Viviamo in una nuova guerra fredda? A quanto pare. Solo che stavolta non c’è nessun vero conflitto ideologico dietro quello geopolitico, per cui la politica internazionale è costretta a inventarsene uno – ma non è nulla di strano, è solo la continuazione delle culture wars con altri mezzi. Alex Hochuli – co-autore del saggio La fine della fine della storia (Tlon, 2022) – sullo scontro globale fra wokeismo e tradizione.
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Il mese scorso la Federazione Russa ha annunciato che garantirà assistenza agli stranieri desiderosi di “fuggire dagli ideali neoliberali” promossi dai loro paesi. I richiedenti potranno trasferirsi temporaneamente in Russia, “dove regnano i valori tradizionali”. Il contrasto è netto: da un lato c’è la Russia con i suoi valori (questi, afferma in modo vago il comunicato, sono “elencati nelle basi fondamentali della politica della Russia in questo campo”) e dall’altro ci sono i paesi che “impongono atteggiamenti malsani ai loro cittadini”. Eravamo convinti di vivere in un mondo senza alternative, convinti che nel mondo ci fosse soltanto il capitalismo – come afferma il titolo del libro dell’economista Branko Milanovic, Capitalism, Alone. Ma no, non sei più costretto a essere oppresso dal pensiero unico che è stato egemone per quarant’anni: ora, almeno, puoi cambiare paese per sfuggirgli.
Si possono fare diverse osservazioni riguardo al decreto di Putin. Innanzitutto c’è l’opposizione tra neoliberismo e tradizione, che qui si basa sul presentare il neoliberismo in termini culturali. Il neoliberismo non è più inteso come una forma di gestione economica o di trasformazione dello stato – che la Russia ha ovviamente ed entusiasticamente fatto propria. Allora come può Mosca essere un rifugio dal neoliberismo? Può perché “neoliberismo”, nei fatti, viene ridotto a un sinonimo di “wokeness” – cioè alla crociata culturale del liberalismo incentrata su razza, genere e sessualità e basata sulla categorizzazione burocratica e sulla gestione dell’identità. Ma in realtà sappiamo tutti cosa vuole davvero dirci Putin: venite in Russia, qui non ci sono froci e trans; le donne stanno a casa, gli uomini escono e vanno a prostitute come Dio vuole che sia.
Tuttavia, in ciò che Putin sta cercando di fare c’è ben più che mero bigottismo. Da quando nel 1984 Frederic Jameson ha scritto per la prima volta del postmodernismo come logica del tardo capitalismo, è stata identificata una successione di “logiche culturali”. Nel 1997 Slavoj Žižek ha definito il multiculturalismo come la logica culturale del capitalismo globalizzato, e oggi si potrebbero scrivere infiniti saggi per dimostrare che nell’ultimo decennio sia stata la wokeness ad emergere come logica culturale del tardo neoliberismo. Eppure ciò che quest’ultima fase ha di particolare rispetto agli anni Novanta e Duemila è che stavolta è emerso un polo di opposizione più o meno credibile ad essa. Di fronte al “globalismo” abbiamo il populismo di destra, il sovranismo, il conservatorismo nazionale, e il tradizionalismo e l’autoritarismo in una certa misura strumentali della Russia putiniana.
È questo il volto della “nuova guerra fredda”? È così che verranno tracciate le linee del fronte? La guerra fredda originale fu uno scontro concreto tra due sistemi con proposte ideologiche divergenti. Oggi abbiamo tensioni geopolitiche tra il blocco statunitense e un’alleanza ancora in fase embrionale guidata dalla Cina, sì, ma sono motivata dalla semplice competizione capitalista. Il rivestimento ideologico è sottile: forse si tratta di “democrazia contro autoritarismo”… ma la democrazia in questione è sempre più diluita e compromessa. Oppure è stabilità (il socialismo con caratteristiche cinesi, la leadership del partito, ecc.) contro caos (il liberalismo stagnante, i sistemi elettorali bloccati). O ancora, forse la polarizzazione globale si muove fra valori della nazione contro quelli globo-homo, definito da Wikitionary come la “promozione dell’omosessualità, dell’economia neoliberale e dei valori progressisti, uniti alla limitazione paternalistica delle libertà da parte degli interessi aziendali e politici”.
Il punto è che nessuno sa davvero come caratterizzare la polarizzazione ideologica globale di oggi, per due semplici ragioni. Primo, perché tutte le caratterizzazioni qui sopra sono chiaramente faziose nella loro stessa definizione. E secondo, perché non esiste alcuna polarizzazione ideologica globale. Al contrario, l’arena internazionale non fa che riflettere lo sconvolgimento e l’irrealtà crescenti della politica interna e, al tempo stesso, contribuisce ad alimentarli.
