culturale, ma senza avvenire in modo organico. In realtà, come detto, il suo punto di partenza è stato la volontà politica di Mao Zedong di salvare il Partito-Stato dal popolo, che ha portato alle scelte di Deng nel 1978 e agli sforzi di utilizzare l’enorme potere dello Stato per avviare la mercatizzazione dell’economia, prima attraverso gli esperimenti in agricoltura e poi nelle Zone Economiche Speciali. La “riforma e apertura” è stata una rivoluzione sia politica che economica, e questi cambiamenti si sono alimentati a vicenda: i primi esperimenti di successo sono stati presto imitati, è sorta una classe di capitalisti che a sua volta ha creato il consenso del pubblico per tutto il processo, che un decennio più tardi è stato codificato come “socialismo con caratteristiche cinesi”. Il popolo cinese non è mai stato consultato sull’opportunità di procedere alla mercatizzazione della società – perché nell’era della “riforma e apertura” non c’era più spazio per la politica, se non per le discussioni sul ritmo a cui le riforme dovevano procedere.

In altre parole, le riforme sono state un enorme evento politico-economico mascherato da evento esclusivamente economico. La “Nuova Era”, invece, è l’opposto: sembra un evento economico, ma se guardiamo più da vicino possiamo vedere che in realtà è quasi solo politico. Se i cambiamenti nel Partito, nel suo rapporto con lo Stato e con il capitale sono stati notevoli, le distorsioni che hanno prodotto nell’economia non sono state così vaste come ama sostenere il Wall Street Journal. Oggi sentiamo gli imprenditori cinesi che si lamentano dello Stato, lo Stato che li esorta alla responsabilità, che fa le multe a chi inquina, che stronca casi particolarmente gravi di corruzione, che crea cellule di Partito in ogni azienda e prova a costringere la classe capitalista a lavorare nell’interesse della nazione. Nulla di tutto ciò è negativo in sé. Ma che impatto ha, in definitiva? Il decennio post-2012 ha scosso il sistema cinese ma non ne ha toccato il nucleo, e i rapporti di produzione sono rimasti tali e quali a come li ha lasciati Hu Jintao. “La riforma e apertura non finirà mai”, ha detto Xi Jinping, descrivendo con le sue stesse parole il limite della sua “Nuova Era”. Se ne si vogliono superare i difetti, non si può continuare a non toccarne l’essenza. 

“Il premier cinese Zhu Rongji”, racconta Richard McGregor nel suo The Party: The Secret World of China’s Communist Rulers, “rimase scioccato quando George Bush sr. gli chiese come procedeva il programma di ‘privatizzazione’ della Cina. Zhu protestò per il fatto che la Cina stava ‘aziendalizzando’ i suoi asset statali, e che era solo un altro modo per ‘realizzare la proprietà statale’. Bush rispose con una strizzatina d’occhio”. Il processo di riforma della Cina è comunemente associato alle privatizzazioni degli anni Ottanta e Novanta, ma va sottolineato che non si può convertire un’economia dal socialismo al capitalismo solo con le privatizzazioni. Lo scopo di queste è spiegato dalla “teoria della gabbia per uccelli” dell’economista Chen Yun, secondo cui lo Stato socialista cinese doveva fungere da gabbia protettiva attorno al settore privato (l’uccello in questione). Ma pensiamo anche alle Zone Economiche Speciali, una via di mezzo tra il socialismo maoista e il lasciar entrare le mosche di cui parlava Deng, la cui premessa non è molto diversa dalla NEP di Lenin o persino dall’Unione Sovietica di Stalin che invitava gli specialisti stranieri a costruire l’industria sovietica negli anni Trenta. La “privatizzazione” da sola poteva arrivare solo fin qui.

Le riforme, però, non sono state incarnate da queste idee timide, ma dal lavoro di Zhu Rongji: “afferra il grande, lascia andare il piccolo”. Il Partito e lo Stato avrebbero mantenuto il controllo delle grandi aziende in quelli che erano considerati settori strategici – l’energia, l’acciaio, i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni e simili. Le imprese più piccole e in perdita dovevano a loro volta essere vendute o lasciate in gestione ai governi locali. McGregor chiama questo processo “aziendalizzazione”, ma il termine giusto è “mercatizzazione” – che comprende sia questo, sia la privatizzazione vera e propria, sia la liberalizzazione dei prezzi e dei controlli sulla valuta estera. Tutto ciò serviva per arrivare alla piena commercializzazione della società stessa, alla distruzione delle relazioni sociali collettiviste del periodo maoista e alla loro sostituzione con le relazioni di mercato individualiste dei “paesi normali”.

