La settimana scorsa su Tempolinea è uscito un articolo di Valerio Renzi sull’interazione tra le organizzazioni progressiste occidentali e i gruppi di Islam politico. L’articolo ha suscitato una forte discussione su Instagram e Telegram, ricevendo molte critiche da parte di attivisti e osservatori della realtà palestinese, e ha aperto un dibattito anche all’interno della redazione. Dibattito a cui abbiamo deciso di dare corpo e voce, perché riconosciamo la legittimità delle critiche e crediamo che Tempolinea sia uno spazio plurale che, sin dall’inizio delle sue pubblicazioni, dà spazio a posizioni e opinioni anche molto diverse nel campo politico della “sinistra”, ampiamente definita. Oggi pubblichiamo quindi un articolo di risposta di Luca Gringeri – giornalista, militante politico e esperto di movimenti sociali globali – che parla delle possibili alleanze tra sinistra e realtà religiose nella lotta al colonialismo.
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Non è mio compito evidenziare i limiti dello scritto di Renzi riguardo ai movimenti che compongono l’Asse della Resistenza che si contrappone all’occupazione israeliana, come verso le mobilitazioni che si susseguono nelle città del resto del mondo, con tutte le loro sfumature. Mi interessa soffermarmi solo e unicamente sulla sua frase conclusiva: “Se con gli slogan si può chiamare all’intifada, nei fatti fatichiamo a costruire una lettura della guerra in corso e una pratica in grado di inceppare la macchina bellica o di far pressione su governi e istituzioni, limitandoci per lo più a essere ‘alleati’ di soggetti politici e militari con cui la sinistra non ha nulla a che fare”.
Ritengo che questa asserzione sia molto condivisa da ampi settori della sinistra e del mondo antagonista, che nella migliore delle ipotesi bolla i gruppi di Islam politico come intrinsecamente reazionari, ma nella peggiore li infantilizza dipingendoli come l’ultima barca cui si appigliano popoli oppressi che avrebbero un gran bisogno di una alfabetizzazione progressista. Naturalmente, anche in questo caso non possiamo ignorare l’enorme varietà di realtà esistenti, a sinistra e nell’Islam politico, ognuna con le proprie peculiarità ma tale visione resta antistorica, poco pragmatica e, in ultima istanza, intrinsecamente coloniale.
Per affrontare la questione, occorre in primo luogo smontare un luogo comune particolarmente diffuso, vale a dire che la più grande rivoluzione socialista del Novecento, la rivoluzione d’Ottobre, fosse persecutrice di ogni forma di movimento e sentimento religioso. Il bolscevismo, di contro, era un movimento marxista, quindi assolutamente materialista e ateo, ma la visione sulla fede religiosa era ben più sfumata di quello che tendenzialmente si pensa. La lotta contro la Chiesa ortodossa e l’espropriazione dei suoi beni era necessaria in quanto essa era un agente fattivo dello zarismo e praticava il latifondismo, eppure Lenin ci teneva a dire che se da una parte bisognava assolutamente diffondere le idee materialiste, dall’altra era necessario evitare di ferire i sentimenti dei credenti. Anche per questo, subito dopo la rivoluzione, il Partito comunista provvide subito a smantellare la russificazione zarista, ripristinando le autonomie politiche e culturali delle zone che avevano costituito l’Impero russo.
In tale frangente, il 24 novembre 1917, i bolscevichi pubblicano un appello “ai musulmani di Russia”: A voi tutti le cui moschee e case di preghiera sono state distrutte, le cui credenze e costumi sono stati calpestati dagli zar e dagli oppressori della Russia: le vostre credenze e pratiche, le vostre istituzioni nazionali e culturali da oggi saranno per sempre libere e inviolate. Sappiate che i vostri diritti, come quelli di tutti i popoli della Russia, sono sotto la potente protezione della Rivoluzione. Proprio in questi anni, infatti, l’Internazionale diventa realmente “internazionalista” assumendo in maniera esplicita il problema coloniale, e cominciando a stringere rapporti coi movimenti di liberazione nazionale che, dalla Turchia di Atatürk all’India, sono visti come attori fondamentali per la sconfitta dell’imperialismo francese e britannico. Ed è proprio in questo spirito che nel settembre 1920, si svolge a Baku in Azerbaijan il grande Congresso dei Popoli dell’Est che riuniva duemila delegati dall’Asia Centrale, alcuni iscritti al Partito comunista e altri legati agli allora nascenti movimenti panislamici, per discutere della liberazione dall’imperialismo degli Stati occidentali.