Non c’è alcuno scontro tra capitalismo e socialismo, questo lo sappiamo. Ma non c’è nemmeno uno scontro degno di questo nome tra sinistra e destra, dove la prima, in termini molto generali, era un orientamento verso la pianificazione economica. Ciò che abbiamo è un continuo rimescolamento delle coordinate ideologiche, troppo complesso per essere spiegato dettagliatamente in questa sede. Alcuni lo chiamano diagonalismo, dove gli estremi opposti dello spettro politico si incontrano. Il termine viene utilizzato soprattutto per descrivere la destra cospirazionista – prendiamo, per esempio, l’idea che la migliore opposizione al neoliberismo sia l’omofobia – ma potrebbe essere applicato in modo appropriato anche per riferirsi al cosiddetto “centro liberale”. Che ha poco di “liberale” e, nella sua sete di guerra, controllo sociale e profitto, nulla di moderato o centrista.
È proprio questa ipocrisia che, trasposta in politica internazionale, Vladimir Putin ha sempre saputo sempre mettere in ridicolo con maestria. Il modus operandi di Putin potrebbe essere chiamato “trolling geopolitico”. Il sociologo e politologo russo Dmitri Furman ha parlato del sistema post-sovietico come di una “democrazia imitativa”. Nel mondo alla fine della storia descritto da Fukuyama, tutti i paesi dovevano essere democrazie liberali, o quantomeno fingere di esserlo. Ma dopo un po’ l’atto di fingere è diventato più importante di qualsiasi effettiva corrispondenza con la realtà. Putin trucca le elezioni non per dimostrare di godere di sostegno popolare, ma per dimostrare di essere in grado di truccarle, per mostrare di essere in controllo. O, per dirla con le parole di Ivan Krastev e Stephen Holmes in The Light that Failed, “ciò che la ‘democrazia controllata’ simulava…non era la democrazia, ma il controllo.”
A livello internazionale, il riflesso di ciò si è visto nel modo in cui Putin ha smesso di “imitare il sistema politico interno americano”, per iniziare piuttosto a “imitare il modo in cui gli Stati Uniti interferiscono nella politica interna di altri paesi”. A partire dal 2012, “il Cremlino è passato a una strategia di copia selettiva (o di violenta parodia) della politica estera occidentale”, tutto ciò per smascherare la retorica occidentale come falsa, le sue promesse come vuote e le sue azioni come ipocrite.
Nasce da qui il recente decreto di Putin: sembra prendere in giro l’accoglienza dei rifugiati da parte dei paesi occidentali, accogliendo auto-esuli in fuga dal globo-homo. Non è una satira al servizio della liberazione, ma del cinismo. Non c’è alcun impegno ideologico, nemmeno retoricamente – solo la derisione di una falsa fede.
Non per niente, di recente Žižek ha messo in guardia sull’avvento di un mondo sempre più cinico: “sì, l’Occidente liberale è ipocrita […] ma ipocrisia significa violare gli standard che si proclamano. […] Ciò che la Russia offre, al contrario, è un mondo senza ipocrisia – perché è privo anche di standard etici globali”. Il filosofo sloveno, il più grande critico dell’era poststorica, ci sta forse mostrando il suo stesso esaurimento, una nostalgia per la fine della Storia e per i suoi proclami sulla democrazia liberale. Ma la sua osservazione su un mondo senza ipocrisia merita una riflessione.
Ciò che ha riempito il vuoto è una proliferazione di simboli sempre più sganciati da qualsiasi significato. Conservatori evangelici sudcoreani, nazionalisti Hindutva e antisemiti francesi sventolano bandiere israeliane, mentre la sinistra sventola quella palestinese in nome di un indigenismo sangue-e-suolo. I liberali europei fanno causa comune con i neonazisti ucraini per combattere contro i sovranisti europei illiberali che tifano per la violazione russa della sovranità ucraina; e i russi, da parte loro, vengono accusati di essere comunisti. Nel frattempo, i nazionalisti brasiliani si vestono come il presidente libertario dell’Argentina e la Russia offre residenza temporanea ai nazionalisti stranieri senza che questi debbano dimostrare “la loro conoscenza della lingua russa, della storia russa e delle leggi fondamentali del paese” (alla faccia delle radici e della tradizione). Dopo aver sconfitto il comunismo, l’impero americano si trova in decadenza – ma ora deve affrontare orde di adolescenti con le bio social piene di bandiere di Iran, Corea del Nord e Siria, tutti che cianciano di “socialismo”.
La politica internazionale sta diventando un’asciugatrice nella lavanderia ideologica del XXI secolo. Ci si caricano termini del XX secolo vecchi ed esausti come socialismo, liberalismo e democrazia; quello che esce fuori sono capi scoloriti, ristretti, e ogni calzino ha perso il suo paio. Niente di tutto questo merita di essere definito con il termine “politica”. È una guerra culturale, su scala globale.