Questa distinzione è importante perché oggi le aziende di stato cinesi, sostenute dallo stato in violazione dei sacri principi del mercato, vengono spesso dipinte come dinosauri che impediscono la transizione verso relazioni di mercato piene oppure, al contrario, come una prova del fatto che la Cina sia ancora socialista. Entrambi questi punti di vista sono superficiali. I liberali hanno di fatto già vinto, e l’ampio grado di controllo dello stato cinese sulle aziende di stato non è di per sé indicativo di nulla. La chiave è la commercializzazione della società: i rapporti di produzione sono capitalistici o meno? A prescindere dai proprietari nominali, oggi quasi tutte le organizzazioni in Cina sono gestite secondo le logiche della concorrenza, del mercato e dello scambio privato. Le aziende private competono per il profitto; i funzionari statali, che trattano il loro lavoro come una sorta di servizio clienti, competono per ottenere avanzamenti di carriera. Le aziende statali sono sostenute da sussidi governativi e trattate come organi dello Stato, ma pur sempre organizzate come aziende, e ci si aspetta che cerchino di perseguire il profitto; lo Stato esercita il controllo attraverso il possesso di azioni delle imprese, semplicemente sostituendosi ai privati. L’epoca delle riforme ha distrutto un intero mondo di incentivi e forme alternative di organizzazione sociale ed economica. “Non c’è altro modo per mobilitare l’interesse delle masse per la produzione”, ha detto Deng nel 1980. Ed è questa idea circa l’impossibilità di realizzare il socialismo che ha portato alla Cina di oggi. Xi ne è prigioniero proprio come ne era prigioniero Deng. Il suo governo ha fatto tremare i cieli, arrabbiare gli dei, ma non è riuscito a sostituirli. La “riforma e apertura” è il suo limite. Potrebbe essere il limite del Partito Comunista stesso. 

La situazione della Cina moderna ha radici profonde, che risalgono al XIX secolo e alle risposte sviluppiste all’imperialismo europeo: il Tanzimat ottomano, l’era Meiji giapponese e, in Cina, i “tre principii del popolo” del Kuomintang prima e il marxismo-leninismo poi. Il marxismo-leninismo, o stalinismo, possedeva il duplice carattere di essere sia internazionalista e socialista che nazionale e sviluppista, interessato alla creazione di nuovi modi di produzione che potessero superare il capitalismo occidentale. È questo aspetto che spiega il ricorso al mercato da parte della Cina per sostenere il Partito-Stato, così come il cinismo da essa mostrato nei momenti di crisi. La storia tragica del marxismo-leninismo nel XX secolo si spiega dunque in ragione di questa ristretta visione del comunismo come uno strumento al servizio dello sviluppo nazionale – dapprima uno strumento molto efficace, ma presto abbandonato quando è sembrato una scelta peggiore rispetto al capitalismo gestito dallo Stato e integrato nel mercato globale a guida americana. Ciò è evidente sia nel crollo dell’URSS che nel processo di “riforma e apertura” cinese, dove le difficoltà dello sviluppo non-capitalistico hanno fatto scegliere la via del capitalismo non appena è stato possibile. Questo è il significato di Deng Xiaoping, un marxista-leninista molto più fedele dell’incoerente e problematico Mao Zedong. È anche il significato di Stalin e dello stalinismo, una continua tensione tra i poli dell’internazionalismo e della nazione risolta a favore del secondo. Non bisogna vedere tutto ciò come un tradimento. Stalin non ha tradito Lenin, ma era solo lo sviluppo delle contraddizioni già presenti in Lenin dall’inizio. E in Stalin stesso c’era un dualismo: il suo governo ha rappresentato l’apice del potere sovietico, ma ha posto anche le basi per la sua dissoluzione. È l’edificio che ha presieduto a questa tragica storia che possiamo definire “stalinista”: uno Stato manageriale dedicato allo sviluppo nazionale dall’alto verso il basso, nato come indipendente dal capitale e poi piegatosi alla pressione esterna dei mercati per non cedere a quella interna della classe operaia. In URSS questo processo si è interrotto con il crollo totale dello Stato multinazionale sovietico, che non è riuscito a tornare al nazionalismo. In Cina e in Vietnam è ancora in corso. In Corea del Nord e a Cuba sta iniziando a germogliare. 