Il leader sovietico Grigorij Zinoviev inaugura i lavori con un discorso che ancora oggi dovrebbe essere materia di studio. Con assoluta onestà, comincia descrivendo la grande differenza che intercorre fra il bolscevismo e i movimenti confessionali, mettendo in chiaro che gli obiettivi a lungo termine dell’URSS sono profondamente diversi da quelli dei delegati panislamici: “Compagni, penso che il fatto di avervi detto francamente cosa pensiamo su queste difficili questioni e le nostre divergenze al riguardo, ci abbia avvicinati a coloro che hanno opinioni diverse dalle nostre, perché è meglio concludere accordi definitivi con franchezza piuttosto che avvicinarsi l’uno all’altro con l’ostilità nascosta nel cuore.” Ovviamente il tono perentorio di Zinoviev e la sua assoluta convinzione della giustezza delle proprie opinioni potrebbero apparire oggi come forme di paternalismo, ma una lettura più attenta mostra come questo sia stato un modo per mettere sul tavolo tutte le possibili contraddizioni e “andare oltre” per stabilire l’obiettivo comune. Continua infatti così: “L’Internazionale comunista invita i popoli dell’Oriente a rovesciare colla forza delle armi gli oppressori di Occidente; a tal uopo proclama contro di essi la guerra santa”. Le cronache dell’epoca raccontano che a quelle parole seguirono applausi tumultuosi da parte dei delegati, molti dei quali si alzarono in piedi brandendo spade, fucili e scimitarre, e gridando “jihad!”.
In quello stesso periodo, è proprio in URSS che si ha un forte incremento delle madrase, le scuole islamiche che, in alcune zone, istruiscono il 90% della popolazione a fronte di un restante 10% di chi scegli le scuole di Stato. Erano alcuni dei risultati della korenizacija (indigenizzazione), un processo di de-russificazione dell’ex Impero russo in virtù del quale “ogni nazionalità [sarebbe stata] rappresentata nel governo e nell’amministrazione in proporzione al loro peso nella popolazione”. Per favorire ciò, nei Paesi a maggioranza musulmana fu stabilito il venerdì come giorno di riposo e si istituirono due tribunali autonomi fra loro: quello rivoluzionario, che si rifaceva al codice penale comune in tutta l’URSS, e una corte islamica che applicava i principi della sharia. Tutto ciò, vale la pena sottolinearlo ancora una volta, non fu una “concessione” dei sovietici occidentali, ma la risultante dei processi di autonomizzazione dei Paesi che prima vivevano sotto il giogo imperiale degli zar. Questo periodo comincerà a declinare quando Stalin, sul finire degli anni Trenta, riprese il processo di russificazione. La Storia ovviamente non si ferma alla rivoluzione d’ottobre, e possono essere fatti milioni di esempi in cui il rapporto fra movimenti islamici e movimenti comunisti è stato di aperta ostilità, dall’invasione sovietica in Afghanistan alla repressione dei comunisti iraniani da parte dell’Ayatollah Khomeini. Quello che però si può trarre, a condizioni incredibilmente mutate, dalla sinergia iniziale fra bolscevismo e realtà religiose del cosiddetto “Sud globale” è, fondamentalmente questa: riconoscimento di reciproca autonomia di azione e di pensiero, fronte comune contro l’imperialismo. E qui torniamo all’oggi.
Oggi l’Islam politico è un soggetto che la sinistra non può far finta di non vedere, poiché oltre ad avere preso in carico – proprio dalla sinistra – la lunga tradizione anticoloniale e antimperialista declinandola nel panislamismo e panarabismo, esprime il bisogno di politico delle masse in tutto il mondo, Europa compresa. Basti guardare alle mobilitazioni in solidarietà al popolo di Gaza: migliaia di persone si riversano in strada ogni sabato in tutte le grandi città europee con una capacità di organizzazione e disciplina che nessun movimento di sinistra occidentale esprime più da decine d’anni.