La prima guerra culturale della storia è il Kulturkampf nella Germania del XIX secolo – un conflitto tra lo stato tedesco e la chiesa cattolica sull’educazione e l’influenza religiosa in un contesto di secolarizzazione e formazione dello stato nazionale. Ma il termine oggi indica solitamente quella serie di battaglie politiche, giudiziarie e mediatiche seguite all’ascesa della Nuova Sinistra negli Stati Uniti, e alla successiva reazione conservatrice. Se queste riguardavano principalmente questioni culturali o di stili di vita, come il genere, l’educazione e la storia nazionale, ciò in cui sono oggi invischiati gli Stati Uniti (e sempre più anche il resto del mondo) è una “guerra culturale” di tipo diverso.
I temi del dibattito non sono più strettamente legati alla cultura, possono riguardare praticamente qualsiasi cosa. Ma fondamentalmente lo scontro si svolge sul livello dei simboli. Prendiamo l’immigrazione: è una questione di politiche concrete che affronta problemi che riguardano il lavoro, i servizi, la mobilità e la sovranità nazionale. Ma le nuove guerre culturali la riducono a un “che tipo di persona sei?” – se un patriota o un venduto; se un liberal dalla mente aperta o uno schifoso razzista. Le politiche vere e proprie sono, quando va bene, secondarie; e infatti Obama ha rimpatriato più immigrati di Trump.
Siamo oggi in grado di identificare tre aspetti delle guerra culturale globale del XXI secolo. Le guerre culturali nazionali adottano sempre più spesso simboli presi dalla politica internazionale – le già citate bandiere israeliana e palestinese, o russa e ucraina. In questo modo, pesanti questioni di politica internazionale diventano la materia prima per conflitti interni – in cui in palio solitamente ci sono stima e riconoscimento, non potere e influenza. Le guerre culturali nazionali, specialmente quelle statunitensi, diventano merci da consumare all’estero – uno sviluppo che, osservando la diffusione delle proteste di Black Lives Matter nel 2020, avevo definito come “il trionfo dell’idealismo americano”. L’idealismo americano è la nozione che la forza degli ideali americani sia sufficiente a trasformare il mondo: ironicamente, questa nozione viene ribaltata nell’epoca della globalizzazione e di internet, dove idee e simboli politici possono essere presi dagli eventi statunitensi a usati per i propri scopi, senza alcun adattamento al contesto.
Ma questa non è solo la storia dell’egemonia culturale americana. Vale la pena di ricordare come la scintilla dietro la conflagrazione ucraina sia stata in origine una guerra culturale su cosa quella nazione dovesse essere – con forze esterne che poi sono arrivate a sostenere una parte o l’altra. Ma quando c’è poco o nulla da guadagnare nel sostenere una parte o l’altra di un conflitto territoriale estero, questo sostegno non è profondo, a prescindere da quanto sia rumoroso sul momento.
La politica internazionale – che comprende diplomazia, commercio e guerra – diventa, in parte, un gioco fatto di pose culturali. Le ambasciate statunitensi vengono decorate con la bandiera arcobaleno, la Russia si traveste da bastione del tradizionalismo. La proiezione di potere nazionale tedesca prende la forma di un anti-nazionalismo europeo, Israele si fa portabandiera della civiltà occidentale. Hamas, Hezbollah, l’Iran diventano i difensori dell’innocenza e della giustizia. In assenza di progetti politici e adesioni ideologiche, le forme simboliche e i contenuti culturali diventano gli strumenti per proiettare e legittimare il proprio potere.
L’arena internazionale è sempre più pericolosa e piena di rischi. L’unipolarismo statunitense è stato accompagnato da fotografie sorridenti ai G7, G8 e persino G20. Il multipolarismo aumenta la posta in gioco – ma ne diminuisce la serietà. La politica estera è sempre quella più lontana dal controllo democratico, il che rischia di rendere gli affari internazionali uno spettacolo da fruire passivamente. Il vuoto della post-democrazia, a livello nazionale, ha fatto sì che negli ultimi decenni questa tendenza si esacerbasse. Oggi, tuttavia, abbiamo a livello domestico una scena politica sempre più calda, e tensioni internazionali crescenti nel mezzo del declino americano e dell’ascesa cinese. Ciò la rende più importante che mai. Ma senza una vera politica, tutto ciò che rimane è un proliferare di proclami, una lotta di simboli. Le bandierine nella bio che competono con il pussy in bio. Se tutto questo ti offende – come la destra dice alla sinistra, e oggi anche la sinistra alla destra – tornatene in Russia.