Nel suo saggio Realismo capitalista, parlando del Regno Unito nel periodo Thatcher e seguente, Mark Fisher ha coniato l’espressione “stalinismo di mercato”. “Una dimensione essenziale dello stalinismo”, ha scritto Fisher, “era bloccata dalla sua associazione con un progetto come quello socialista, e poteva emergere solo in una cultura tardocapitalista in cui le immagini acquisiscono una forza autonoma”. Che cosa rappresenta dunque questo “vero” stalinismo? Cosa rimane una volta che togliamo l’elemento socialista e rivoluzionario e sposiamo Stalin al capitale? Solo l’urgenza di svilupparsi, di raggiungere, di progredire – ma slegato dalla produzione, lasciato solo con se stesso, lo stalinismo si concentra sulle immagini, sui target, sulle rappresentazioni di verità assenti. Lo stalinismo di mercato, allora, è la fase oltre la semplice configurazione di un’economia libera e uno stato forte – anzi ne è l’evoluzione, post-fordista e post-industriale, senza alcun vero dovere se non mantenere a approfondire il neoliberismo, eliminare senza sosta i rimasugli dello stato sviluppista precedente, paralizzato ma cercando costantemente di agire, annunciando iniziative e politiche e idee senza alcun collegamento con l’economia reale, che rimane sempre più “aperta”, “libera”, ovvero una matassa di corruzione, disuguaglianze e disfunzioni. 

Il vero significato della “Nuova Era” cinese è che per ora – a costo di ravvivare la politica – ha impedito che tutto ciò accadesse. I critici liberali della Cina hanno ragione quando affermano che le riforme non hanno fatto progressi significativi nell’ultimo decennio. Ma già si intravede la caratteristica centrale dello stalinismo di mercato: mentre l’azione politica è costante, l’economia reale, il nocciolo delle cose così come stabilito decenni fa rimane intoccabile, con una rete enorme di interessi che spingono perché rimanga tutto così a tutti i costi e lo stato impigliato così profondamente nella logica di mercato che anche solo arrivare fino a qui ha richiesto uno sforzo enorme. 

Lo strano cocktail ideologico del socialismo con caratteristiche cinesi, dalla Teoria di Deng Xiaoping alle Tre Rappresentanze di Jiang alla Società Socialista Armoniosa di Hu, è una litania di parole senza molto significato concreto. Il pensiero di Xi Jinping, l’ultima appendice del marxismo cinese, è forse meno vuoto. Ma resta che Xi non è un ideologo, è un burocrate di carriera ed oltretutto un burocrate dell’era delle riforme, un uomo che pensa in termini di KPI. Può darsi che sia più simile alla “teoria della gabbia per uccelli” di Chen Yun, al sogno socialdemocratico di un capitalismo regolato che al fondamentalismo di mercato, ma dobbiamo ricordare che anche per Chen Yun l’essere vivente, l’uccello, è il mercato, mentre lo stato è solo la gabbia che lo protegge. È perciò naturale che il limite del suo progetto sia il rovesciamento dell’ordine neoliberale. Come gli statisti occidentali dopo l’epoca della “fine della Storia”, anche per lui there is no alternative. La maggiore capacità d’azione dello Stato cinese, la mancanza di una valvola di sfogo elettorale per l’opposizione che gli impone di prendere sul serio le minacce, e il suo DNA ideologico che lo rende vulnerabile all’agitazione populista di sinistra hanno fatto sì che il Partito della Nuova Era abbia il margine di manovra politico per evitare il disastro assoluto. Ma rimane la stessa bestia in cui l’ha trasformato la “riforma e apertura” e i liberali e i fanatici del libero mercato aspettano ancora pazientemente la loro occasione. Il mercato regna ancora supremo. 


Una versione più estesa di questo articolo è apparsa originariamente su Video City il 19 dicembre 2023 con il titolo Market Stalinism – The Danger of Limited Revolution. Si ringrazia l’autore per i diritti di traduzione.

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