Queste persone che nella nostra sicumera vorremmo “alfabetizzare politicamente” in realtà alfabetizzano noi, tanto che finalmente il tema dell’imperialismo statunitense e israeliano torna centrale dopo anni in cui, nella sinistra bianca, era rimasto relegato ai circoli “campisti”. Di fronte a questo fatto la sinistra occidentale, fragile e senza più né radici né egemonia, non ha che due scelte: il rifiuto, arrivando a rigettare in pieno questi movimenti in nome di un ateismo che puzza di stantio (o peggio, di suprematismo), o l’accodamento acritico e l’idealizzazione di interi popoli o movimenti. Su quest’ultima dinamica la critica di Renzi è parzialmente corretta, e anzi voglio andare più a fondo: idealizzare la resistenza palestinese è comunque una forma di orientalismo, che stereotipizza intere masse livellandone ogni differenza, esattamente come fa la propaganda occidentale filo-israeliana e islamofoba ma ribaltandola.
Ma questo è perfettamente normale nella misura in cui oggi “essere di sinistra”, in Occidente, significa tutto e niente, tanto che le uniche prospettive che sembrano dare le idee progressiste è la speranza della realizzazione di bisogni immanenti: la stessa speranza del capitalismo. L’Islam politico risponde invece a una crisi di egemonia che da decenni colpisce sia le sinistre occidentali che quelle arabe: dove i modelli socialisti crollavano, movimenti come Hezbollah in Libano sono arrivati a offrire un supporto economico costante alle persone meno abbienti. Da un punto di vista di politico, tutti i movimenti islamici, pur con le loro differenze, si posizionano come realtà emancipatrici dal colonialismo occidentale, tanto da aver non di rado raccolto il testimone delle lotte di liberazione decoloniali. La stessa questione religiosa che, per quanto possa trovarci diffidenti, risulta un elemento di aggregazione e ri-territorrializzazione soprattutto all’interno delle diaspore. Se c’è un piano su cui la sinistra occidentale deve competere con queste realtà, sta proprio nel contenderne l’egemonia su questi temi, e non accodarsi alla propaganda borghese che disegna questi movimenti come fanatismi disperati e oscurantisti. Purtroppo, nella postura di molte realtà o personalità di sinistra, viene in mente il vecchio adagio “chi non sa fare, insegna”.
Insomma, con quale coraggio una galassia frammentata come “la sinistra” (termine vago che include la qualunque, da Fiano a Rubio, dagli anarchici a Schlein), che in Europa è incapace da anni di mobilitare le masse – con la dovuta e fondamentale eccezionale delle realtà sindacali di base, dei movimenti transfemministi e di quelli ecologisti –, di costruire egemonia e di esprimersi a livello politico-militare, pretende di insegnare ad altri movimenti come si fanno le cose? Il nocciolo della questione non sta tanto nell’illegittimità di criticare la resistenza ad un’oppressione che non si subisce direttamente, quanto in un più semplice calcolo di pesi: “non esprimi neanche un briciolo della nostra forza, cosa parli a fare?” Per questo è interessante l’opinione dell’EZLN sull’Operazione “Diluvio di Al-Aqsa”, si può concordare, ma bisogna ricordare che loro sono una organizzazione che ha praticato e pratica ancora oggi la guerriglia, e pertanto ha una certa autorevolezza anche nel fare critiche. Noi no, e sinceramente mi sento spesso in imbarazzo per me stesso e per l’altro quando mi viene chiesto di fare distinguo o di valutare operazioni di guerriglia nell’ambito delle lotte di liberazione.
In definitiva, penso che purtroppo le dinamiche social abbiano amplificato degli equivoci, gettandoci in gigantesche echo chambers in cui si perde spesso il contatto con il reale arrivando, senza volerlo, ad alimentare inimicizie e diffidenze invece di cementare le alleanze per un grande movimento che si opponga al genocidio del popolo palestinese perpetrato da Israele con la complicità dell’Occidente. Parafrasando Majakovskij: non rinchiuderti, sinistra, nelle polarizzazioni online. Resta amico di chi tocca l’erba.